19.

BACI

Greenway non riusciva a far partire il cinematografo dei sogni e allora si vestì, scese sino alla veranda e poi s’incamminò verso la serra. Dalla serra passò al farfallario. Accese una candela, la infilò dentro un lume di vetro ed entrò nella stanzetta che preparava l’accesso ai differenti ambienti della struttura. Superati i primi, si trovò entro uno slargo irregolare, con alcuni alberi di melo a formare una piccola barriera. Agitò nell’aria il lume e sentì il nitido fruscio d’ali delle pavonie che gli volarono attorno. Le brune falene, le ampie ali di uccello notturno, quasi gli sfiorarono il volto e le mani. Di tutte le farfalle, egli amava soprattutto le falene, certo non per i loro colori, ma perché voleva immaginarle come ricamatrici che cucivano i lembi dell’oscurità, occulte e discrete come ogni cosa preziosa.

Attendeva con ansia il momento in cui sarebbero volate le grandi farfalle cometa, i giganteschi lepidotteri del Madagascar. Rimase ritto, il lume alzato sopra la testa, i saturnidi danzanti nella macchia di luce.

Red e Daisy stavano con il naso schiacciato contro i vetri del farfallario.

“Ecco il luogo segreto di Greenway,” bisbigliò Red che riusciva, dalla sua posizione, a intravedere solamente le scie di luce della candela. “Che starà facendo?” continuò a chiedersi, avanzando lungo le vetrate del farfallario e giungendo alla facciata posteriore della struttura.

Lì a fianco c’era la serra e si capiva bene che questa conteneva piante, si scorgevano lunghi bancali, le sagome vegetali, tubi che correvano a mezz’aria. Dalle finestre di ventilazione usciva un inconfondibile odore di muffe e umidità. L’altra struttura, invece, appariva indecifrabile, in alcuni tratti le vetrate, dall’interno, erano ricoperte da pannelli, forse di legno, e alcune zone erano tiepide. Red compì l’intero giro esterno del farfallario, tornando al punto dove aveva lasciato Daisy che continuava a spiare il signor Greenway.

Rimasero in attesa e dopo che l’uomo, richiusa la porta con delicatezza, tornò verso la Villa, s’infilarono prontamente all’interno. Avanzavano esitando, si distinguevano pareti divisorie, piante e macchie di canne, un rivolo d’acqua che correva a lato del viottolo. Red sfiorò alcune tende, gli sembrarono di garza e Daisy toccò delle gabbie, vicino alle pareti.

La ragazza, per prima, avvertì qualcosa nell’aria.

“Sembra un uccello…” fece appena in tempo a dire che qualcosa la sfiorò e il frullare era intenso. Altri battiti giungevano alle loro spalle.

“Pipistrelli!” urlò Red, indietreggiando precipitosamente. Finì contro un pannello, una sedia, rovesciò qualcosa provocando scompiglio, mise i piedi nel rigagnolo e riuscì a riconquistare la porta d’entrata seguito da Daisy, non meno turbata.

Fuggirono, andando a quietarsi dietro la serra.

“Alleva pipistrelli! Non è un farfallario!” boccheggiò Red.

“Impossibile,” bisbigliò Daisy.

“Mi ha sfiorato una mano, era peloso… disgustoso. Voleva mordermi…”

“No, no, aspetta Red! Fammi pensare… I pipistrelli vivono nelle grotte e stanno al buio durante la giornata…”

“E allora?”

“… e non ci sono finestre aperte né altre vie di uscita. Di che cosa si nutrono i pipistrelli se non escono di sera?”

“Sangue! Ecco a cosa servono i vecchi! Il signor Greenway se ne serve per nutrire i pipistrelli…”

“No, no. Red, non sono pipistrelli. Forse ho capito…”

Daisy tornò correndo verso il farfallario, seguita da Red.

S’infilò nel locale muovendosi con sicurezza e trovata la zona con le piante iniziò a sfiorare i rami e i tronchi, come se stesse cercando qualcosa.

“Non alleva pipistrelli,” disse e teneva le mani chiuse, appoggiate l’una sull’altra.

Daisy allargò le dita, mostrando una pavonia che a fatica riusciva a tenere e che si dibatteva sollevando una polvere di scaglie.

“È proprio il farfallario!” sussurrò Red.

Con la punta di un dito cercò il contatto con l’insetto. Non ne aveva mai viste di tale forma.

“Sarà preziosa?”

“Credo di sì.”

