Una giovane fruttivendola dai lindi panni scuri e il volto innocente gli porse una mela, abbassando gli occhi con un subitaneo rossore che gareggiava con il colore del frutto.
«Per voi, signore.»
La voce soffocata, la timidezza erano inconsuete per le veneziane che assimilavano la sfacciataggine e la civetteria insieme al latte materno, tuttavia lui era abituato a quella reazione da parte delle donne – e di molti uomini – al punto da non prestarvi attenzione.
Tranne quando proveniva da un paio di occhi neri che dalle quiete delle coltri lo guardavano con immenso amore e, ore dopo, lo trapassavano da parte a parte con indifferenza, per poi infine sorprenderli a posarsi su di lui pieni di passione e ostilità.
E paura.
Distratto, pagò la frutta e guardò in direzione di una compagnia vestita in ricchi abiti cinquecenteschi che si era fermata poco distante da lui.
Una dama e un gentiluomo che avrebbero potuto provenire dalla corte dei Borgia si inchinarono e lui ricambiò il saluto con la medesima cerimoniosità pur non riuscendo a riconoscere le loro fattezze dietro le eleganti maschere dorate e i costumi di velluto ricamato.
La donna era giovanissima, non oltre i quindici anni, e aveva un manto di luminosi capelli biondi adorni di una mezzaluna tempestata di perle alla moda di oltre duecento anni prima. L’incedere arrogante del gentiluomo invece gli era familiare ma Cassian non riuscì a identificarlo fino a quando questi non si tolse la maschera.
Era lo spagnolo dell’aggressione di San Moisè. Bruno, bello, con profondi occhi scuri e labbra piene e ben disegnate; ed emanava un’energia che sembrava animare tutto quanto si trovava nelle sue immediate vicinanze.
«Manuel Alfonso Pérez de Guzmán y Benavides» si presentò, sciorinando uno degli interminabili nomi dei Grandi di Spagna. «Vi devo la salvezza del mio bene più prezioso, signore. Il mio debito è eterno.»
Indicò la giovane dama al suo fianco che si inchinò. «La mia Jimena si trovava nella gondola assalita da quei malviventi e non riesco nemmeno a pensare a ciò che sarebbe potuto accaderle.»
Jimena gli sorrise porgendogli la mano da baciare. «Sono felice di avere avuto l’occasione di ringraziarvi di persona.»
Il loro accento spagnolo era marcato e musicale, l’italiano perfetto.
Cassian le prese le dita guantate con delicatezza e baciò l’aria al di sopra di esse. Le lasciò subito, lo sguardo indecifrabile di Don Manuel gli suggeriva che un certo ritegno sarebbe stato gradito.
«È un piacere scoprire di essere accorso in aiuto di una damigella così incantevole» le disse, con gentile distacco.
«Si è fatto tardi e tu hai bisogno di riposare.» Manuel si intromise con una fermezza non priva di dolcezza e afferrò Jimena per le spalle deponendole un bacio sulla fronte. «Assicuratevi che arrivi a casa sana e salva» aggiunse rivolto alla comitiva che li accompagnava. Cassian vide che erano scortati da un drappello di guardie. In un primo momento non vi aveva fatto caso perché erano anch’esse in costume, tuttavia adesso si accorse che le corazze al di sopra degli abiti vivaci portavano lo stemma del Duca di Medina Sidonia e che le armi erano autentiche.
«Venite, passeggiamo» disse Don Manuel prendendo Cassian sottobraccio. «Come dicevo, vi sono debitore. Desidero davvero che diventiamo buoni amici.»
«Venezia esaudisce sempre questi desideri» rispose Cassian.
Non invitati, gli si affacciarono alla mente i ricordi degli ufficiali con cui aveva solcato i mari. Le pire improvvisate su cui aveva arso i loro corpi perché i Persiani non potessero farne scempio, le loro ceneri che aveva con sé quando era fuggito.
Don Manuel fece un cenno ai servitori in livrea cremisi indicando alcuni venditori che scaricavano ceste di frutta.
