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IL GIOCO DELLA SORTE

Il Ridotto di San Moisè alle due del mattino era più affollato delle Mercerie allo scoccare del mezzogiorno.

Lampadari in prezioso cristallo di Murano pendevano dal soffitto illuminando il vasto salotto dove si dissipavano le fortune di mezza Europa. Il vociare si smorzava solo in prossimità dei tavoli da gioco dove i Barnabotti – nobili impoveriti mantenuti dallo Stato – tenevano banco a volto scoperto. I giocatori invece, uomini e donne, per legge dovevano indossare la maschera.

Cassian D’Armer, rassegnato all’insonnia da quando era tornato dall’India, scrutava i volti intorno a sé, inquieto. Nel corso della serata si era sorpreso più volte a seguire con lo sguardo un ricciolo di capelli cercando il nero corvino sotto strati di elegante cipria di riso. Aveva tentato di togliere la maschera da volti sconosciuti con la sola forza del suo desiderio. Era una follia, perché non c’era ragione di cercare tra la folla una giovane donna costretta a letto da una malattia inguaribile.

«Signore.» Una dama si inchinò davanti a lui rivolgendogli uno sguardo ardente.

Era Angela Trevisan, detta la Galinera, una cortigiana di Sant’Aponal. Per un momento Cassian pensò di lasciarsi tentare dalla sua bellezza, dalla promessa di dolcezza e oblio che vedeva nel suo volto, poi un lieve colpo di tosse distolse la sua attenzione.

«Fatelo e domattina una referta lo racconterà agli Inquisitori» disse una voce annoiata dall’accento francese. «Non che sia un problema, ma la cosa più deplorevole dei segreti è la loro tendenza a essere scoperti, non trovate?»

Una mano che spuntava da un raffinato polsino ricamato d’oro gli indicò un uomo dall’aspetto modesto che li osservava nel quale, nonostante la maschera, Cassian riconobbe l’orefice Manuzzi. Si vociferava che fosse una delle spie più attive della Serenissima e, con ogni evidenza, le voci dovevano aver raggiunto le orecchie di quel giovane alto con la cadenza di Parigi.

«Vi ringrazio dell’avvertimento, signore» disse Cassian. «Vi devo un segreto.»

L’altro fece un lieve sorriso, occhi azzurri scintillarono dietro la mezza maschera nera.

La Galinera era passata oltre, scoprendo un curioso quadretto incorniciato dalle colonne sul perimetro opposto della sala. Un incantevole adolescente biondo era attorniato di dame più mature che si contendevano le sue attenzioni; poco distante, una fanciulla bionda in un sontuoso abito di seta osservava la scena. Sebbene indossasse una maschera moretta il suo fastidio era evidente dalla postura delle spalle e dal modo in cui picchiettava il ventaglio chiuso contro la mano sinistra.

In apparenza ignaro di essere oggetto di tanto sdegno, il ragazzo biondo continuava a sgranare facezie. Era a volto scoperto, la maschera sorretta da un bastone nella destra, l’elegante completo nero indicava la sua appartenenza ai ranghi minori del clero. Mostrava all’incirca quindici anni e sembrava consapevole solo in parte della seduzione che irradiava. Eppure il modo in cui occhi maschili e femminili lo seguivano cercando di intercettare il suo sguardo, la posa assorta, quasi sognante che assumeva chi lo ascoltava – quasi la sua voce fosse la musica di un violino – rivelavano un potere di attrazione più simile al sortilegio che a un comune fascino.

A un tratto gettò la testa indietro e rise, e il suono che scaturì dalla sua gola parve dar voce al calore di quella notte di primavera. Il gesto pieno di grazia con cui si inchinò alla Nobildonna Contarini, la malizia con cui allontanò dal viso la maschera per rivolgerle un sorriso, avevano la bellezza insidiosa di Lucifero nel pieno del suo fulgore, quando l’inferno era solo un riflesso della sua luce.

«L’Abate Casanova» disse il giovane francese. «Viene da Padova dove sta completando i suoi studi. La Cavamacchie non sembra molto felice di vederlo.»

Quasi richiamata da quel commento, la dama bionda, Giulietta Preati detta Cavamacchie perché figlia di lavandai, si mosse. Incrociando l’allegra comitiva, senza neppure interrompere il passo, abbatté il ventaglio chiuso sopra la testa luminosa dell’Abate Casanova. Il giovane interruppe una frase a metà e rimase a bocca aperta, poi le rivolse uno sguardo ferito ma quella, incurante del mortale oltraggio inflitto all’orgoglio di un ragazzo così giovane, se ne andò verso i tavoli del Faraone.

