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GLI OMICIDI DEI TRE PONTI

Quando Cordelia giunse al Campazzo Tre Ponti, il Capo Contrada stava accompagnando il medico incaricato di esaminare il cadavere di Biase Dottari che, poco prima, pendeva da una delle finestre di un alto caseggiato in mattoni.

Com’era prassi, il corpo sarebbe stato sottoposto ad autopsia e, soltanto dopo, i Signori di Notte al Criminal avrebbero dato l’autorizzazione alla sepoltura. Se non avessero trovato segni di altro delitto che non fosse quello perpetrato contro il Signore, unico a cui era accordato il diritto di togliere una vita oltre alla giustizia del Doge, lo avrebbero composto in uno dei cimiteri cittadini e la Contrada di Sant’Andrea avrebbe avuto un altro fatto di sangue da raccontare intorno alle tavole delle osterie.

Caso voleva infatti che più di trent’anni prima un omicidio avesse turbato i sonni della parrocchia e che, anche l’anno precedente, un altro fatto curioso avesse tenuto occupate le comari con congetture e chiacchiere interminabili.

In effetti il caso era talmente singolare che, udirne solo pochi accenni dal gondoliere che la stava accompagnando, aveva convinto Cordelia a scendere per andare a curiosare. Purtroppo i suoi abiti non erano i più indicati per passare inosservata e aveva quasi deciso di andare a cambiarsi quando percepì una presenza alle proprie spalle. Si voltò e piantò lo sguardo su un torace immenso coperto da una maglia metallica e fasce incrociate di seta rubino. Quasi rassegnata, sollevò gli occhi e ne incrociò un paio color caffè su un viso scuro. Dalla profonda cicatrice sul sopracciglio identificò l’uomo come Indrajit, mentre sapeva che l’altro si chiamava Manidhar. Era stato facile reperire informazioni su di loro: non erano molti i guerrieri del Gran Moghul che circolavano per Venezia.

Oltre la spalla dell’uomo sporgeva l’elsa intagliata di una spada, in ossequio al decreto del Consiglio dei Dieci che vietava di portarne. Era piuttosto chiaro che gli Indiani di Cassian avevano imparato in breve le usanze veneziane: conoscere le leggi per poterle ignorare a dovere. La sua seconda considerazione fu che se Indrajit e Manidhar erano lì, ci doveva essere anche il suo inopportuno fidanzato occasionale.

Il guerriero allungò una mano immensa verso la sua spalla. Era un gesto gentile però le suggerì che era giunto il momento di scappare. Abbassò il capo e si infilò tra due massaie sottobraccio che ebbero da ridire sui suoi modi. Sgomitò chiedendo permesso e riuscì a sgusciare dall’altro lato del campo. Non poté trattenere l’impulso di voltarsi per guardarsi alle spalle e subito seppe che era stato un errore: gli occhi di Cassian trovarono i suoi e si accesero di un interesse che forse lei non avrebbe suscitato se non si fosse fatta sorprendere a scappare. D’istinto alzò una mano per controllare che la maschera fosse al suo posto, poi imprecando raccolse le gonne con entrambe le mani e si inoltrò nelle calli laterali.

Si appoggiò con la schiena contro un portone e scivolò all’interno; osservò da uno spiraglio uno degli Indiani che proseguiva senza accorgersi di lei, dopodiché sgusciò fuori e si allontanò nella direzione opposta. Attraversò un ponte e s’incamminò per la fondamenta alla ricerca di una gondola a nolo nella quale nascondersi.

«Aspettate!»

Non avrebbe dovuto rispondere a quel richiamo, era sbagliato. Tuttavia non fu capace di impedirselo, Cassian era di fronte a lei, dall’altra parte del rio; la sua mano si alzò in ritardo e la gondola passò tra loro. Lui non staccò gli occhi dai suoi quasi volesse tenerla inchiodata al suolo soltanto con la forza della propria volontà.

Si guardarono e lui disse: «Perché state scappando? Chi siete?».

Lei non gli rispose, con il cuore che batteva all’impazzata e la mente fredda come il ghiaccio gli voltò le spalle e si allontanò, consapevole però che lui l’avrebbe seguita. Infatti, a poca distanza, sentì il rimbombo di passi che guadagnavano terreno.

Per la millesima volta, Cordelia maledisse l’idea della maschera da fantasma sentendosi come una stupida gallina bianca in una voliera di corvi e sapeva, quando si infilò in un magazzino, che Cassian avrebbe immediatamente individuato il suo mantello non appena ne fosse uscita.

Infatti lo vide tornare indietro lungo la calle non appena lo scorse oltre la soglia del magazzino; lo guardò avvicinarsi e tirarne un lembo. Infine lo vide osservare sbalordito il semplice abito di fustagno sotto quel mantello sontuoso e il volto comune di una popolana dalle mani grosse.

Dall’altro lato del ponte, senza avere la possibilità di ascoltare, Cordelia poteva però immaginare benissimo cosa si stessero dicendo dall’espressione sbalordita di Cassian e dallo sguardo rapito e confuso della ragazza.

Una nobildonna le aveva chiesto di scambiarsi il mantello per fare uno scherzo a un amico, gli stava spiegando la donna, le aveva permesso di tenerlo e le aveva anche regalato una moneta.

Avvolta nel semplice manto bruno, Cordelia raggiunse il rio successivo e fermò la prima gondola di passaggio, poi si rifugiò sotto il felze per tornare verso Calle della Regina.