«Albicocche» spiegò. «Jimena le ama. Farò comprare l’intero carico soltanto per farla ridere.»
Cassian lo ascoltò, sbalordito, raccontargli di avere deciso, dopo un lungo viaggio in Giamaica, nelle Indie Occidentali Britanniche, di stabilirsi a Venezia per qualche tempo. La ricerca di una residenza adeguata lo aveva occupato a lungo e non comprendeva perché la nobiltà veneziana fosse così restia a separarsi da una casa anche in cambio di somme favolose.
«Mi ero offerto di acquistare la casa dell’ambasciatore Tron a San Stae» spiegò, come se nulla fosse. «Ma il suo venerando padre è quasi svenuto alla sola proposta.»
Continuò a raccontare tranquillamente di avere tentato di comprare l’Isola di San Michele, poi Poveglia – che pure gli avevano sconsigliato in quanto infestata dai fantasmi – fino a che non aveva ricevuto un’ammonizione ufficiale dal Consiglio dei Dieci che gli suggeriva di limitarsi ad affittare una dimora. Così si era stabilito sul Canal Grande e aveva affittato anche un casino con un vasto giardino alla Giudecca, non lontano dalla fastosa dimora dei Loredan dai quali era spesso invitato.
«Nella giornata di dopodomani faremo festa nei giardini» disse Don Manuel. «Vi avrei fatto recapitare un invito formale, ma è mio grande piacere anticiparvelo di persona. Vi prego di intervenire con chiunque lo desideriate: la vostra promessa sposa, i fratelli, la donna del vostro cuore. Chiunque vi sia caro sarà caro anche a me e me ne prenderò cura come mi prenderei cura di voi.»
Cassian gli restituì un sguardo vagamente diffidente. «Non mi conoscete neppure, signore.»
«Avete dei segreti» disse Don Manuel, con calma. «Riconosco a prima vista chi ne ha. E chi ha grandi segreti ha bisogno di grandi amici.»
Definirli segreti non era corretto. Erano incubi, guerrieri coperti di sangue che lo inseguivano per tutta la notte, ogni notte, e che lui sfuggiva eludendo il sonno nei ridotti e nei casini, sostenuto dalle innumerevoli tazze di caffè servitegli nelle botteghe più famose. A volte, cullato dalla musica nel palco di un teatro e dalle chiacchiere – le ciacole veneziane –, si assopiva per brevi istanti per svegliarsi quasi immediatamente, con il cuore che gli scoppiava nel petto e la sensazione di essere braccato.
Sentiva addosso il caldo soffocante, le mosche e la polvere che formava insieme al sudore una patina sulla pelle. L’odore di morte delle pire di cadaveri mescolarsi a quello pungente delle spezie che bruciavano nei magazzini. Quel sentore vivido lo costringeva ad aprire gli occhi con il cupo desiderio di strapparsi di dosso i vestiti soffocanti e gettarsi in acqua e nuotare fino a che non si fosse sentito purificato nel corpo e nell’anima.
Impiegava momenti angoscianti prima di realizzare di essere davvero a Venezia, tormentato dal pensiero che fosse solo un sogno.
«Eccellenza, siamo arrivati» disse il gondoliere.
Cassian guardò il cesto di fiori e frutta posato sul sedile accanto a sé e si calcò il tricorno in testa, sbarcando alla porta d’acqua di Ca’ Giustinian di Santa Croce. In preda a una silenziosa agitazione, nei suoi pensieri era emerso il desiderio di vedere Cassandra.
Strano, perché non aveva mai nutrito un particolare attaccamento verso quella fanciulla cagionevole alla quale lo avevano fidanzato da bambino. Eppure, in quella mattina di primavera, desiderava soltanto vedere i suoi occhi sfidarlo e andare a dormire pensando a come vincere quella muta battaglia.
«Sior Cassian, la signorina Cassandra sarà pronta in un momento.» Flaminia, la cameriera personale di Cassandra, si precipitò ad accoglierlo che aveva appena varcato la soglia. Era agitata come di consueto e si puliva le mani sporche di farina sul grembiule. Il maestro di casa lo condusse nel salotto del piano nobile, un cameriere portò cioccolata e pasticcini.
