23

Era con una tristezza tendente al pathos che la sera in camera da letto Edgar Cartridge si spogliava della propria uniforme. Per una beata ora, a volte due, è stato sull’attenti, ha fatto il saluto, ha marciato avanti e indietro per la stanza, si è disteso a letto fissando il soffitto, la mano destra in un guanto di pelle nera tenuto sollevato in modo da poterlo ammirare. Ma c’era stato un sabato sera, una volta, in cui tornando a casa dal pub aveva indossato l’uniforme e, tutto sbatacchiante, era sceso di sotto come il giovane Eroe delle Camicie Nere che sapeva di essere. E oh, era stato bello nel cuore della notte sedersi con gli stivali sul tavolo della cucina, un bicchiere di whisky a portata di mano, la madre e il fratello minore che dormivano di sopra e lui che il mattino dopo non doveva andare al mattatoio. Proprio bello.

Si era messo a cantare l’Horst-Wessel-Lied, svegliando la madre. Se la vide davanti in camicia da notte e bigodini.

“Oh, Edgar, hai bevuto. Ma come ti sta bene la divisa.”

Edgar cercò di alzarsi con eleganza e di rivolgerle il saluto militare ma chissà come la sedia cadde a terra e lui ci inciampò sopra.

“Oh, sciocco, così svegli tuo fratello.”

Troppo tardi. Il fratello, Hughie Cartridge, quindici anni, era già sveglio e comparve proprio in quel momento sulla porta della cucina in camicione da notte e pantofole. Era divertito nel vedere Edgar chiaramente ubriaco e travestito da fascista.

“Dove l’hai raccattato questo costume, eh, Edgar?”

“Chiudi il becco, tu.”

“Torna a letto, figliolo,” disse Mrs Cartridge. “Tuo fratello non sta bene.”

“È ciucco,” disse Hughie.

Edgar non reggeva granché l’alcol. Il whisky lo aveva messo ko. Sollevò il pugno ma Hughie scoppiò a ridere.

Sieg Heil, giusto, Edgar?”

“Hughie!” lo rimbrottò la madre.

La mattina dopo Edgar ricordava soltanto di essere stato preso in giro e di essersi rovesciato il whisky sull’uniforme. Non aveva dimenticato tuttavia il piacere che gli aveva dato indossarla fuori dalla camera da letto, scenderci le scale, sedersi con gli stivali sul tavolo come l’elegante giovane camicia nera che sapeva di essere. Lui era il futuro, no?

Fu una sera di qualche settimana dopo che un sobrio Edgar Cartridge sgattaiolò fuori dalla piccola casa a schiera di Inkerman Street, a Hackney, vestito da camicia nera sotto il cappotto. Camminò fino al Regent’s Canal. Era tardi, nessuno in giro. Correva un’alzaia lungo il canale, sotto l’officina del gas la cui pelle oleosa rifletteva il chiarore lunare. Fu lì che si tolse il cappotto e lo posò su una panchina.

Cominciò allora a marciare su e giù per l’alzaia nel freddo pungente della notte e riassaporò la semplice gioia dell’interpretare il ruolo del giovane fascista che era stato prima della guerra. Avanti e indietro marciava, uomo felice. Avrebbe voluto un applauso – e lo ottenne. Due ragazze mezzo rintontite dall’alcol stavano attraversando un ponticello gettato sul canale. Erano state in città, in un pub di Soho. Si fermarono e appoggiate al parapetto si misero a guardare Edgar che marciava in uniforme. Ben presto scoppiarono a ridere. Si spanciavano, si piegavano in due, sostenendosi a vicenda. Applaudivano e acclamavano, e Edgar ebbe l’eleganza di mettersi sull’attenti e rivolgere loro il saluto nazista. Braccio destro teso all’altezza degli occhi, mano dritta e tacchi uniti, come gli avevano insegnato; pensando: brutte sgualdrine. Poi rinfilò il cappotto e si avviò verso casa, mentre le risate delle due ragazze si affievolivano nella notte, fino a spegnersi. Non incontrò nessun altro. Entrò in casa e salì in camera senza incidenti. Si piazzò davanti allo specchio, ansimante, esaltato. Quella notte dormì beatamente. Era stato uno spettacolo che meritava una replica. Edgar desiderava soltanto non dover andare in scena da solo.

