3.

DISSODARE PER SEMINARE

In fila, gli ospiti seguirono il signor Greenway tra siepi e cespugli sino a un lungo rettangolo di terra, arruffato di steli ancora rinsecchiti. L’appezzamento era frazionato in parti più piccole, ciascuna delimitata da sottili bordure di timo odoroso e indicata da un cartellino di solido metallo dipinto di giallo contrassegnato con un numero. Greenway disse che il sole saliva nel cielo per tutti, e nessuno ne sarebbe risultato favorito o sfavorito, e così dicendo allungò le mani dove teneva dei biglietti con i numeri degli appezzamenti. Ciascuno degli ospiti, scegliendo, legò la propria persona a una transitoria proprietà con la sua isola di terra, che sapeva di dover abbandonare. Poi Greenway, con un po’ di teatralità, presentò ogni lotto al suo proprietario.

Ogni ospite calcò il suo fazzoletto di terra, lo perlustrò. Qualcuno lo misurò. Tutti provarono a immaginare cosa avrebbero dovuto fare.

“Perché a nessuno è toccato quell’appezzamento già lavorato?” chiese uno degli ospiti indicando un’area perfettamente dissodata e livellata.

Greenway si voltò, si avvicinò a quel rettangolo e si piegò sulle ginocchia.

“Perché su questa porzione cresceranno le erbe spontanee dell’anno. Germineranno i semi portati dal vento e dagli uccelli, i rizomi che si sono infiltrati dal prato. Al suo interno vige un’assoluta casualità. E noi confronteremo le spinte della natura con il nostro operato. Sarà come ascoltare un po’ di musica jazz, mentre suoneremo uno spartito classico.”

Il signor Greenway condusse gli ospiti sino al magazzino degli attrezzi, accanto alla serra, e mostrò loro gli strumenti che avrebbero usato. Ogni attrezzo aveva il manico costruito con legni adeguati all’uso: salice, leggero e flessibile; nocciolo, altrettanto elastico; frassino o faggio, per le azioni più muscolari e faticose. Greenway raccomandò di prestare molta attenzione al tipo di legno che si impugnava perché poteva addirittura agire sullo stato d’animo di chi lo impiegava.

“Non ci credo,” disse il signor Boyle.

“Ne farà esperienza anche lei. Direi che potete cominciare subito,” rispose Greenway e sentendosi osservato gli sembrò di scorgere, sul bordo del frutteto, la curva figura di Eugene.

Gli ospiti, un poco disorientati, avrebbero preferito evitare la fatica, tornare alle loro stanze e poi prendere confidenza con i luoghi gironzolando per la Villa. Solo il signor Flood, che aveva già un po’ di esperienza, andò nel magazzino degli attrezzi e vi rimase chiuso a lungo.

“Il rastrello di salice non è in forma,” rivelò il signor Flood affacciandosi dalla porta. “Oggi non gli va di cantare,” aggiunse l’uomo e uscì con badile e zappa sulle spalle.

Parve un cenno di sfida, e tutti gli altri, nonostante gli acciacchi, si precipitarono agli attrezzi. Non mostravano alcuna abilità, almeno nel dissodare il terreno. Greenway aveva compreso con l’esperienza che poche cose rivelano la relazione delle persone con la tessitura profonda e antica della realtà quanto il modo con cui si entra in contatto con la terra. Ne teneva sempre conto.

Il signor White aveva seri problemi visivi e le zolle rivoltate finivano ovunque, soprattutto sopra le bordure.

Il signor Stones piantava il badile nella terra come un soldato avrebbe infilato la baionetta nel ventre del nemico e, inevitabilmente, sollevava immense zolle che poi faticava a rovesciare, pencolando a destra e a manca come una campana.

Madame Lamarr, che aveva scelto una piccola zappa appuntita, prese a scalfire spedita lo strato erboso. Sentì una sorta di eccitazione per l’incredibile facilità con cui avanzava, era giunta a un capo dell’appezzamento ed era già pronta a ripartire. Lavorare la terra non è vera fatica, se si sceglie l’arnese adatto, pensò.

