Il signor Flood non trovò strano che la porta del farfallario fosse aperta. Provò a interrogarla e, non ricevendo risposta, proseguì oltre, verso il bosco che ancora non era del tutto illuminato.
Della porta aperta se ne accorse più tardi Melchiorre. Non riusciva credere ai suoi occhi, spalancò la bocca e gli tremarono le gambe, prima di partire al galoppo per avvisare Greenway. Lo trovò seduto nella veranda, a sfogliare il giornale.
“Venga!” disse Melchiorre e il tono era inequivocabile.
Quando Greenway giunse, trafelato, di fronte al farfallario, chiuse gli occhi per non vedere.
Una notte intera con la porta aperta significava una variazione di temperatura e umidità. I lepidotteri potevano aver subito dei danni.
Esitava.
“Vuole che entri io?” chiese Melchiorre.
Greenway fece un segno di diniego. Respirò. Il termometro all’entrata della struttura segnava cinque gradi in meno rispetto al valore normale. Si fece coraggio.
Gli esemplari adulti sembravano semplicemente addormentati e Greenway sperò che, con l’aumento della temperatura, avrebbero potuto riaversi. Controllò ancora il termometro e l’igroscopio. La notte, fortunatamente, non era stata troppo fresca e la temperatura all’interno non era precipitata. Forse le crisalidi non avrebbero patito per l’incidente.
Notò un po’ di confusione, una gabbia per lo sfarfallamento spostata, vasi di fiori rovesciati e alcuni contenitori per crisalidi caduti a terra, i bozzoli sparpagliati come inutili frammenti di corteccia.
Uscì dal farfallario infuriato. Fece cenno a Melchiorre di seguirlo. Giunto nella sala pranzo si piantò di fronte al tavolo dei ragazzi.
“Voglio il numero di telefono dei vostri genitori. Subito!” E il tono della voce era così rabbioso che madame Lamarr scattò in piedi.
“Che sta succedendo?” chiese avvicinandosi a grandi passi.
“Mi lasci fare!”
“Signor Greenway, le ho chiesto cosa sta succedendo…”
“Stanotte, qualcuno di loro è entrato nel farfallario, l’ha messo in disordine e poi ha lasciato la porta aperta! Non so perché l’abbiano fatto, forse per qualche intenzione malevola. E comunque potrebbero aver causato una catastrofe. Voglio parlare con i loro genitori e spedirli a casa stasera stessa.”
L’uomo e la donna si guardarono.
“Non sta esagerando? Per qualche crisalide?” chiese madame Lamarr, ma Greenway la zittì puntandole contro la mano aperta.
Stones, dal tavolo degli ospiti, alzò un dito, mentre Boyle applaudì in segno di assenso.
“Signor Greenway, è domenica,” disse Stones.
“E allora?”
“L’unica corsa del traghetto è a mezzogiorno.”
“E per mezzogiorno saranno pronti!”
Ci fu uno scompiglio generale.
I ragazzi s’erano alzati tutti in piedi, Saul stringeva tra le mani dei biscotti come se fossero razioni d’emergenza e Daisy scambiava sguardi con Red, che sembrava in difficoltà. Fu a lui che Greenway si rivolse chiedendo che scrivesse, immediatamente, il proprio nome e cognome e il numero di telefono dei genitori.
“Ho solo mia madre,” tentò di difendersi Red.
“Mi basta,” sbottò Greenway.
“Non ho carta e penna.”
“Melchiorre!” e il giovane corse nello studio tornando con l’occorrente.
Il foglio bianco stava sul tavolo, di fronte a Red. Tutti i ragazzi dietro a trattenere il respiro, persino Daisy.
Red afferrò la penna, perse del tempo per estrarne la punta, scarabocchiò sul bordo del foglio e infine scrisse una sequenza ordinata di numeri. Greenway, non soddisfatto, fece girare il foglio così che ogni ragazzo indicasse il numero di telefono delle proprie famiglie. Solo Imre obiettò.
“Mia sorella non risponde mai al telefono. A casa rispondo sempre io. Ma io non ci sono, e non risponderà nessuno.”
Greenway raccolse il foglio e si ritirò nello studio. I ragazzi, mestamente, salirono le scale per tornare alle loro stanze, Daisy davanti e Red in coda, solo Flood cercò di seguirli, fermandosi dopo pochi scalini.
Nello studio, il telefono non diede il responso sperato. Numero inesistente, numero inesistente, numero inesistente.
“Numeri falsi,” comunicò Greenway agli ospiti.
Solo il numero, contrassegnato con il nome di Imre, aveva squillato a lungo, vanamente.
“Teppisti!” e il signor Boyle sembrava sempre più agguerrito nei confronti dei ragazzi.
“Posso provare a parlarci io?” implorò madame Lamarr.
La donna stava salendo le scale e si trovò di fronte Daisy.
“Madame, devo rivelarle un segreto,” Daisy aveva gli occhi spiritati.
“Ti ascolto…”
“Siamo scappati…”
“Dalle vostre famiglie?”
“Da un orfanotrofio.”