Non sappiamo di preciso quand’è che Joan aprì di nuovo le ante del grande guardaroba di Gricey. Riteniamo però che fosse verso la fine di marzo, una domenica mattina, sì, fine marzo o primi di aprile. Le temperature si erano alzate, ma col disgelo erano arrivati gli allagamenti. Disagi gravi interessavano le zone rurali del paese e dopo la breve fiammata di ottimismo quando era sembrato che le fredde dita dell’inverno allentassero la presa, adesso c’erano i terrificanti e fradici postumi, le acque che alzandosi invadevano le case e facevano annegare il bestiame, i raccolti perduti, gli argini di grandi fiumi crollati, nuove avversità che indossavano non già la faccia del ghiaccio ma quella dell’acqua. Così, una bagnata, tersa domenica mattina, con le campane di St Clement che suonavano, Joan aprì il guardaroba e lasciò che la luce inondasse la grande bara dove marciva il residuo spirituale di Charlie Grice.

Dentro c’era un baule. Joan si mise alacremente al lavoro, esaminando, inventariando, stendendo sul letto nelle rispettive pile gli indumenti che ne venivano fuori. Di buona qualità, tutti quanti. Straordinario quanta roba ci fosse. Gricey non aveva buttato via niente.

Tornò in cucina per riposarsi un po’ e farsi una tazza di tè, e ripassò l’elenco. Sospettava forse già allora che ci fosse una strana incompletezza, qualcosa di nascosto, un’assenza; ciò che bisognava affrontare e non lo era ancora stato? In mezzo a tutti quei ricordi era possibile che fosse stata sorda a una vocina che le diceva di cercare meglio, più in profondità, ma che l’avesse o no sentita, quando tornò in camera e tirò fuori il baule vuoto, fu soltanto allora che vide una valigia marrone cacciata nell’angolo più lontano del guardaroba.

Joan si era sentita scaldare dalle cose che aveva trovato nel baule di Gricey, e la sua malvagia doppiezza, scoperta solo di recente, non riusciva a guastarle quella sensazione, né ci riusciva il ricordo della recente furia del suo spirito prigioniero e dannato. Le sere che aveva passato sottobraccio a lui mentre attraversavano il mondo del teatro londinese, sì, le prime sere, le cene, le feste, tante feste durante le quali era stata al suo fianco circondata dagli amici e intanto lui che parlava, parlava, parlava—

Poi più tardi, dopo che erano tornati a casa, lui che si spogliava, lui che si sbottonava la camicia, si toglieva il fermacolletto e i gemelli, posandoli sulla toletta. Si sfilava le bretelle dalle spalle e restava in canottiera bianca con le bretelle lungo le cosce, illuminato soltanto dal bagliore dell’abat-jour di Joan. Era asciutto, sodo. Si era tenuto in forma. Faceva esercizio, stava attento al mangiare, perciò niente grasso su Charlie Grice seduto in fondo al letto a slacciarsi e scalciare via le scarpe, a togliersi i calzini con la giarrettiera. Si rialzava, ai piedi del letto, gli occhi ancora su di lei, e si sbottonava i pantaloni, che cadevano sul pavimento. Se ne districava. Li appendeva a una sedia. Adesso era al lato del letto, in mutande, e si infilava sotto le lenzuola. Joan si girava verso di lui.

“Spegni la luce, amore,” sussurra.

Spegni la luce. Adesso però c’era la valigia. Era graffiata e scolorita, con due cinghie con la fibbia e borchie di ottone lungo le cuciture. Era chiusa a chiave. La portò in cucina e la posò sul tavolo. Con un paio di piccole forbici e le sue pesanti cesoie, quelle d’acciaio con le lunghe lame aguzze, affilatissime, disfece i punti, tirò via le borchie e tagliò la cucitura. Si sedette a fissare la valigia non più imprigionata. Poi si alzò e la aprì. Era come si aspettava. Ogni fascista ha un’uniforme da qualche parte nel guardaroba.