Il signor Boyle ebbe modo di riflettere in quale guaio si fosse cacciato: non aveva valutato a sufficienza quanto solido fosse lo sposalizio natura-lavoro. Decise di concentrarsi solo su un terzo dell’appezzamento con lenti, ma precisi, affondi di badile.

Il signor Darwin valutò con attenzione le tecniche altrui. Le trovava troppo convenzionali e procedette, a colpi di forcone, lungo le diagonali dell’appezzamento. Terminato di dissodarle, pensò di lavorare le rette che tagliavano a metà i lati, e quando si accorse di calpestare il terreno appena lavorato, ebbe un attimo di smarrimento geometrico.

Erano proprietari solo temporanei di quegli appezzamenti, e lo sapevano bene. Avevano firmato un contratto, in duplice copia. Eppure per un istante, quando le prime goccioline di sudore imperlarono loro la fronte, ciascuno dimenticò questo dettaglio essenziale e tutti si sentirono forti e pieni di fiducia, come quando da bambini avevano posto il primo fagiolo in mezzo all’ovatta bagnata. Questa era la ragione per cui erano lì; bastava quella gocciolina di sudore perché quel viaggio avesse avuto un senso.

Greenway portò loro, a metà mattina, acqua fresca e limone.

Vicino alla Villa aveva incontrato Eugene e aveva cercato di convincerlo a partecipare al lavoro nell’orto.

“Le giornate non sono buone,” aveva detto Eugene, ingiallito e seduto sotto la finestra della veranda. “Mi è andata storta, a qualcuno deve andare storta, il paradiso non è gratis per tutti.”

Greenway lo aveva abbracciato in silenzio.

Eugene rimaneva ai margini degli accadimenti della Villa, come un animale che non sapesse dosare la prudenza benché non avesse paura. Si esercitava a essere un’ombra e questo dispiaceva a Greenway.

Il lavoro, già nel primo pomeriggio, aveva reso ciascuno degli ospiti stanco a modo suo. Ammiravano la propria opera e la comparavano con quella altrui. Tutti meno il signor Flood, che pisolava ai lati di una siepe. Madame Lamarr pareva felice del risultato: un rimescolio caotico della superficie che lei era portata a considerare un’espressione d’avanguardia, un modo nuovo e creativo per lasciare spazio ai semi.

“Lei non zappa, ricama,” si lasciò sfuggire il signor White, che appariva il più provato.

“Spero che le sue coronarie reggano,” replicò elegantemente la donna.

Quando gli ospiti, dopo cena, si dileguarono nei loro alloggi e le luci nelle stanze si spensero in un battibaleno, Greenway si preparò all’indomani, poiché sapeva, per esperienza, che la prima notte sarebbe stata la più delicata.

Era seduto nell’ampio salotto quando sentì la voce di Eugene.

“Ci riusciranno a starsene ancora un poco su questa terra?”

Greenway lo guardò. Il colore della pelle era spento, eppure il sorriso era splendido e gli occhi comunicativi. Inciampava, come se avesse bevuto, e si lasciò cadere sul divano.

“Stanotte, nel silenzio delle loro stanze, affioreranno i dolenti esiti della fatica. In quel momento prenderanno coscienza di quanto davvero rimanga dell’elasticità dei legamenti. Questo potrà provocare una sensazione di esuberanza quasi giovanile, oppure una sconfortante percezione del limite…”

“Greenway, qualcuno scapperà?”

“Spero di no.”

“Vuole che scommettiamo?”

“Nemmeno tu sei andato via.”

“Dovrei essere già morto. La vostra cuoca fa miracoli.”

“Li fa, Emily li fa.”

“Senta Greenway c’è almeno qualcuno di simpatico tra i nuovi ospiti?”

“Tutti. Chi arriva in questa villa non viene per fare amicizie o per fare squadra. Viene perché sa come va a finire, e lo accetta. Provo sempre simpatia per questo. Comunque, Eugene, domattina faremo conoscenza dei semi. Mi piacerebbe che ci fossi”.

