L’handicap dell’anima: storia di Piera
È iniziato un nuovo anno.
Nuovo ambiente, nuovo ruolo lavorativo, nuova vita.
E alle spalle tutto il resto.
Piera è seduta vicino alla porta, nell’affollata sala che ospita il collegio docenti di inizio anno scolastico. È a disagio, ma felice.
Che gioia vedere facce nuove intorno! Anche lei si sente nuova, diversa.
I visi dello scorso anno non ci sono più, le vecchie e brutte cariatidi sono rimaste al loro posto, alle loro paranoie.
Neanche i pensieri ci sono. La testa è leggera e la sottile ansia che la morde la rende viva e attenta.
È magra e abbronzata. L’estate è passata in un lampo, continuamente proiettata a questo, al nuovo inizio. Con la voglia matta di mettere un punto e andare a capo.
Tutti si cercano e si parlano, si scambiano effusioni.
È seduta rigida sulla sedia: avverte la solitudine, l’estraneità dell’ambiente, la curiosità degli altri, ma se ne compiace. In fondo le piace questo essere oggetto di curiosità, soddisfa il suo esibizionismo.
E poi si sente bene nel suo corpo, nei suoi abiti, e gli occhi degli altri le mandano tacite conferme.
Quando il preside comincia a parlare sovrastando il brusio generale, Piera realizza che è proprio finito un periodo. Una vita.
Gli ultimi mesi andare a scuola era diventato veramente pesante.
Piera non riusciva più a nascondere il disagio che provava quando metteva piede in una classe. Non sapeva dove posizionarsi, non sapeva cosa fare: si sentiva inutile, fuori luogo.
Il disagio cominciava all’ingresso in classe e le creava conati di vomito: non riusciva a seguire il lavoro perché era costretta a girare da una classe all’altra, e doveva sempre correre e interrompere.
Se si sedeva vicino al ragazzo disabile, lui si sentiva etichettato, e lei si sentiva un’alunna; se si metteva vicino alla cattedra, metteva in tensione l’insegnante che spiegava la sua lezione, come se lei non esistesse minimamente; se si muoveva in aula, i ragazzi si distraevano.
Se aveva la malaugurata idea di spiegare qualcosa alla classe, era inquadrata come una sorta di usurpatrice, a meno che questo non fosse stato espressamente richiesto dai docenti curriculari per risparmiare lavoro. Se decideva di avvicinarsi al banco per puntualizzare qualcosa, veniva prontamente zittita dall’unico depositario della lezione che veniva disturbato dall’insulso chiacchiericcio.
Se aiutava un ragazzo a fare, era complice; se credeva di aver intuito un disagio, era un’esaltata; se osservava ciò che avveniva, rubava lo stipendio.
Il ruolo da assumere era in realtà una mescolanza di tutto ciò, e oscillava tra l’operatore socio sanitario, il docente, lo psicologo, l’amico, il genitore, il consulente.
Come docente poi doveva essere tuttologa, ovvero specializzata e in grado di passare dalla matematica all’inglese, dalla meccanica all’informatica e quant’altro.
Per anni aveva svolto il suo lavoro con tenacia e convinzione e tutto era filato liscio, anche se in alcuni momenti sembrava impossibile portare avanti tutto in modo dignitoso sopportando le frustrazioni personali e quelle degli altri.
Poi era arrivato il giorno in cui aveva capito che l’integrazione si fa in un altro modo e non poteva più assistere passivamente a ciò avvertiva. In una scuola così rigida che lasciava poco spazio agli interventi speciali, sarebbe stato meglio assumere un ruolo diverso, più chiaro, e organizzare l’attività didattica secondo principi pedagogici adeguati alle situazioni, quelli che aveva studiato.
Aveva pensato che era giusto cambiare, provare a fare qualcosa di diverso, anche se ciò avrebbe comportato sacrifici: l’inclusione si fa dalla cattedra, non dal banco, di questo era convinta ormai.
Era stato strano alla fine pensare che alcune persone non avrebbero più fatto parte della sua vita quotidiana e questo pensiero aveva indotto in lei uno stato d’animo di tristezza, anche se attutito dalla consapevolezza.
Forse all’inizio le sarebbero passate davanti le immagini di tanti anni di lavoro, i visi, le persone, e le sarebbero mancate le emozioni che accompagnavano tutto ciò: sensazioni a cui era abituata, sia quelle positive che quelle negative.
I saluti e poi il silenzio, così strano dopo aver condiviso tanti momenti.
Tutto era diventato troppo, alla fine: i segnali di stanchezza le arrivavano da anni, anche se aveva cercato di dar giustificazioni razionali alle sue scelte. Era come se all’improvviso un disco che aveva sempre suonato splendide canzoni si fosse rotto e la musica che usciva era stonata, un sottofondo sempre presente in ogni azione, in ogni gesto.
Nonostante le gratificazioni degli alunni.
Nonostante l’apprezzamento dei genitori.
Nonostante la stima dei colleghi, il non senso dell’agire, del non riuscire a spiegare la frustrazione del non poter essere protagonista in prima persona.