Madame Lamarr strinse gli occhi cercando di pesare nella mente il suono di quelle parole.
“Ma avevate detto di avere famiglia…”
“Bugie. Ci siamo inventati ogni cosa. Ebony racconta di essere stato adottato da una famiglia di neri. Ed è bianco. Le sembra possibile? Sono bugie. Siamo scappati.”
“Vi trattavano male?”
“Ci sentivamo senza speranza.”
“Capisco. Ma come mai siete venuti proprio qui?”
“Avevo visto questa villa in una rivista. Ero in infermeria, un giorno, e l’inserviente si siede al tavolo per riposare, legge delle riviste e poi le dimentica. Non abbiamo quasi mai giornali o riviste. Le ho prese e tenute con me. C’era un lungo articolo dedicato a questa villa, le fotografie…”
“E, nell’articolo, si diceva cosa si faceva in questa villa?”
“Sì, che era la meta preferita di anziani signori. Uno splendido posto di vacanza. Ho pensato: anch’io vorrei andare in vacanza lì e non vedere mai più le porte sgangherate dei bagni, le camerate strette come un corridoio senza fine. Non vedere Nolan che pulisce, accende le caldaie, ripara vetri e finestre. Nolan che ci spia…”
“Poveri ragazzi. Adesso ne parliamo. Voi rimanete nella vostra stanza,” madame Lamarr cercò di essere rassicurante.
“Cosa? E non le hanno detto il nome dell’orfanotrofio?”
“Veramente no…”
“Non darà credito a una simile bugia?” Boyle stava per uscire dalla sala da pranzo, ma vista madame Lamarr era rimasto per ascoltare ciò che stava riferendo agli ospiti.
“Perché dovrebbe essere una bugia? Non vede quanto sono uniti? Dove vuole che abbiano imparato un tale legame? In famiglia? No, è l’unione che nasce dalle difficoltà…”
Syd non riuscì a trattenere un sorriso.
“Quella ragazzina non solo ha un bel viso, è un’attrice nata.”
“So cosa vuol dire recitare!” Madame Lamarr si inalberò, fronteggiando Syd.
“Guardi, Hedy, che mi hanno fornito numeri di telefono falsi. Tranne Imre. E solo il suo telefono ha squillato. Non sta in piedi. Avevo già sospettato che il loro malore non fosse autentico, ma immaginavo che avessero bisogno di tenersi per un po’ fuori dalla portata dei grandi. Chi di noi, da ragazzo, non ha commesso qualche sciocchezza? Perché non proteggerli, ho pensato. Tuttavia, ho trovato strano che non si preoccupassero realmente per le loro famiglie, ma adesso credere che siano fuggiaschi da un orfanotrofio mi pare davvero eccessivo. Anche se devo ammettere che la cosa mi metterebbe di buon umore.”
“Perché, Greenway?” chiese il signor Stones.
“Perché è una buona notizia che si riesca ancora a scappare da una simile galera, anche se non credo, per un solo istante, a una tale possibilità. In quei luoghi si impara che l’unica via di scampo è una famiglia e non la fuga e tanto meno un’avventura. Non c’è persona più realista di un orfano.”
“Quindi?”
“Signor Stones, ho riflettuto sulle ipotesi avanzate dal signor Syd e mi sono convinto che siano partiti da qualche famiglia sventurata, da qualche luogo impossibile e che siano giunti sin qui deliberatamente. Inseguendo qualche pericolosa aspettativa.”
“Perché pericolosa? Greenway, lei sta perdendo la testa perché qualcuno è entrato nel suo tempio senza chiederle il permesso!” Madame Lamarr sembrò insorgere.
Greenway lasciò che si calmasse.
“Ho già preso una decisione, voi non dovrete preoccuparvene. Fra poco manderò Melchiorre al porto ad acquistare i biglietti per il traghetto. Che tornino alla loro vita. Qualunque essa sia.” Greenway pareva irremovibile e negli occhi della donna passò un guizzo di paura, che non riuscì a controllare. Greenway lo notò, e ne provò dolore.
Stones e Flood erano rimasti seduti al tavolo, cincischiavano con le tazze della colazione, un poco smarriti, stanchi. Flood distolse lo sguardo, lanciato attraverso la finestra sui bordi delle grandi querce, sui contorni vibranti, verso il cielo torbido. Si immerse in calcoli di superfici, oscillazioni, fotoni, nuvole e piume di colombo.
Melchiorre si catapultò nella stanza, balbettava, avrebbe voluto urlare invece sillabava malamente una D, una R, una W.
Gli ospiti si accorsero che Darwin non c’era, aveva bevuto solo un caffè e poi li aveva abbandonati, uscendo senza dire una parola.
“Signor Greenway… è successa una cosa terribile… in cucina…” farfugliò alla fine Melchiorre.
Greenway aveva già intuito e si precipitò verso l’edificio dove alloggiavano Emily e Melchiorre.
Lo vide subito, il signor Darwin. Stava seduto sulla vecchia poltrona che sir Attlee diceva essere stata di un vecchio generale prussiano a cui piaceva più la birra che i cannoni.