Eugene stava seduto sulla sua panchina, sotto il tiglio. Guardava tra le foglie. Respirò l’aria del giardino rubandone i profumi. Si alzò, rimboccò i pantaloni, sempre più larghi e persino lunghi. Pensò che oramai evaporava e si accorciava, diventando più leggero e più denso allo stesso tempo.

“Gli ospiti sono moderatamente arzilli,” udì la voce di Greenway alle sue spalle.

“Questa notte hanno dormito poco. Si sono radunati nella stanza della donna…” disse Eugene.

“Madame Lamarr.”

“Proprio lei, è un tipetto interessante. Secondo il mio, inesperto, parere, questi ce la faranno,” bisbigliò Eugene, allontanandosi tra le siepi.

“Allora non vieni con noi negli orti?” gli gridò Greenway, sorpreso che quel corpo filiforme avesse un aspetto camaleontico: era sparito, assorbito dai rami, dalle foglie, sciolto nella linfa delle piante.

Eugene partiva verso il bosco ogni mattina, alla ricerca di qualcosa.

Greenway, rientrato nella Villa, osservò gli ospiti a tavola, come dimentichi del mondo. Sorrise, ripensando al momento del loro arrivo: il signor White, con una grande borsa da viaggio di cuoio vissuto a tracolla, la mezza dozzina di valigie di madame Lamarr, lo zaino da esploratore del signor Boyle, l’intero battaglione di porta abiti del signor Darwin e lo stupore del signor Stones quando aveva appreso che gli indumenti da lavoro non venivano forniti dalla Villa.

Sulla bacheca, nella sala da pranzo, erano indicati i principali momenti della giornata, nonché il menù per pranzo e cena, e Eugene vi aveva scritto la frase: “Incerto il tempo, incerto il luogo” e a Greenway era piaciuta, non meno dei minuscoli, e misteriosi, grafici che il signor Flood tracciava lungo i bordi.

Avvicinatosi per salutarli, Greenway li sentì dibattere sulle migliori tecniche di vangatura. In realtà, si stavano spiritosamente punzecchiando. Si sedette in ascolto, trovava molto gradevole quell’atmosfera conviviale, anche se dopo più di mezz’ora quell’eccessivo chiacchiericcio lo insospettì.

Eh, no! disse a se stesso. In questo modo rischiano di arrivare a notte nell’ozio più completo, e provò a sollecitarli. Il signor Boyle tentò persino di coinvolgerlo in una discussione sul concetto di fertilità naturale del terreno e Greenway faticò a convincerlo che ne avrebbero parlato a dovere in una delle successive conversazioni serali.

Alla fine Greenway dovette imporsi con un secco “agli orti!”, porgendo a madame Lamarr la mano affinché desse l’esempio.

Giunti al magazzino, spalancò la porta cigolante, e indicò le dozzine di vasi di vetro sugli scaffali. Ne prese alcuni e mostrò i semi agli ospiti: semi di carote, prezzemolo, bieta, rapa e ravanello; ancora: zucca e zucchino, fagioli nani e rampicanti. Dimenticava: piselli e bulbi di cipolla. Sapeva che quello era un momento fondamentale, presentare quel concentrato di vita, i semi, all’apparenza solo bucce e amidi, eppure capaci di trasformarsi da una sospensione in una germogliante esistenza. Convincere anche chi non avesse avuto esperienza di coltivazione e di vegetali che avrebbe potuto tenere tra le mani qualcosa di davvero prezioso.

“Prima di utilizzare i semi, spero vi sembri ovvio, dovrete portare a termine la preparazione del terreno,” e Greenway indicò il cielo, dove invisibile stava la luna che avrebbe raggiunto a breve una delle sue fasi favorevoli alle semine.

“Entro tre giorni.”

“Solo tre giorni?” dissero in coro.

“Altrimenti se ne riparla al prossimo ciclo lunare.”

“E se fosse una leggenda priva di scientificità, questa degli influssi lunari?”

“Signor Darwin, lei potrà fare tutte le prove che vorrà. Semini quando riterrà che sia, per lei, il momento più adatto.”

