5.

TEMPO

La panchina si era scaldata al sole.

Greenway vi appoggiò una copia della rivista dell’Accademia reale di orticoltura.

Lasciò che la carta si scaldasse anch’essa. Poi la sfogliò sino alla parte con i racconti dei lettori: cercava un’altra avventura della signorina Peabody.

La rivista aveva indetto un concorso per il miglior racconto dell’anno e il signor Greenway, ridendo, si disse che avrebbe votato per la signorina Peabody

Era talmente assorto che non si accorse che Eugene gli si era seduto a fianco.

“Tempo di lettura, signor Greenway?”

“Sì, cercavo qualche riga divertente.”

Eugene lo aveva scrutato alcuni istanti.

“Mi sono chiesto perché lei faccia tutto questo, signor Greenway.”

“Cosa intendi, Eugene?”

“Perché lei sprechi il suo tempo con gente come me, che non ne ha più. Dovrebbe occuparsi dei bambini, Greenway. Sono loro la banca del tempo, gente come noi non riesce più a imbrogliarlo, il tempo. Non bastano gli sberleffi o gli sgambetti, il tempo è un fluido, un vento ostinato che scivola oltre ogni ostacolo. Come se fosse dentro di noi e guidasse ogni nostro passo.”

Greenway annuì, gli piacevano i pensieri di Eugene.

“Vivere il mio tempo insieme a voi è la mia occupazione.”

“Ci sono impieghi migliori. Leggere pagine divertenti per l’appunto. O impieghi meno complicati,” disse Eugene.

“Forse mi piacciono le complicazioni.”

“Le piacciono le complicazioni, signor Greenway?”

Non rispose.

La domanda era insidiosa e lui, davvero, non aveva una risposta chiara in proposito.

“Mi piace prendermi cura,” provò a rispondere.

“Perché le piace?” Eugene stava camminando in tondo sul prato, allargò le braccia, un colpo di vento avrebbe potuto sollevarlo come un aquilone.

“Abbiamo tutti delle cose che ci piacciono particolarmente,” disse Greenway.

Eugene sorrise.

Adorava le risposte che apparivano una diluizione e rendevano il mondo più tenue. Oramai si sentiva una goccia di colore trascinata da un torrente e fu quello stato d’animo che lo spinse, poco dopo, a infilare un paio di mutande bianche, appena stirate da Emily, sulla testa della statua del Tempo che stava ritta sulla sponda del laghetto, dietro la serra e il farfallario.

La brezza del pomeriggio gonfiava una fila di candidi tendaggi stesi, autentiche vele di terra, tra salici piangenti. Nell’aria si diffondeva l’odore di lavanda e saponaria. Il signor Greenway rimase a lungo alla finestra del suo studio a rimirare quel fluttuante spettacolo. Le sagome degli alberi, che circondavano gran parte del corpo della Villa, gli procurarono un sorriso felice.

Aveva riflettuto sulle domande di Eugene e per questo aveva letto e riletto le decine di lettere che gli arrivavano per chiedere ospitalità alla Villa. Ciascuna gli aveva suscitato un’emozione: simpatia, sfida, comprensione, solidarietà, inevitabilità, convenienza. Il senso di cura era il collante che teneva assieme tante diverse motivazioni, forse si trattava solo di un’ultima inutile placenta, prima del salto, nel torrente di stelle.

Greenway non aveva bisogno di pubblicizzare la Villa e i suoi servizi. Solo per vanità, lo riconosceva, qualche anno prima aveva prodotto un elegante dépliant con delle foto, l’indirizzo e poche, necessarie, informazioni. Sempre per vanità aveva attribuito un nome alla Villa, indicandola come Senior Hotel e aveva fatto disegnare, sul frontespizio, delle coloratissime farfalle monarca, le viaggiatrici.

Moltissime persone, tutte di una certa levatura economica e intellettuale, erano a conoscenza della Villa, e le sue referenze circolavano a Londra, a Parigi, a Berlino, a Roma e ad Atene. Ovunque. La vera difficoltà stava nella selezione di chi potesse essere adatto alla Villa, nell’identificare a chi potesse giovare e per chi, al contrario, potesse rivelarsi inutile. Perché inutile era assai peggio che nocivo.

Greenway si recò nell’orto, con la zappa tracciò un solco tra due file di cavoli, sradicando alcuni convolvoli. La frazione di orto lasciata alle erbe spontanee non solo era caoticamente rigogliosa, aveva anche forme, colori e fioriture che raccontavano diversità, adattamenti, casualità che un appezzamento coltivato non poteva avere.

Le graminacee svettavano, la salvia dei prati si allargava leggermente rugosa e i convolvoli serpeggiavano infilandosi tra le altre erbacee sino alla parte coltivata. Si stava tessendo una comunità e Greenway ne era ammirato.

La conoscenza delle proprietà della materia vivente, uomo, ortica o zucca che fosse, è come la lettura di un libro che riscriva se stesso di continuo. L’effetto di molte variabili intrecciate indissolubilmente.

Greenway vide Melchiorre dirigersi verso il frutteto, stava diventando bravo nel diradare i frutti.

Una fitta pattuglia di anatre venne a gironzolare attorno alla vasca dell’orto e il signor Greenway le fece allontanare di botto, prima che si abbandonassero a rincorse e girotondi un poco scellerati.

Sulla grande veranda, il signor Boyle dormiva a occhi aperti, il giornale scompaginato sul ventre e la bottiglia di cognac in una mano. Pantaloni troppo corti, camicia sbottonata come se avesse ancora quarant’anni e quel cappello piccolo e impertinente che gli cadeva a ogni scatto del capo.

Greenway, in punta di piedi, andò a controllare i vasi che pendevano dal soffitto.

“Chi va là?”

“Signor Boyle, spero di non averla svegliata…”

“Io non dormo mai. Osservo il mondo con la mente. Signor Greenway, è vero che sta per arrivare un nuovo ospite?”

“Il giovane Melchiorre non dovrebbe prendersi queste libertà!”

“È stata una confidenza involontaria. Chi è il nuovo ospite?”

Greenway sospirò.

“Non si preoccupi,” disse. “Una persona per bene.”