A Red non era sembrato possibile che il signor Cricket avesse smarrito la sua collezione di insetti e farfalle. Tanto meno che fosse stata rubata dai tibetani. Chi li aveva mai visti, da quelle parti, i tibetani?
Sapeva che c’era un Museo di scienze naturali in città, una vecchia struttura polverosa e poco frequentata. Si doveva pagare un biglietto all’entrata, rimanendo davanti a uno sgabuzzino in attesa che una vecchia signora staccasse il tagliando.
Red lesse frettolosamente la mappa del Museo, le parti con fossili e animali impagliati non lo interessavano affatto ma, come si aspettava, c’era un’ampia sezione entomologica al primo piano. Salì le scale con il cuore che gli batteva forte, chiedendosi come mai non avesse frequentato prima un luogo come quello. Si cresce, pensò.
Entrato nella grande sala, lanciò uno sguardo alle file di bacheche vetrate e subito prese a fissare un’estesa successione di bruchi: erano ordinati a partire dalle tonalità del marrone, tutti i colori dell’autunno del mondo, poi bianco e cremisi, verde e azzurro, delicatissimi, poi una fila di bruchi unicorno e un’altra di esseri ispidi e pelosi.
Poco oltre esplodeva un’esposizione di lepidotteri adulti, alati, multicolori.
Red rimase a bocca aperta: Daisy aveva ragione, le farfalle hanno un loro potere. L’esemplare di – si chinò meglio per leggerne il nome – Hamadryas feronia pareva un tappeto orientale su cui sorvolare il mondo e i verdi della Papilio paris sembravano emettere l’odore di foglie profumate.
Red si abbassò, attratto da un targa di metallo, un po’ brunita, nella quale, scrutando per bene, scorse il nome del signor Cricket: quelle farfalle stupende provenivano dalla sua collezione personale. Non erano finiti in Tibet, stavano in quel museo! Aveva di fronte una vita di ricerche e di viaggi, quasi gli sembrò di vedere, nel riflesso del vetro, il vecchio entomologo che rincorreva i lepidotteri, infilandosi tra le fronde di una foresta, scalando i picchi secchi e ventosi, affondando nelle paludi melmose.
Si sentì come l’erede, l’unico, autentico erede, di tanta devozione e conoscenza. Doveva tornare dall’entomologo e convincerlo a firmare una carta con la quale potersi riprendere almeno una parte di quei tesori. Gli sembrò una cosa possibile. Poteva rimettere in libertà il senso di una vita. Poi avrebbe stupito il Gruppo per un tempo senza fine.
Ebony, nella sua camera, accese la vecchia lampada di nonno Pesce Gatto che aveva una vistosa decalcomania con figure di delfini e albatros. Era convinto che la luce, potenziata proprio da albatros e delfini, permettesse di vedere i segreti delle cose.
“Che brutta scrittura!” pensò Ebony cercando di decifrare il diario di nonno Pesce Gatto trovato sopra l’armadio.
Il nonno usava la matita e molte lettere erano storpiate, quasi scrivesse su un appoggio scivoloso o in bilico sopra qualche mongolfiera.
“La vita è frivola,” scriveva nel 1970, e l’anno successivo la vita era diventata una frittella, chissà cosa intendeva.
“Oggi ho visto un tizio annegare. Ho cercato di salvarlo. Gli ho allungato prima la mano e poi ho lanciato una corda, ma questi, pur con gli occhi spalancati dal terrore, non ha voluto saperne. Era un Re ed è morto, nel laghetto della sua villa, come un topo di fogna.”
Osservò la data, alla fine di quell’annotazione: 6 luglio 1978.
Chiuse il diario e sfiorò il revolver che aveva scovato sopra l’armadio. Da vicino metteva un’eccitazione maligna, la mano che lo reggeva era diventata persino più agile e disinvolta, pareva maturata rispetto al corpo.
A cos’era servito quell’aggeggio al grande Pesce Gatto? Battaglie? O una rapina? Immaginò il vecchio che la puntava davanti a sé. Avrà minacciato qualcuno? Non trovava una risposta. Non è che la pistola gli piacesse, anzi. Ma era appartenuta al nonno, forse poteva essere un oggetto, un simbolo, vai a sapere, con cui rimanere in contatto con lui, come se la canna della pistola potesse diventare un cannocchiale attraverso il quale spiare il mondo dove era volato il grande Pesce Gatto.
A cena, Ebony provò a chiedere qualcosa a proposito del nonno. In particolare, se ricordassero di cosa si fosse occupato nel 1978.
“Perché proprio il 1978?” chiese il padre.
“Così…”
“Il nonno non amava stare nello stesso posto di lavoro. Trovava sempre qualche buon motivo per licenziarsi. Nel 1978 ha cambiato tre o forse quattro occupazioni. Io credo che, in fondo, al nonno non piacesse lavorare.”
“Ma la guerra nell’Indocina, l’ha combattuta?”
Il padre lanciò uno sguardo alla madre, che annuì.
“Be’, l’Indocina è sempre in guerra.”