E mentre il signor Darwin ruminava pensoso, tutti gli altri ospiti galopparono verso i loro appezzamenti osservando, non senza preoccupazione, il cielo a oriente, dove ciuffi di nuvole si accalcavano frettolosi.

Il piano, concordato nel cuore della notte, per diluire l’intensità della fatica chiacchierando il più possibile e lavorando tutti al minimo stava svanendo. Sole e pioggia non ascoltano nessuno.

Madame Lamarr sentì che doveva arrendersi: zappare la terra a colpi soavi non produceva effetti utili. Anzi: osservando il suo appezzamento con un sincero spirito critico, le sembrò che le incisioni della zappa si fossero cicatrizzate nottetempo. La terra guarisce in fretta, pensò.

La pioggia, puntualissima, li sorprese all’ora di pranzo, però fu leggera e si sciolse nel primo pomeriggio.

“Acqua al setaccio,” commentò il signor Flood.

Gli orti, tuttavia, divennero impraticabili.

Il signor Greenway, dopo cena, volle impartire loro qualche nozione sugli ammendanti. Raccontò del potere assorbente delle argille e delle proprietà dell’humus, ricordò che la sabbia scalda e arieggia il terreno ma fa fuggire l’acqua.

Parlò di acidità, solubilità dei sali e tolleranza delle piante al calcio e al cloro; disegnò le molteplici forme delle radici e quelle delle singole particelle del suolo. Il signor Flood prendeva appunti furiosamente, gli stessi della precedente stagione.

Gli ospiti si riunirono ancora nel cuore della notte, cominciando a comprendere che – anche per quanto riguardava gli orti – non avrebbero potuto modificare il corso degli eventi, e che avrebbero dovuto accettare l’avvicendarsi di lune, nuvole, sole e chissà quali altri accadimenti. La punta di angoscia che li aveva lambiti, tutti, cominciava a sua volta a lasciare spazio a una nuova consapevolezza: quella di essere parte di un ciclo vitale più grande di ogni singolo seme ma anche di ogni essere umano.

“Perderemo l’appuntamento con la luna,” dissero in coro al signor Greenway la mattina successiva.

“Sarà per un altro ciclo.”

“Cicli, cicli, cicli…”

“Appunto, signor White.”

Videro, di sfuggita, il signor Flood che ritornava da una fatica mattutina e, giunti agli orti, poterono constatare come, nonostante il fango, avesse suddiviso il suo appezzamento in riquadri perfetti e avesse accuratamente tracciato le viuzze tra le aiuole.

“Il signor Flood ce la farà,” si dissero, un poco sconsolati.

Trovarono, la sera stessa, un modo per vincere la gran battaglia della vanga e della zappa: pagarono in gran segreto Melchiorre per finire il lavoro. Melchiorre dovette dedicarsi agli appezzamenti nell’oscurità della notte. Dissodare il nero, e rivoltare nero su nero. Aveva sentito molte presenze, nell’aria, uccelli timorosi del sole e una sorta di respiro proveniente dal bosco, più intenso del suo affanno.

Poi, quando giunse il giorno adatto, gli ospiti della Villa seminarono piselli e spinaci, madame Lamarr baciò seme per seme, consegnandoli tutti alla terra e alle sue lievitanti conseguenze.

“Soffrono nel nascere i piselli?” le scappò di chiedere.

“Meno delle patate,” le rispose Greenway, sconcertato dalle modalità con cui i semi finivano nella terra, obliqui o perpendicolari: erano mani inesperte anche se un tempo avevano maneggiato oro, cambiali e la vita altrui. Lì, nel generare altra vita, balbettavano. Ignoravano qual era l’alto o il basso nei bulbi, da quale porticina sarebbero uscite le radici e da quale il germoglio.

Lontano, immobile all’entrata della serra, Melchiorre si godeva lo spettacolo di quei seminatori arrugginiti. Aveva guadagnato per bene, accettando di sistemare gli appezzamenti. Aveva contrattato un prezzo con ciascuno di loro, separatamente e nessuno ebbe da ridire. Solo madame Lamarr aveva puntualizzato che un vero gentiluomo le avrebbe dedicato quella fatica senza chiedere compenso alcuno.