21.

SEGRETI

Il signor Greenway e Melchiorre decisero di accompagnare il feretro sino al porto, tutto era già stato concordato.

Greenway, durante il tragitto, continuava a tormentarsi per non aver notato, negli ultimi giorni, nessun segno imminente della fine sul volto del signor Darwin: né l’affilarsi del naso e delle labbra, né il velarsi dello sguardo e nemmeno il rinsecchirsi della pelle delle mani o l’intorbidirsi e scurirsi dei percorsi venosi. Provava una grande amarezza per una morte tanto improvvisa. Le crisalidi di Charaxes, che aveva dedicato al signor Darwin, non erano ancora sfarfallate. Se n’era andato prima che i suoi lepidotteri vibrassero, liberi, sopra il prato. Con il signor White, al contrario, gli eventi avevano rispettato l’ordine: era venuto meno mentre le sue Papilio machaon sorvolavano i prati.

L’arrivo dei ragazzi era come un vento entrato nella Villa portando con sé odori, ma anche polveri, rimescolamenti che non sembrava possibile contenere. Greenway appoggiò la testa sul finestrino e chiuse gli occhi, mentre Melchiorre guidava in assoluto silenzio.

Gli altri ospiti non si recarono negli orti . Per onorare la scomparsa del signor Darwin lasciarono che il tempo scivolasse via.

Il signor Stones si recò in biblioteca dove trovò un testo di poesie, mostrandosi, a tratti, illuminato, come avesse trovato qualche decisiva verità.

Madame Lamarr, seduta sulla veranda, sorseggiò solamente del tè all’arancio. Poi andò a stendersi sul prato, a percepire la capillarità dell’acqua e a infilare tutto il cielo negli occhi e, cercò di svuotare i peggiori pensieri, il ricordo del primo marito, mai rimpianto, un uomo per il quale la volontà era tutto; non muori se non vuoi morire, le sembrò di sentire le sue parole. Vallo a dire ai meningococchi, era morto di meningite. Purtroppo, le forme di vita inferiori non hanno accesso a concetti sublimi come volontà, forza e determinazione.

Però non era morto male, a ben pensarci. Disteso sul letto, pallido, a volte sudato, la voce flebile e infine aveva raccontato le cose più strampalate di sé: dei grandi ponti che non aveva mai costruito, del cinese che veniva con un pullman per condurlo in biblioteca, degli stormi di tucani che battevano il becco sopra la sua testa. E madame Lamarr aveva imparato che con gli uomini non basta la pazienza, bisogna saperli mettere alla porta, come si fa con una sgangherata avventura economica, e le tornò in mente la fortuna che aveva dilapidato per rimettere in sesto una fabbrica di cappelli di paglia. Un meraviglioso fallimento. Scoppiò a ridere, almeno lì si era divertita a far lanciare la montagna di cappelli, invenduti, uno a uno, nella corrente del Tamigi.

Il signor Flood andò a fare una breve visita ai fagiolini, verdi e fitti come una famiglia irlandese. Lo fece perché gli sembrò che numerare i baccelli, stimare il numero di semi e trovare, infine, qualche riassunto logaritmico che li esprimesse fosse un modo adeguato per ricordare il signor Darwin.

Syd decise di perdersi negli orti, un largo cappello bianco sul capo e un bastone a cui appoggiarsi. Il calore della terra quando fu tra i vialetti, umido e odoroso, parve strozzargli il respiro. Volle assaggiare un pomodoro, spingendosi lentamente sino al filare e, aggirandosi furtivo come se qualcuno lo stesse spiando, raccolse una bacca dorata.

Percepì gli sguardi dei ragazzi che lo avevano seguito e girò di scatto il collo, come un periscopio, per chiamarli a gran voce:

“Venite! Sia benedetta la natura! Sto benissimo…”

Sollevò le braccia al cielo come non gli accadeva da tempo, lunghi fili molli e curvi che disegnarono il profilo di ali senza potenza. Sollevò, anche, una gamba e, per un istante, imitò un airone. Quando i ragazzi lo circondarono, si accorsero che grosse lacrime si perdevano su quel volto rugoso e lui cercò di convincerli che si trattasse di gioia.

Il signor Greenway e Melchiorre tardavano.

Red e Daisy avevano lasciato gli altri a vagare tra gli orti e il prato.

“Che significa per te la frase che ha detto madame Lamarr?” chiese Daisy.

“Quale?”

“Che loro sono qui per questo. Non ho capito.”

