Un’oca bianca trotterellava accanto al muro di cinta, dove le querce s’appoggiavano solo per ascoltare un rumore d’onda che giungeva sino alla Villa, perché era chiamata così da sempre: la Villa.
Un piccione o una ghiandaia, invece, avrebbero potuto sorvolare l’imponente cancello di ferro e sfrecciare lungo il viale alberato, saltellare sulla scalinata grigia per poi innalzarsi sopra i volumi del vecchio edificio, i suoi tetti, i camini e tuffarsi verso il prato, cercando infine le calde vetrate della serra per acquietarsi sul parafulmine del farfallario. Era la struttura costruita in tempi più recenti, a testimonianza che non erano mancate le trasformazioni nella Villa e che essa non era un frammento di tempo in attesa che le travi marcissero, le tegole e le imposte si sbriciolassero masticate dal vento e dall’umidità.
La Villa viveva. Di vita aggrovigliata e ritta, rotonda e frastagliata, secolare ed effimera: alberi del bosco, prati, piante coltivate, scoiattoli, insetti. E radici e foglie caduche, aldeidi profumate e resine, il brulichio di larve nelle pozzanghere e il volo dei lepidotteri.
La Villa era un giardino multiforme, “e se ti lascerai governare da un giardino di meraviglie, avrai costruito l’unico paradiso da cui nessuno potrà mai cacciarti”, diceva sir Reginald Attlee, il precedente proprietario, pensiero condiviso anche dall’attuale, il signor Greenway.
Il sole saliva, Melchiorre era già corso per i prati a spaventare i corvi perché neri voli, in un giorno tanto speciale, potevano impressionare negativamente gli ospiti.
Il signor Greenway sbirciò l’orologio: aveva visto il signor Flood nel vialetto, invece Eugene non era ancora sceso dalla sua camera. A meno che non fosse uscito all’alba e si fosse già perso nel bosco. Erano due ospiti, per così dire, di vecchia data, essendo alla Villa dall’ottobre precedente. Per la verità, il signor Flood era arrivato esattamente il 3 settembre. Otto mesi prima, un tempo sterminato.
Eugene non si faceva trovare, e il signor Greenway non poteva mancare di rispetto ai presenti già in trepidante attesa ai piedi della scalinata. Stavano alti e bassi come note su un pentagramma, ma a Greenway non interessavano quelle loro prime espressioni, l’abbigliamento e tutti i piccoli trucchi per mostrarsi o celarsi, nella Villa non serviva prendere tempo.
Con voce ferma espose ciò che aveva detto a Melchiorre il giorno precedente. Non aspettò alcun commento da parte degli ospiti.
“Il giardino di questa villa è uno dei più belli d’Europa, ma non è per questo che siete qui, siete qui per coltivare,” concluse senza altri preamboli. Le parole ondeggiarono un poco nell’aria. Naturalmente gli ospiti erano a conoscenza della natura di quella Villa e i loro sguardi si incrociarono. Avevano alle spalle settimane di telefonate, lettere, precisazioni e chiarimenti con il signor Greenway.
“Potremo seminare?” chiesero gli ospiti in coro.
“Certo. Le vostre verdure diventeranno il cibo quotidiano della nostra tavola. Esse, inoltre, saranno valutate per dimensioni, colore e sapore, e a partire da un determinato momento, e senza che ne abbiate preavviso, invieremo i prodotti del vostro impegno a una commissione che si esprimerà sulla loro qualità. Immagino comprendiate che sto parlando di una giuria di assoluto prestigio. Chi otterrà i migliori risultati riceverà, dal direttore dell’Orto botanico nazionale in persona, l’encomio dell’Accademia reale di orticoltura. Qualche domanda?”
Lievissimo scuotimento del capo da parte degli ospiti: niente da obiettare o, forse, anche a causa di un po’ di dolori cervicali.
“Oltre alla cura dei vostri appezzamenti, contribuirete alla vita della villa e alla conservazione del nostro patrimonio vegetale.”
Il giovane Melchiorre comparve d’incanto e venne spedito a cercare Eugene.
Greenway si diresse verso gli appezzamenti, seguito dagli ospiti. Scelse il percorso più lungo, così che iniziassero a misurare il luogo. Voleva che i loro occhi entrassero in confidenza con le forme viventi, il portamento delle magnolie, dei tassi, delle sequoie, delle querce e dei salici; voleva che venissero sfiorati dai cespugli di rododendri e che apprezzassero le macchie di camelie, le bordure di eriche e i cespugli di artemisia; voleva che fantasticassero sulle panchine, poste ai quattro punti cardinali del prato.
Attraversarono il frutteto, camminando tra meli e peri, sbucando a lato di una serra, lucida di vetro e affiancata da due maestosi cedri. Sulla facciata, scritta con lettere dorate, stava la frase: “Stimo che la vita sia cara a ogni animale, ivi compreso pollo e maiale.” Gli ospiti annuirono.
Greenway mostrò, dietro la serra, un piccolo laghetto, con un isolotto al centro. Sulla sponda stava ritta una figura maschile, priva di vestiti e con un orologio inciso sulla schiena, le lancette ferme sulle dodici, mentre le braccia sostenevano una clessidra puntata in direzione dell’isololotto dove alcuni conigli s’erano sollevati, rizzando le orecchie e rimanendo in vigile ascolto. “La statua del Tempo,” spiegò Greenway.
Alla fine della serra, separato da pochi metri, si stagliava un lungo edificio di ferro e vetro, sia pure di foggia diversa da quello che lo precedeva, e quando qualcuno chiese al signor Greenway il motivo della presenza di ben due serre, egli rispose che una era l’arca delle farfalle. Le parole rimasero nell’aria a lungo.
Arca.
Farfalle.
Voli.