Era arrivato lì da due giorni, ma solo oggi se ne era reso conto.
Nel bailamme dell’entrata non aveva fatto caso alle facce che aveva intorno, troppo preso a guardare se stesso, come era ridotto.
Carne appesa su una sedia, e un cervello che andava per conto suo.
Quando gli avevano dato la sedia a rotelle, dopo l’uscita dall’ospedale, aveva urlato che no, non ci si sarebbe mai messo, lui, ma poi aveva dovuto accettarla, come si accettano le cose della vita che capitano in una normalissima giornata di sole, quando come tutti i giorni, cristo santo, stai andando al lavoro e magari ne hai le palle piene e non vedi l’ora di tornare a casa, cristo santo, ma poi succede che uno stronzo qualunque ti viene addosso con la macchina, e a casa non ci torni.
Dieci giorni di coma, poi il risveglio con il sapore amaro di medicinale in bocca e la testa leggera, le gambe e le braccia inesistenti: un corpo rappreso senza più possibilità di estendersi.
Lesioni al midollo. Paralisi, cristo santo, e doveva fare altri accertamenti.
Sua moglie e suo figlio l’avevano portato in quel centro e non avevano il coraggio di guardarlo: gli sguardi fuggivano perché non si ha il cuore di guardare ciò che non si può sopportare, ma quegli occhi no, quelli che vedeva oggi non fuggivano, anzi lo cercavano e, forse era un’impressione, lo braccavano. Quegli occhi, buio.
La caposala l’aveva chiamata per affidarle un nuovo paziente, il numero 45, da poco ricoverato, un osso duro, come può esserlo solo chi all’improvviso si ritrova espropriato della vita ed è incazzato con il mondo intero.
Il professor Serpilli, docente di matematica, nel corso di un incidente aveva riportato lesioni gravissime ed era necessario effettuare tutti gli accertamenti per capire quali interventi chirurgici e riabilitativi fossero idonei al suo caso. Serpilli non collaborava, diceva parolacce a tutti, per lo più stava zitto a guardare il soffitto e a sognare un’esistenza che di colpo era diventata un ricordo.
Manuela sapeva da sempre come prenderle, queste persone, un po’ perché era nella sua natura conoscere le parole e soprattutto i gesti più adatti e per questo la caposala ci mandava lei, perché aveva pazienza e non si scomponeva davanti a insulti e rifiuti.
Quando era arrivata al letto numero 45 aveva già dato le medicine a quasi tutto il reparto e stava pregustando il caffè fra le mura di casa quando i suoi occhi incrociarono quelli del paziente e i ricordi di una vita le caddero addosso. Il professor Serpilli, aveva cancellato quel nome dalla mente, ma gli occhi no, non avrebbe mai potuto cancellarli, quegli occhi, che l’avevano uccisa mille volte, e il cuore le batteva forte mentre, con i consueti gesti, sistemava il letto dell’ammalato, e lei non era più Manuela Riventi, infermiera e assistente disabili, ma Manuela Riventi, “l’handicappata” della terza D.
I numeri e le parole le ballavano nella testa, da sempre, quando andava a scuola, e per questo aveva scelto il Professionale, perché voleva imparare un mestiere che le consentisse di occuparsi degli altri. In questo era brava, le dicevano, ma non serviva perché per la maggior parte dei docenti era incapace.
Finché c’era sua madre, qualcosa ancora riusciva a capire, ma dopo che era morta il suo cervello era come congelato, e non capiva più niente, e neanche parlava e dicevano tutti che aveva dei problemi e la dottoressa della ASL, che l’aveva vista una volta, le aveva dato un foglio che confermava che no, non erano i professori i colpevoli, ma era lei che non era normale.
Faceva fatica a imparare e ragionava lentamente, e Serpilli la guardava con odio, perché era assurdo che quelli come lei frequentassero la scuola, che avessero un insegnante che rispiegava le cose che lui spiegava da anni, e questo degradava anche lui.
Mica poteva insegnare ai deficienti: dovevano andare a zappare, quelli come Manuela, non rovinare le classi.
Era notte, e ancora pensava a quegli occhi, cristo santo, a dove li aveva visti, e decise di suonare il campanello per chiedere un bicchier d’acqua, e non riusciva neanche a fare quello, cristo santo, e fu mentre cadeva dal letto con un tonfo sordo che iniziò a ricordare.
Quegli occhi erano di una sua ex alunna, forse, anzi sicuramente, ne aveva viste tante di ragazzette che avrebbero fatto quel lavoro: assistere i disabili, i vecchi, e lui i vecchi li sopportava a malapena e i disabili li odiava, quelli che non capivano niente, cristo santo, e che erano pesi morti per la società, e ce n’erano alcuni che frequentavano la scuola e non sapevano parlare e neanche fare le moltiplicazioni ed erano una vergogna, come quella Manuela: l’avevano pure promossa, alla fine e tutte le volte quando prendeva due piangeva, e non era certo colpa sua se era uno zero assoluto, e lui glielo diceva tutti i giorni perché era incapace di ogni ragionamento, era una nullità come gli altri ritardati come lei.
Era caduto con il campanello in mano e nella sua stanza non c’era nessuno, nessuno aveva sentito.
Si rese conto che da solo non ce l’avrebbe fatta a rialzarsi e suonò, lacerando il silenzio della notte.
Apparve Manuela, ma no, cristo santo, proprio lei, e lo guardava, e se ne andava, cristo santo, lasciandolo per terra, nella merda, lui, il professor Serpilli, disabile, per fatalità: un attimo e la vita cambia, e diventa quella vita che hai sempre aborrito.
Manuela era uscita a respirare l’aria fresca della notte: aveva chiamato una sua collega e l’aveva pregata di occuparsi del numero 45, perché lei non stava bene, poi era tornata a casa: non era professionale ciò che aveva fatto, ma aveva voluto per un attimo leggere il terrore dell’impotenza che tante volte aveva avuto lei, Manuela, l’handicappata della terza D, che non sapeva fare le moltiplicazioni ed era una nullità, una nullità assoluta.
Anche lui avrebbe dovuto, di lì a poco, fare i conti, sulla sua sedia, con barriere insopportabili, cose incomprensibili, telefoni irraggiungibili, e dolore, tanto.