Red scosse la testa.

“Non sappiamo niente di cosa succede in questo posto. Perché i vecchi sono qui?” disse.

“Red, è un ospizio per ricchi. Di questo sono sicura. No, madame Lamarr voleva dire qualcosa…”

“Allora andiamo a cercare informazioni!” esclamò Red.

“E dove?”

“Nella stanza del signor Greenway. Vedrai che qualcosa troviamo.”

La stanza non era chiusa a chiave. S’intrufolarono di soppiatto, trattenendo il respiro. Trovarono la camera arredata con essenzialità, niente alle pareti, mobili semplici, la scrivania ordinata.

Esitavano, immobili al centro della stanza, indecisi su cosa fare. Daisy si avvicinò alla scrivania e aprì i cassetti. Red si occupò del grande armadio, vide i ripiani colmi di plichi, fogli e cartelle. Ne aprì una.

“Ehi! Sono informazioni sul signor Boyle. È un avvocato di fama internazionale. Prendine una anche tu,” disse Red.

Daisy cercò la cartella che portava il nome di madame Lamarr.

Lesse il primo foglio.

“È una ricca ereditiera. Ed è stata anche un’attrice di teatro.”

“Ma qui ci sono cose da dottori,” esclamò Red.

“Che vuoi dire?”

“Leggi quella che hai in mano sino in fondo. Io ne apro un’altra.”

E Daisy lesse.

“È il loro stato di salute!”

“Credo che vengano qui per morire,” bisbigliò Red.

“… Morire? Non… è possibile! Allora… non è un posto per persone in vacanza!” Daisy vide l’immagine di sua madre, della dolce balena, pensò che lei fosse a conoscenza della natura del Senior Hotel e le salirono le lacrime.

“Che storia! Cosa si fa adesso?” fece Red, anch’egli in preda alla confusione.

Il signor Greenway aveva aspettato che il traghetto salpasse dal molo con a bordo il corpo del signor Darwin. All’arrivo sarebbe stato preso in carico da un’agenzia funebre. La stessa agenzia aveva un dipendente fidato che, nottetempo, avrebbe trasportato il corpo sino al parco pubblico di Newsburry, e lì, con l’aiuto di uno spalatore compiacente, avrebbe restituito il signor Darwin alla terra.

Tornato alla Villa, Greenway si recò nel suo alloggio. Si sedette sul letto per sfilarsi le scarpe e si ritrovò a pensare che era giunto il tempo di preparare Melchiorre all’allevamento delle farfalle cometa, avrebbe dovuto trasmettergli i segreti su come far schiudere i bozzoli, e non solo di quel meraviglioso lepidottero che amava, anche di tutti gli altri.

O forse di più. Era giunto il tempo che gli insegnasse ogni cosa, dalla cura degli uomini alla gestione delle serre, alla cura delle farfalle. All’apprendere come associarle agli ospiti, a valutare quando lasciare libere le farfalle nel periodo in cui l’ospite avrebbe abbandonato il mondo.

Sapeva che ci sarebbero voluti anni. Pensò che, forse, era già in ritardo. Ammesso che Melchiorre accettasse di assumersi quell’impegno e dimostrasse di saperlo mantenere nel tempo. Il tempo degli altri è sempre sconosciuto.

Greenway era stato un esecutore di volontà finali degli ospiti e le aveva applicate alla lettera, senza discutere, senza giudizi. Le aveva eseguite: stravaganti e incredibili, miserabili e meschine. Era parte dei patti tra galantuomini, del suo senso di lealtà. Sapeva che tutto si riduceva, nei fatti, a un puro legame di fiducia, ed era quella responsabilità che avrebbe dovuto assumersi Melchiorre: costruire una fiducia indistruttibile.

Melchiorre era tornato frastornato. Greenway gli aveva chiesto, come mai aveva fatto prima, se si sentiva realizzato in ciò che faceva. Aveva risposto di sì. Stava imparando molte cose. Ed era vero. Si sentiva ancora insicuro, ma cominciava a percepire l’universo della Villa come più familiare, come se ci dialogasse, anche quando stava in silenzio, anche solo respirando.

Immerso in quei pensieri andò a sedersi in riva al laghetto, accanto alla statua del Tempo. Avrebbe dovuto sistemare le balle di paglia per la pacciamatura degli appezzamenti, invece le lasciò accatastate su un fianco della serra. Si disse che l’avrebbe fatto domani.

Domani è un pesce che abbocca, anche a occhi chiusi.