Stava ancora interrogandosi sul curioso impulso che lo aveva spinto lì quando Cassandra entrò nella stanza. Le tracce rosse sulle sue guance non avevano nulla di sano, piuttosto sembravano il risultato dell’affanno con cui si era affrettata a presentarsi al suo cospetto abbigliata in un incantevole rosa e avorio che le metteva in risalto il magnifico nero corvino dei capelli e gli occhi immensi.
«Cassandra, perdonatemi» le disse, scattando in piedi per porgerle la mano e aiutarla a sedersi. «Non volevo procurarvi incomodo con la mia visita improvvisa.»
Lo sguardo pieno di amore che lei gli rivolse gli provocò una fitta di rimorso. Guardare quella creatura, a cui l’assoluta caducità donava una bellezza fragilissima, gli dava una sensazione di angoscia unita a tenerezza. In quel momento giurò a se stesso che avrebbe fatto di tutto perché il suo ultimo respiro fosse lieve.
Il tocco di Cassandra era debole, le sue dita fragili. In un lampo Cassian la vide a Palazzo Bolani strappare il braccio alla sua stretta con un’energia che nessuno avrebbe potuto arginare. Disorientato, indietreggiò di un passo.
Le mostrò il cesto colmo di gigli profumati e mele appena rosate. «Per voi, signora» disse. «Li ho visti all’Erberia, erano troppo belli per non portarveli.»
Lei abbassò lo sguardo e le sue spalle esili tremarono nel tentativo di trattenere la tosse. «Vi ringrazio, Cassian» disse con dolcezza. «Il regalo più gradito rimane sempre la vostra presenza.»
Senza sapere che altro aggiungere, lui si inchinò. «Vi lascio alle vostre faccende, signora. Più tardi riceverete un invito formale a un ricevimento alla Giudecca. Se vi sentite abbastanza in forze, mi farebbe piacere che partecipaste insieme a me.»
Cassandra gli rivolse uno sguardo determinato. «Ci sarò, ve lo prometto.»
Era una menzogna, doveva esserlo, pensò Cassian, mentre dava istruzioni al gondoliere di tagliare dall’interno per tornare verso il Sestriere di San Marco. Cassandra sfioriva ogni giorno sotto i suoi occhi e un giorno gli sarebbe sfuggita tra le dita senza che lui potesse fare nulla per impedirlo.
Nei pressi di Rio Sant’Andrea un brusco sobbalzo della gondola lo distolse dalle sue riflessioni. Al colpo seguì il vociare dei gondolieri che avevano preso a litigare in veneziano. Cassian sporse la testa da uno dei finestrini del felze e vide che il rio era intasato di imbarcazioni addossate l’una all’altra al punto che si sarebbero potute usare per guadare, come durante la Festa del Redentore. La gondola dei D’Armer era andata a sbattere contro un quattro remi con lo stemma dei Memmo sulla fiancata. Cassian fece un cenno di saluto ad Andrea Memmo che – com’era evidente – cominciava in giovane età a rincasare a tarda mattina, e dopo richiamò con un fischio l’attenzione del proprio gondoliere. «Gaspare, che accade?»
«Una disgrazia in Campazzo Tre Ponti, ’zellenza» rispose Gaspare. «Un frutarol si è buttato dalla finestra con una corda al collo, stanno recuperando il cadavere.»
Stava per dirgli di proseguire quando un guizzo chiaro lo indusse a girare lo sguardo verso una riva parallela al rio: una figurina in abito da sera e mantello candido stava risalendo i gradini di pietra d’Istria diretta verso l’interno. Poteva essere una dama qualunque che nella migliore tradizione veneziana confondeva la notte col giorno, eppure qualcosa nel suo portamento gli parve familiare.
«Gaspare, fammi scendere» disse, senza riflettere.
«Come sua Eccellenza desidera.»