Indossava il bel vestito grigio scuro, la camicia bianca e un papillon granata, la stessa tonalità del fazzoletto che gli usciva da una tasca dei pantaloni, forse un ultimo gesto.
Emily non lo guardava, mescolava una zuppa e canticchiava una canzoncina, quelle dei naviganti, fatta di parole come approdo, vele e stelle nelle notti buie. Mescolava, cantava e piangeva.
Greenway tastò il polso al signor Darwin e poi pose l’orecchio sul petto incontrando quel silenzio dove non c’è fluido che scorra né corrente elettrica che accenda anche solo una, brevissima, scintilla. Guardò quel corpo, l’eleganza non lo aveva mai tradito, il respiro sì.
“Il signor Darwin è arrivato presto,” mormorava tra sé Emily, “più presto del solito, perché aveva l’abitudine di passare prima di recarsi negli orti, asciugava le posate e si ostinava a mettere ordine sul bancone da lavoro, a me non piaceva che mettesse ordine, era un ordine disordinato, un allineamento degli oggetti che non aveva nulla di pratico, l’ordine è quando le mani trovano le cose senza doverci pensare, ma lui era così, formale, gli dicevo che era un uomo che teneva troppo alla formalità, troppo ai suoi vestiti, ai suoi panciotti, alle cravatte, alle scarpe pulite e una volta, mentre gli dicevo questo, all’improvviso, mi ha dato un bacio, un bacio sulla bocca, uno schiocco e non me ne sono vergognata, non mi è dispiaciuto, un bacio è sempre un bacio, un omaggio, una sospensione del tempo, e lui diceva che si era innamorato, era un bugiardo, ma ci piaceva credere che fosse una bugia piena di verità e che si potesse dirla senza fare del male a nessuno…”
“Emily…” Greenway si avvicinò sino a stringerle la spalla. “Melchiorre, va’ a controllare che i ragazzi non notino nulla,” ordinò.
Imre, che aveva visto l’affanno degli adulti e li aveva seguiti, s’era appoggiato su un vaso da fiori e, allungandosi, aveva spiato all’interno della cucina notando il trambusto e il povero signor Darwin immobile come un cuscino. Era tornato di corsa alla villa, lasciandosi dietro una scia di esclamazioni e, salite le scale a balzi, l’aveva comunicato ai compagni.
Quando giunse Melchiorre, pregandoli di rimanere per un po’ nelle loro stanze, erano già al corrente dell’accaduto.
“È morto il signor Darwin,” disse Imre e Melchiorre non seppe cosa rispondere.
Gli turbinò nella mente che forse era il caso di portarli all’imbarcadero, di allontanarli, di togliersi quel fastidio di torno. Poi si rese conto che avrebbero dovuto imbarcare i ragazzi assieme al feretro di Darwin. Non sarebbe stato un bel viaggio.
Scosse debolmente il capo.
Darwin, nelle sue carte testamentarie, aveva chiesto che a morte avvenuta fossero avvisati gli ospiti e offerto, a chi lo gradisse, un buon bicchiere di Porto. Inoltre, a differenza del signor White, che aveva voluto dissolversi in un silenzio assoluto, Darwin aveva concordato con Greenway un’opportuna pubblicizzazione sul giornale locale e una sepoltura in terraferma, presso la magnolia del parco di Newsburry, cittadina nella quale era nata una zia materna, l’unica, tra i parenti, defunta a mezzanotte in punto.
Dopo le undici, giunse un vecchio furgone con una bara di colore chiaro e tutti gli ospiti si disposero lungo il viale, per dare un saluto al corpo del signor Darwin in partenza verso una magnolia. Il signor Flood rincorse il feretro sino al cancello, appeso alla maniglia dello sportello posteriore del furgone. Come saluto disse che la chimica alla fine è traditrice, i legami si formano e si rompono, senza tregua.
Madame Lamarr si asciugò una lacrima. Alzò gli occhi all’edificio e vide, affacciati alle finestre, i ragazzi; fece un cenno a Daisy che la scrutava. Decise che li avrebbe informati.
Li trovò tutti in una stanza e, senza preamboli, disse che uno degli ospiti era morto.
“Il signor Darwin era una brava persona. A questo punto, siamo tutti delle brave persone…”
“Credo che sia il caso di andare via,” disse Daisy guardando anche gli altri.
“Non è accaduto nulla che non dovesse accadere. Tutto questo è normale. Doloroso, ma normale. Rimanete ancora un po’, per favore.”
“Forse il signor Darwin è morto perché abbiamo creato dei fastidi…”
“No. Era già scritto. Siamo qui per questo.”
Saul era rimasto molto colpito dalla morte del signor Darwin, morire è come salire su un treno in ritardo. Un’attesa, uno stridio di freni, una porta che sbatte. Niente altro. Il giorno prima lo aveva visto lavorare la terra e curare le piante come fanno le persone vive, con attenzione e senza pena. Si sforzò di immaginare da dove fosse partita la morte, come una sorta di scintilla, dal cuore o dal cervello. Da dove inizia la rottura dei fili della vita?