Incontrava le colleghe nei corridoi e non faceva altro che lamentarsi, consumata dalla rabbia che si alimentava della rabbia degli altri.
Era stato a febbraio che aveva deciso definitivamente di lasciare quel lavoro, quando Paola era all’ospedale e le varie istituzioni si palleggiavano le responsabilità dell’accaduto.
Disintegrata una vita, disintegrati i servizi, disintegrata la sua anima.
Certo, per una come lei era stato difficile prendere la decisione di cambiare ruolo lavorativo. Straccarsela di dosso, quella sofferenza, togliersi da un lavoro in prima linea in situazioni limite, frustranti, ma nello stesso tempo esaltanti. Piera aveva fatto solo quello, in quindici anni: aiutare i più fragili, i più deboli, e su questo aveva costruito la sua vita professionale.
Le venne in mente l’ultima sua fatica, l’esame di Viola; le immagini di quel giorno erano stampate nella mente. Il giorno fatidico era arrivato e lei ancora doveva raccogliere le cose nel suo armadietto come se volesse prolungare, in qualche modo, quell’anno che non finiva mai. Si sentiva calma: l’agitazione dopo le prove scritte era scemata e ora quel traguardo, così immaginato, così temuto, era vicino e irraggiungibile.
Non sapeva che cosa Viola avrebbe fatto di quel pezzo di carta: arrivare lì era stato costruire qualcosa di importante, per Viola e per lei.
La ragazza stava attraversando il lungo corridoio che la separava dall’aula dell’orale e lei per un attimo l’aveva vista come era cinque anni prima, gli occhi bassi, astiosa, pronta a svenire per non affrontare gli altri, ferita da sguardi e giudizi.
In quei cinque anni le avevano detto di tutto. Grassa, nullità, zero assoluto. Paradossalmente ne aveva tratto la forza per andare avanti: voleva dimostrare che ce l’avrebbe fatta e ci era riuscita.
Piera aveva fatto in modo che lei capisse la forza che aveva dentro e le era stata vicino nei momenti difficili, essendo forte per lei quando tutto sembrava crollare. Aveva combattuto per lei contro chi non riusciva a vedere che una diagnosi o un problema.
Era stato inevitabile fare dei bilanci di quanto era accaduto e pensare al futuro.
Nelle parole dei genitori e nei sorrisi degli alunni che aveva lasciato c’era il consuntivo dei cinque anni trascorsi in quell’istituto, la certezza di aver lasciato una impronta su quelle vite.
Pensava di soffrire lasciando certi rapporti, lasciando i suoi ragazzi, le colleghe con cui ogni giorno condivideva le fatiche
Invece no.
Non le mancavano. Per niente.
Capirlo la sconvolse.
Non all’inizio, certo, ma dopo. Non stava andando come previsto.
Era felice. La sensazione era quello dello scampato pericolo. C’era entusiasmo e leggerezza nei suoi giorni. Non si sentiva più addosso i problemi.
Tutto si era ormai consumato negli ultimi anni, le soddisfazioni e le angosce. Aveva dato talmente tanto di sé che forse era arrivato il tempo di riprendersi ore e pensieri.
Leggera. La mente, dopo l’inizio del nuovo anno, non era più ottenebrata da rabbia e impotenza. Si sentiva di nuovo protagonista del suo lavoro e delle sue giornate.
Non avrebbe mai creduto che la vecchia vita non le mancasse: forse era ancora presto per dirlo, forse era ancora tutto presente.
L’emozione era il nuovo, adesso; il passato era suo per sempre, ma non c’era più. Si sentiva libera da per essere libera di.
Il da era il bisogno di dimostrare di saper fare, era il bisogno di tenere sotto controllo l’angoscia che veniva dal veder continuamente calpestati i diritti, il bisogno di liberarsi da un ruolo difficile ambiguo o comunque di frontiera.
Adesso che non doveva, poteva.
Pensava che era giusto cambiare, ma che sarebbe stato doloroso. Invece non era per niente doloroso, era liberatorio.
A questo punto era normale chiedersi perché per tanti anni aveva pensato di essere felice lavorando con l’handicap.
Non era vero.
La sensazione che aveva addosso era quella di una coperta morbida che la scaldava, un tepore che le veniva da dentro che si spargeva sulle persone a lei vicine.
Non più rabbia, ma voglia di fare. Sentiva il presente nella sua pienezza.
Ma quando un luogo o un ambiente o una persona ti sono stati familiari per anni, diventano tuoi per sempre. Quando si trovava vicino a posti nei quali aveva lavorato o incontrava delle persone con cui aveva interagito, ritrovava intatte tutte le sue emozioni.
Accadeva che, attraversando una piazza o passando da una certa fermata dell’autobus, le venissero in mente i pensieri che accompagnavano i passi di allora, e le capitava di avvertire un senso di perdita malinconica, in stridente contrasto con la sua vita di tutti i giorni.