Per la prima volta da ore, guardando l’espressione dell’abatino, Cassian si ritrovò a ridere.

«Bene» disse il gentiluomo francese. «Sono sicuro che ci sia una legge del Consiglio dei Dieci che vieti il cattivo umore in preparazione del Carnevale dell’Ascensione.»

«Carnevale della Sensa, a Venezia lo chiamiamo così.»

«Comunque sia, a causa della vostra malinconia avete rischiato di terminare la nottata ai Piombi.» Il francese si inchinò e aggiunse, congedandosi: «Alain de Mortemart, al vostro servizio, signore».

Cassian notò che aveva all’incirca la sua età: vent’anni, ma la voce ferma, l’atteggiamento sicuro gli conferivano un aspetto più maturo. E aveva intuito, altri avrebbero interpretato la sua freddezza per alterigia, Alain de Mortemart invece gli aveva dato il nome corretto.

Si domandò se gli avesse visto negli occhi l’immagine insistente di una massa di capelli neri sparsi sopra cuscini di merletto e di una mano troppo forte per una donna morente.

Il ponte si incurvava tra due filari di statue e la nebbia dolce del tramonto. Sentiva il fiume scorrere sotto i piedi, oltre la campata. La leggenda voleva che il ponte fosse stato costruito usando migliaia e migliaia di uova per renderlo più solido. Quando era piccolo, la nonna gli raccontava che ogni villaggio aveva inviato un carro colmo di uova per contribuire alla costruzione del ponte che avrebbe collegato il Piccolo Quartiere con la Città Vecchia.

Si diresse verso l’isola, dalla parte del Canale del Diavolo.

Aveva fatto tardi e adesso era il momento di tornare a casa.

Cordelia si svegliò di colpo e rimase a fissare il soffitto. Era sempre il solito sogno e, ogni volta, impiegava ore per scrollarsi di dosso l’impressione di essere un’altra persona, di essere un ragazzo e la sensazione di struggente nostalgia per cose che era certa di non avere mai provato: il profumo di una certa birra scura, il sapore della zuppa di pane.

Il silenzio notturno le rimandava l’eco dello sciabordare dell’acqua e il battere del remo di una gondola. Un vento tiepido portava folate di violini e risa dal vicino Palazzo Corner, un’aria del maestro Händel che ricordava Londra con una nostalgia lacerante. Incapace di riprendere sonno si alzò e, poco dopo, un lieve bussare alla porta la sorprese mentre ingannava il tempo con un mazzo di carte.

Era Kitty, la cameriera che aveva ereditato il giorno che sua madre era uscita per una missione senza fare più ritorno.

«James è tornato per un resoconto» disse. «Il signor D’Armer si trova al Ridotto di San Moisè.»

Cordelia annuì attenta, mentre con un gesto automatico scopriva sul tavolo una carta: il Re di Picche.

«Lo ha visto conversare con diverse persone tra cui un giovane francese che visita spesso San Geremia.»

L’ambasciata francese si trovava in Contrada San Geremia, a Cannaregio. Cordelia si domandò chi potesse essere quel giovane.

Dal mazzo trasse una seconda carta, il Re di Fiori.

«Di che cosa hanno parlato?»

Kitty scosse il capo. «Di sciocchezze, Milady. L’informatore di James li ha sentiti conversare dell’Abate Casanova che in quel momento era presente.»

Il Re di Cuori si aggiunse alle altre figure sopra il tavolo.

«C’è ancora qualcosa, Milady» disse Kitty dopo una lieve esitazione. «Uno degli informatori di James riferisce che al Caffè Regina di Francia ha sentito due uomini mascherati darsi appuntamento a San Moisè. Parlavano del rapimento di qualcuno da poco tornato dalle Indie.»

«Una cosa comune, a Venezia.»

«Hanno fatto cenno a dei servitori Mori, Milady.»

Il mazzo sfuggì dalle mani di Cordelia cadendo sul pavimento. Sopra le altre carte spiccava il Re di Quadri. Lei lo raccolse con dita tremanti e lo dispose accanto agli altri.

«Preparami degli abiti maschili e le mie armi» disse alzandosi.