La ragazza tornò verso le gabbie che aveva visto, servivano per lo sfarfallamento e anche i tendaggi erano necessari per trattenere le farfalle adulte. C’era una lunga scaffalatura di legno, con molti contenitori; Daisy ne prese uno e Red toccò al suo interno. Erano crisalidi.

“Un tesoro,” disse Daisy.

“Le prenderemo tutte, vero Daisy?”

“E come le portiamo via senza che ci stacchino la testa dal collo?” Daisy mise un tono cupo nella voce.

“Riempiamo le garze che ho visto prima. Oppure, no, no, aspetta! Rubiamo le scatole di crisalidi. Tutte quelle che possiamo!”

“Non so. Ho paura che ci siamo illusi.”

“Non capisco.”

“Perché siamo qui?” chiese Daisy.

“Devi dirlo tu perché questo posto era tanto importante! Non lo è più? Cosa è cambiato?”

“Sono confusa,” disse Daisy.

“Sei confusa perché ascolti quella donna, madame Lamarr. Lei ti confonde!”

“Non è così.”

“Cosa dobbiamo fare? Torniamo a casa senza aver combinato nulla?” Red le si avvicinò, a separarli appena un passo di distanza.

Forse non erano mai stati tanto vicini. Forse per questo la baciò frettolosamente sulle labbra. Perché non erano mai stati tanto vicini.

Poi si ritrassero, fecero un po’ di sconquasso, sentirono il rumore, poi ancora i piedi nell’acqua del rivolo.

E scapparono.

Greenway non fece subito ritorno alla sua stanza. Era una di quelle notti lucide, dove i pensieri vincono sui sogni, e conveniva guardare il cielo.

Lungo il sentiero che dagli orti portava alla villa, all’altezza della biforcazione che conduceva verso l’edificio dove alloggiavano Emily e Melchiorre, vide una luminescenza. Avanzò di qualche metro in quella direzione e scorse, su un davanzale, una candela tremula. Sapeva che Emily, in certe notti, amava lasciare quella testimonianza luminosa. Non le aveva mai chiesto il perché.

Si accorse che la donna stava seduta sotto il davanzale illuminato dalla candela. Era appoggiata al muro di pietre, gli occhi chiusi, le mani in grembo.

“Sta male?” le chiese precipitosamente Greenway.

Emily spalancò gli occhi, sorpresa di vederlo lì.

“No,” rispose.

“È preoccupata per i sentimenti del signor Darwin? Ho visto come le stava vicino questa sera.”

“Un poco. Non era mai accaduto.”

“Che cosa?” chiese Greenway.

“Una situazione come questa.”

“Sì, il signor Darwin le mostra un affetto particolare.”

Emily sgranò gli occhi.

“Come se mi amasse?”

“Diciamo di sì.”

Emily sorrise appena.

“Una brava cuoca è sempre amata.”

“Vero,” ammise Greenway.

“Anche lei mi ama?”

La domanda rimase nell’aria, la candela vibrò.

“Oh, sì, certamente,” si sbrigò a dire Greenway.

“Non è vero. Io la amo, signor Greenway.”

Emily si alzò, oscurava la candela che le ricamava un bagliore tra i capelli.

“Io la amo come una donna ama un uomo, non come la sua cuoca di fiducia. Io la amo senza parole, ma non senza azioni. Penso a nutrirla ascoltando il suo animo, sento le sue giornate, percepisco i suoi sogni. La amo in silenzio, e non per paura. La amo in silenzio per non mettere a lei paura…”

“Di che paura sta parlando?” chiese Greenway turbato.

“Non dell’amore, certo. Perché in quello che sta facendo l’amore c’è. Ma si è trasformato. Anzi si è frazionato. Lo distribuisce a molti e non saprebbe più concentrarlo su un’unica persona. Quello che lei ha appreso dalla vita, o ha pensato di apprendere, è che si soffre meno se l’amore diventa una manciata di semi, perché qualcuno comunque attecchirà. E non ho mai pensato di provare a incrinare questa sua convinzione. Che forse è una conquista.”

“Che succede?” si chiese smarrito Greenway, mentre Emily si avvicinava.

“Succede che le cose si rimescolano. Che le correnti che non abbiamo percepito per anni, apparentemente all’improvviso, ci spostano.”

“Verso dove?” mormorò Greenway.

Emily gli prese una mano.

Greenway sentì che avrebbero potuto abbracciarsi.

Forse per questo nel cielo scoccarono lampi, che parevano uscire dal mare.