Cacciava da sé questa sensazione come una mosca, ma non poteva esimersi dall’avvertire che forse aveva lasciato delle cose importanti di lei i quei luoghi, nei vari ruoli lavorativi, e nelle storie degli altri in qualche modo aveva nascosto la sua.
Passava le giornate lavorando freneticamente, aveva ripreso a scrivere, sognare, progettare. Si era fatta nuovi amici, si era creata nuovi interessi, andava tutto alla grande.
Usciva alla mattina, contenta del nuovo inizio, e tutte le ore della giornata avevano un senso, una gioia intrinseca originata dal fatto che il tempo era per magia come raddoppiato.
Non era abituata a tutto ciò. Alla spesa al martedì e al caffè con le amiche.
Alla palestra e al parrucchiere. Alle amiche, al figlio e al marito.
Alla casa e ai negozi.
Le ore prima erano piene dei bisogni degli altri, c’era il progetto da fare, la telefonata a cui rispondere, quel dolore al petto che non se ne andava e la stanchezza, tanta.
Ci doveva essere qualcosa di strano.
Dopo tre mesi cominciò a pensare che non era possibile che continuasse così: niente che la turbasse, mille apprezzamenti, tutti la cercavano, tutti la volevano.
Pensava che sarebbe finita da un momento all’altro, e soprattutto pensava di non meritare quello che stava accadendo.
Cosa ridicola, poi, era la sensazione che tutto si reggesse su una facciata. Aveva paura di essere scoperta: lei non era all’altezza delle aspettative che gli altri avevano, le cose positive capitavano per caso e lei faceva credere di saper nuotare ma non ne era capace, in realtà.
Aveva sempre avito il bisogno di sentirsi speciale.
Avere l’ammirazione degli altri era sempre stato legato a uno sforzo, a un sacrificio personale, invece adesso aveva tutto questo senza fatica, gratuitamente. Le sembrava di scoppiare, a volte.
Adrenalina.
Sensazione di non farcela a vivere la pienezza.
Con orrore si accorse che aveva voglia di fuggire.
C’era qualcosa dentro di lei che non si riempiva. Le sbatteva dentro una voglia d’altro più forte della felicità, distruttiva, inevitabile, che non lasciava alcuno scampo.
Il lavoro con l’handicap era stato anche un modo per non entrare in rapporto diretto con le cose normali, lo sapeva, ma non ne aveva mai preso atto: era sempre stato più facile rapportarsi con il diverso che con il ripetitivo sempre uguale, normale: normalità è stare nelle cose, non fuggire.
Ora faceva i conti con questo difficile rapporto, era come soffocare perché aveva tutto, ma non bastava.
Emozioni. Voglia d’altro. Il diverso, così libero da obblighi e convenzioni, le sue ferite curate negli altri.
Era più facile vedere il disagio negli altri che non in se stessi, curarlo e andare oltre.
Cominciò a mangiare a dismisura e a bere, quando tornava a casa. Per rilassarsi, Per gratificarsi. Per darsi coraggio. Più le cose andavano bene, più si abbandonava a comportamenti smodati.
Poi crollò.
Il crollo fu rapido e inspiegabile.
Dormiva tutto il giorno, e non voleva più alzarsi.
L’abisso da cui era sempre fuggita aveva spalancato le sue porte.
Si presero cura di lei.
Depressione, un tunnel da cui aveva aiutato gli altri a uscire e in cui adesso era finita.
Aveva bisogno di aiuto, ora, per il suo handicap, l’handicap dell’anima che il lavoro con la disabilità curava, la ferita dei non amati che ripetono all’infinito quelle cure che non hanno avuto, e poi ne sono travolti.
C’è un prima, c’è un durante, c’è un dopo.
Il prima è quando vivi la tua vita come se non dovesse mai finire e non ti sfiora il pensiero che potrebbe succederti qualcosa di brutto.
Il durante è quando ti accorgi di non riuscire più a tenere il passo con gli altri e crolli, cercando delle risposte.
E poi c’è il dopo.
Un dopo pieno di paure e di incertezze, perché ciò che è accaduto può ripetersi, e la vita non è più l’allegra avventura che si sognava.
I sensi di colpa la facevano sentire un mostro.
Una domanda attendeva una risposta: perché il malessere si era manifestato nel momento in cui aveva deciso di cambiare lavoro e non prima?
E scoprire l’incredibile: attraverso il lavoro con l’handicap riusciva a curare il suo handicap, cioè il fatto che nessuno l’aveva mai apprezzata per quel che era, le aveva mai voluto bene per se stessa.
Aveva sempre dovuto dimostrare di meritarlo, il bene, e questa è una cosa terribile per un bambino, non essere amati per ciò che si è.
Anche lei non si amava, non meritava amore e non sapeva chi era. Non sapeva essere, se non attraverso gli altri: la sua anima si era dispersa nelle persone con cui era entrata in contatto, nelle mille battaglie combattute.
Pezzi, frammenti, una vita, mille vite vissute, e non la sua.
Non sapeva più chi era adesso, o forse non l’aveva mai saputo e aveva cercato, in ogni modo, di sfuggire alla sua diversità.
Disintegrata.