«È tutto pronto, Milady» replicò Kitty. «Sapevo che sarebbe andata a finire così.»

«Avete tentato la sorte, signore?»

Cassian si trovò a uscire dal Ridotto a fianco di Alain de Mortemart per un puro caso e gli rivolse uno sguardo sorpreso. «Lei ha tentato me» rispose. «Con pessimi risultati.»

«Vi sono compagno nella cattiva sorte» disse de Mortemart. «Spero nella compagnia degli amici al Caffè Florian per migliorare la nottata.»

Un gruppo di uomini in maschera e tabarro passò loro accanto e disparve nella notte in una ruga laterale, ombre ammantate che li sfiorarono senza nemmeno vederli. Una nebbia leggera si spingeva dal Canale, addensandosi intorno alla luce vacillante di una lanterna sospesa accanto all’entrata. Lungo il muro di Ca’ Dandolo, un giovanotto in nero e dall’aria malinconica si guardava accigliato una manica scucita. Avvertendo su di sé due sguardi curiosi, sollevò i suoi occhi azzurri e sinceri. «La Cavamacchie, quella screanzata, mi ha strappato il vestito per dispetto» disse, con naturalezza.

De Mortemart si inchinò. «Abate Casanova, la vostra fama di predicatore ha preceduto la nostra conoscenza. Permettete che mi presenti: Alain-Jean de Mortemart, e questo è Monsieur Cassian D’Armer.»

Il nome, pronunciato con il suo accento parigino, suonava con una musicalità strana e gradevole. Gli occhi azzurri dell’Abate si spostarono su Cassian con franca curiosità. «L’eroe di Delhi» disse. «Si fa un gran parlare di voi. Dicono che siate tornato facendovi largo tra i guerrieri dello Scià.»

Era un modo garbato di definire un massacro, pensò Cassian e si irrigidì leggermente aspettandosi la solita profusione di frasi di circostanza. Il giovane Casanova invece si limitò ad annuire, assorto, infine sorrise, disarmante. «Venezia renderà più lievi i ricordi.»

Cassian stava per rispondere qualcosa, forse solo intimargli di badare agli affari suoi, quando una voce affannata risuonò lungo una calle laterale, annunciata da passi affrettati.

«Signori», era un lacchè dalla pelle scura, in una sfarzosa divisa cremisi e oro, di un velluto talmente ricco da rivaleggiare con le vesti dei nobili. «Signori, invoco aiuto per il mio padrone. La nostra gondola è stata assalita.»

L’uomo torceva tra le mani un tricorno di feltro con un blasone ricamato.

«Vi prego» supplicò. «Fate in fretta.»

Senza neppure lasciarlo finire, l’Abate Casanova gridò: «Guidateci da lui», e partì alle calcagna del servitore.

«Aspettate» disse invece de Mortemart.

Cassian esitò, voltandosi per incontrare il suo sguardo dietro la maschera che ancora gli copriva il volto.

«Non è prudente» disse il francese. «Potrebbe essere pericoloso.»

«Se non vado non lo scoprirò mai» rispose Cassian. «L’abatino potrebbe farsi male.»

Senza attendere risposta si lanciò lungo la calle in direzione della salita di San Moisè e, giunto in prossimità della chiesa, udì voci concitate e il cozzare delle spade. La folla delle notti veneziane si era prontamente dileguata mentre un piccolo manipolo di Mori in livrea cremisi cercava di fronteggiare un gruppo di uomini mascherati in evidente superiorità numerica. Due di essi combattevano contro un uomo che li malediceva in un fluente spagnolo, cercando di impedire loro di salire sulla sua gondola. L’Abate Casanova invece duellava con disinvoltura sul ponte antistante la chiesa di San Moisè, mentre dalla sponda opposta del rio un gruppo di damine mascherate in abiti colorati si lanciava in grida di terrore e di incitamento. Parò un montante e con un calcio colpì l’avversario allo stomaco. Il ponte di mattoni non aveva parapetto, così l’uomo finì in acqua. Il sorriso di Casanova scomparve non appena alzò lo sguardo verso Cassian.

«Attento!» urlò.

Voltandosi, Cassian vide una pistola spianata nella sua direzione e lo sguardo freddo di Alain de Mortemart un momento prima che premesse il grilletto.

«Ve lo avevo detto che avrebbe potuto essere pericoloso» disse il francese, poi la detonazione coprì ogni altro rumore.