Eugene non mostrava alcuna curiosità verso i nuovi arrivati, aveva scambiato con loro qualche frettoloso saluto. Se comunicava qualcosa, era scrivendo poche parole sulla bacheca in sala da pranzo, parole come “Non sono in casa” e “Non rianimatemi”, ma lasciava anche “Gioia è una parola troppo breve ed eternità troppo lunga”.
Greenway si era dato l’imperativo di non diventare il confidente degli ospiti creando l’illusione, inutile, che qualcuno meritasse più ascolto di altri, che certe confessioni fossero speciali.
Eppure, con Eugene non era riuscito a mantenere questo suo proposito.
“Greenway, non voglio farfalle per me. Le risparmi per gli altri. Vorrei, quando arriverà il momento, che lei mi tenesse la mano. La prego, mi faccia compagnia.”
Era stata una richiesta inaspettata e Greenway non aveva risposto.
“Prometta che lo farà!” Eugene si era alterato come non mai.
Era il figlio di un vecchio amico, per questo Greenway lo aveva accolto nella Villa nonostante ne avesse intuito la complessità del carattere.
“Che ricordi ci lascerai, Eugene?” aveva cercato di prendere tempo.
“Li porterò tutti con me.”
“Non ne meritiamo nessuno?”
Eugene si era alzato, spettinato da un vento umido che proveniva dal bosco.
“Solo le risate di quando ero un bambino.”
Greenway vide apparire nelle mani di Eugene un piccolo registratore.
“Le ha collezionate il mio vecchio. Voleva che sapessi che c’è sempre un buon punto di partenza, nella vita.”
A Greenway sembrò un prodigio quella risata felice che si scioglieva nel buio, sopra il prato, tra i rami delle querce, come petali primaverili o ultimi fiocchi di neve.
E, prima di scomparire, Eugene levò entrambe le mani, intrecciandole.
I semi del signor Flood erano germinati per primi, disegnando un binario di steli e tenere foglioline.
Gli altri ospiti si trovarono immediatamente concordi nel dire che Flood doveva aver usato qualche tecnica non consentita. Il signor Boyle rivelò d’averlo visto, nel cuore della notte, passare la luce di una pila sopra le semine. La diceria più ardita era che avesse irrorato il suo minuscolo latifondo con le urine, e questo il signor Flood lo ammise senza pudore.
“Non assaggeremo mai i tuoi piselli! E decenza vuole che non potranno essere inviati all’Accademia reale di orticoltura!” Ma per entrambe le cose il signor Flood non mostrava alcun dolore.
Il signor Greenway rasserenò gli ospiti, ammettendo che l’appezzamento di Flood, in effetti, potesse avere un irrisorio vantaggio termico derivante dalla posizione. Tuttavia non avrebbe avuto conseguenze importanti, le piante non si fanno sedurre per così poco. A riprova di ciò, due giorni dopo, tutti i germogli di pisello sbucarono alla luce. Vi fu un evviva collettivo seguito da un pranzo arricchito con una torta celebrativa. Nell’orto germinarono poi le carote, la rucola e le insalate.
Le nascite diventarono una piacevole abitudine, una vista che suscitava il sorriso: i filamenti erano una muffa che pitturava la terra, poi diventavano verdi brillanti e le foglioline morbide invitavano le dita a sfiorarle, aromi sottili anche se prematuri solleticavano le vie respiratorie.
Il signor Flood s’ostinava a raccontare che sentiva il rumore dell’acqua assorbita dalle radici. Era un fruscio caratteristico, come la punta di un ago infilata entro una bolla d’aria, come un foglio di carta fatto passare attraverso il vetro di una finestra.
“Non credo a una sola parola! La carta non passa attraverso il vetro! Lei è un bugiardo!” madame Lamarr batteva i piedi, stufa che quell’uomo, più svampito degli svampiti, sentisse ogni cigolio del mondo.
Quel bizzarro genio, che aveva disegnato molecole impossibili, imitato la biologia in decine di laboratori d’ogni angolo del mondo, invece non ascoltava nemmeno. Rimaneva abbracciato a se stesso, poroso e indecifrabile, presente e lontano da ogni comune percezione. Greenway guardò madame Lamarr e alzò le spalle: “Il signor Flood è così, è un savant. Ne avrà conosciuti di uomini strani,” le disse, con un tono di confidenza che la sorprese. La donna sbarrò gli occhi, poi chinò lievemente il capo: troppi! Si compresero al volo.
Sulla terrazza della villa era comparso il signor Darwin vestito da gran parata: un’esibizione di eleganza con tanto di cappello e guanti. Solo bisticciava con un papillon irriverente, incapace di rimanere ben allineato. La farfalla di stoffa preferiva inclinarsi verso il lato destro, quello della ragione. Per il signor Darwin era sempre stata la parte più tormentata del corpo: aveva perduto il conto delle fitte alla cistifellea e certe ricorrenti infiammazioni dell’appendice; il polmone destro, poi, guai a pretendere aria nei momenti di bisogno! Come poteva starsene ben allineato, quel papillon, intrappolato nella complicata storia del corpo del signor Darwin?
“Non indosserò questo vestito e tantomeno questo cravattino!” urlava indispettito l’uomo, mentre il signor Greenway cercava di calmarlo.
“C’è tempo signor Darwin…”
“Al panciotto manca pure un bottone!”
“Se ne occuperà Emily. È un portento con i bottoni.”
“Quel giorno dovrò essere perfetto!”
“Lo sarà,” disse rassicurante Greenway, cosciente dell’ossessione di Darwin: indossare, per il fatidico giorno, un vestito elegantissimo, da far rimanere a bocca aperta la morte in persona.
La comparsa della prima rucola nell’insalata serale fu un evento straordinario, e giustizia volle che si trattasse di una miscela di piantine provenienti da tutti gli appezzamenti, tranne quello del signor Stones che non l’aveva seminata poiché disdegnava la rucola e il suo aroma.
Ne mangiarono in abbondanza e non si può dire, pertanto, se fu solamente tale eccesso, e non qualche improvvisa proprietà del mondo, a suscitare negli ospiti la ventata di ilarità adolescenziale che li colpì dal dessert in poi, sino alla conversazione notturna.
Nessuno, del resto, aveva dato peso alle gocce che Greenway metteva nelle loro tisane serali.
“Che cosa aggiunge?” gli avevano chiesto i primi giorni.
“Distillato di sonno,” aveva sorriso l’uomo, pescando con la delicatezza di un colibrì da una boccetta di vetro scuro.