L’esserino stava immobile sul fondo della trappola. Annusava.
Il signor Greenway e gli ospiti riuniti nella biblioteca lo riconobbero facilmente: un piccolo topo, un abitatore di soffitte e un ladro di dispense. Ma non era il topino a inquietare i presenti, bensì le strie gialle tracciate sulla schiena. Due, per l’esattezza.
Una regola della Villa stabiliva che ogni topolino, qualora non avesse subito danni irreparabili da una trappola, avrebbe potuto godere del diritto di appello, reiterando ancora l’errore di finire in gabbia. Tuttavia, anche la compassione deve avere un limite: alla terza cattura non ci sarebbe stato scampo.
“Perbacco!” si trovò a esclamare Greenway quando ebbe notato le pennellate gialle che egli stesso, settimane addietro, aveva tracciato sul topo.
“Ha superato il limite…” disse qualcuno.
Greenway afferrò la trappola metallica, tenendola davanti al naso.
“Si è condannato da solo…” affermò il signor Stones, che aveva indossato due grossi maglioni tanto da sembrare improvvisamente ingrassato.
“Per la verità, il topo carica sulle nostre spalle il peso del giudizio.”
“Signor Darwin, lei vorrebbe farci intendere che quel mustelide possa avere diritto a un legittimo processo?”
“Signor Stones, i mustelidi hanno in dotazione un’ottima pelliccia e guardi il poverino… si tratta di un muride,” replicò sornione Darwin.
“Chi vota per un processo?” intervenne speranzosa madame Lamarr.
“No, eliminiamolo e basta!”
“E come, signor Stones?”
“Un colpo e via.”
“Allora se ne faccia carico lei…” disse Greenway e spinse la trappola nella sua direzione.
“Sarà processato, allora!”
“E chi farà l’accusa?” chiese Greenway che trovava quell’improvviso accadimento, e la piccola recita che ne stava scaturendo, un’ottima occasione di confronto.
“Io svolgerò il ruolo dell’accusa, naturalmente,” disse Stones, cosciente che non avrebbe potuto tirarsi indietro.
“E in tal caso, io lo difenderò. Nulla mi vieta di credere che questo piccolo topo sia dotato di qualche acume filosofico,” disse madame Lamarr.
“Eccessivo! Non regaliamo la filosofia a ogni codina che passa per strada!” disse il signor Boyle.
“Si tratta di vita! Ne abbia rispetto!” urlò madame Lamarr.
“Insomma, che si fa?” qualcuno cominciava a sentire il bisogno di una decisione.
“A causa della complessità del dilemma, io direi di tenere il reo nella gabbia. Prendiamoci del tempo per meditare su ciò che deve essere fatto con giustizia e sensibilità. Poi, ciascuno di noi esprimerà, con una libera votazione, se il topo debba essere liberato o ucciso.”
Tutti concordarono con il signor Greenway.
Emily riassettò la cucina, riporre le cose con ordine era la chiave per ricordare bei momenti e, in tal modo, la pila di piatti era allineata come la colonna vertebrale di suo padre, le posate ben divise rappresentavano l’armoniosa struttura della grande famiglia in cui era vissuta, esseri umani convinti che bisogna aiutarsi per esistere nel mondo.
Greenway passò in cucina per dare la buonanotte a Emily e poi controllò rapidamente gli altri locali, osservando come il giorno si completasse cambiando d’intensità nei rumori, nelle deboli luci, con pochi movimenti: la notte è il luogo dell’energia minima.
Greenway aveva la sua stanza nella mansarda della villa. Uno spazio sin troppo grande, per un uomo solo. C’erano due bagni, un letto matrimoniale, un ampio angolo con scrivania e una libreria che correva lungo tutta una parete. Gli armadi erano assai capienti ma i suoi indumenti pendevano come smarriti.
Avrebbe preferito, per la verità, abitare nella casetta del custode, posta a un centinaio di metri a lato della Villa, edificio che Melchiorre divideva con Emily. Si trattava di quattro stanze: due camere da letto con bagno, una cucina molto piccola e un locale adibito a stireria. Lo spazio ristretto era compensato dal calore che la casa emanava, i suoi mattoni avevano un numero sconsiderato di anni e i davanzali erano di pietra bianca e tutti gli infissi erano dipinti con colori tenui che ricordavano le sfumature di isole lontane.
Greenway si sedette alla scrivania, spostando le fatture, controllando qualche importo, annotando alcune cifre. La contabilità, uno dei suoi crucci. Sospirò. L’abbaino posizionato sopra il letto era stato ampliato quando Greenway aveva avuto Helen con sé, così che si potesse osservare la meraviglia dello scacchiere stellato.
Sentì un lieve tocco alla porta. Stette un istante in ascolto e il leggero bussare divenne più deciso.
“Chi è?”
“Signor Greenway, non starà mica dormendo?”
“Signor Flood, entri la prego. È successo qualcosa?”
Il signor Flood rimase ritto sulla soglia, elegante nella sua vestaglia porpora sopra il pigiama di seta.
“So di disturbarla ma… la disturbo.”
“Dica.”
“Le voglio proprio dire ciò che ho appena visto in sogno: in un punto del muro di cinta c’è un’edera che scende verso l’esterno, quasi sino a terra. Ho visto degli animali che si arrampicavano su quell’edera…”
“Che tipo di animali?”
“Sbuffavano e urlavano. Erano di pelo rosso.”
“Come delle volpi?”
“No, erano privi di coda. E il colore mi ricorda quello dei capelli di una ragazza che ho visto davanti ai cancelli, alcuni giorni fa.”
“Solo suggestioni, signor Flood. E cosa hanno combinato questi esseri?”
“Si sono arrampicati e poi sono scesi dentro la Villa e hanno cominciato a bruciare gli alberi e poi la serra. Ho visto il fuoco ovunque.”
Greenway non sottovalutava le capacità mentali di Flood, e sospirò.
“Un sogno orrendo, signor Flood. Speriamo che ciò non accada mai. Forse la vicenda del topino l’ha impressionata. Va bene. Ce la farà a dormire ora che si è confidato?”
“Non lo so…”
“Ci provi. Se non ci riuscisse, allora assuma dieci gocce da questa bottiglietta. È il nostro consueto liquore per i sogni, ma stasera lei ha bisogno di una razione d’emergenza.”
Accese il vecchio giradischi: Whisper words of wisdom, let it be…
Poi, disteso sul letto, il signor Greenway fissò l’abbaino e provò a cercare, nella disposizione delle stelle, un disegno. Il destino delle stelle è il buio, ogni notte assistiamo a una porzione infinitesimale di questo destino.
Greenway pensò alle sue querce, ai cedri, ai faggi, ai platani, ai tassi e alle loro foglie ondulanti. Sentì che gli parlavano e, come faceva di tanto in tanto, si alzò, estrasse il vecchio stetoscopio e lo appoggiò al vetro della finestra. Auscultava il battito della notte, il comune battito del buio che si miscela agli alberi, il cuore delicato dei volumi colmi di vita, sentiva sistole e diastole, atri e ventricoli, le aritmie delle nascite e delle morti, la debole e vivissima corrente elettrica che faceva fluire l’emozione del mondo.
Solo le piante impedivano che la luce si perdesse, dissipandosi senza alcun senso. Solo le piante davano un senso alle stelle.