Rientrata a casa, l’aspettava un biglietto di Cassandra che le fece salire alla testa una vampata di calore tale da sfuocarle la vista.

Kitty fu svelta ad accorrere con una pezza gelata e una tazza di cioccolata con una generosa correzione al whiskey.

«Milady si è stancata molto» disse Kitty in tono di disapprovazione tamponandole le tempie con l’acqua fredda e la colonia.

«No, sono infuriata» disse Cordelia. «Quando mi arrabbio sul serio mi gira la testa.» Afferrò la tazza e bevve un sorso, si scottò la lingua e imprecò ad alta voce, poi appallottolò la lettera vergata con la grafia elegante di sua sorella e dal leggero profumo di gelsomini.

Sapeva già che non sarebbe stata in grado di dirle di no.

«Kitty, domani ho un ricevimento alla Giudecca, rinfresca il vestito color lavanda e tienilo pronto per la tarda mattinata.»

Cassandra le chiedeva di condurre un gioco ancora più pericoloso di ciò che le imponeva il padre. Stare a stretto contatto con Cassian poteva significare soltanto rischiare la sua copertura in un modo che non avrebbe potuto permettersi.

«Svegliami alle cinque» aggiunse poi, sfinita, mentre l’altra chiudeva il giorno inoltrato oltre gli scuri e tirava le tende. La cameriera posò una candela accesa sopra il tavolino accanto al letto e poi se ne andò chiudendo piano la porta. Mettendosi a letto, Cordelia udì la sua risata divertita perdersi lungo il corridoio.

Quella sera stessa, in semplici abiti da popolana benestante, tornò in Contrada Sant’Andrea e si infilò in una cantina. Era un magazen, quel genere di mescita aperta tutta la notte dove si potevano dare in pegno dei beni e ricevere il valore per due terzi in denaro e un terzo in pessimo vino. Ciascuna delle settantadue parrocchie di Venezia ne possedeva una dove raggranellare qualche soldo impegnando oggetti di valore talmente scarso da non meritare il Monte di Pietà e dove Cordelia quindi era sicura di trovare qualcuno disposto a dividere delle chiacchiere in cambio di una cena.

Era un locale caldo e fumoso per i vapori della marmitta di brodo che bolliva sul focolare, crocchi di popolani parlavano a voce alta e ridevano, su parecchi tavoli si giocava a carte, una donna dall’aria scaltra leggeva la sorte sul palmo della mano; in un angolo un uomo con le mani rovinate da operaio dormiva della grossa su una panca.

I magazzini non fornivano cibo – che gli avventori potevano portare da casa o ordinare a una vicina salumeria – così, prima di uscire, Cordelia si era fatta preparare un paniere con del pollo e del pane fresco. Seduta al tavolo della taverna, aveva ordinato da bere e poi aveva apparecchiato per cenare. Non aveva impiegato molto a individuare un paio di donne a caccia di cibo e di compagnia e aveva lasciato loro l’onore di pagare un secondo giro di vino che aveva scaldato la conversazione e sciolto le lingue.

Circa un anno prima, raccontarono, era scomparso Tommaso Busento, barcaiolo in Contrada Santa Chiara. Il cadavere non era mai stato ritrovato perché, sostenevano, l’assassino lo aveva zavorrato e gettato al largo nella laguna oppure lo aveva trasportato in una delle isole e lì sepolto in una fossa senza nome né preghiere cristiane (qui le vecchie si segnavano con devoto sdegno).

Pochi giorni dopo era stato arrestato il Dottari, proprietario di una bottega di frutta, poiché nel corso di una perquisizione era stata rinvenuta nel suo alloggio una medaglietta in oro di San Cristoforo appartenuta al defunto. Gli sgherri dei Signori di Notte al Criminal lo avevano condotto ai Pozzi. Lì era stato interrogato più volte dall’Avogador del Comun – l’Avvocato Comunale – incaricato delle indagini, davanti al quale Dottari si era sempre dichiarato innocente. Nessun nuovo elemento era emerso dalle indagini, il cadavere era disperso e la famiglia di Busento aveva fatto recitare delle messe in memoriam. In assenza di prove schiaccianti Dottari non era stato giustiziato ma, in omaggio al processo inquisitorio, era rimasto rinchiuso ai Pozzi, in attesa che il Signore decidesse di condannarlo a morte mediante una delle epidemie che scoppiavano quotidianamente nelle prigioni delle segrete di Palazzo Ducale.

Era accaduto però che dopo oltre un anno Busento aveva fatto ritorno. Privo di memoria, pallido come se avesse trascorso tutto il tempo rinchiuso in una grotta, tuttavia dritto sulle sue gambe.

La moglie lo aveva riconosciuto al di là di ogni dubbio e il Capo Contrada si era quindi recato immediatamente a Palazzo per riferire al magistrato la novità e perorare la causa di un uomo rinchiuso ingiustamente.

Non appena lo avevano informato del motivo del suo rilascio, Dottari era quasi svenuto, poi aveva cominciato a implorare che lo riportassero nella sua cella. Si era dichiarato colpevole mille volte, aveva descritto davanti al Capo Contrada e all’Avvocato, stupefatti, come avesse ucciso Busento e poi ne avesse nascosto il cadavere per condurlo, nottetempo, a Sant’Arian dove lo aveva sepolto in mezzo ai resti dell’ossario della laguna. Aveva implorato che lo riportassero ai Pozzi, che lo giustiziassero, tutto pur di non essere costretto a tornare a casa.

Era piuttosto evidente che il poveretto era uscito di senno: non aveva alcun senso confessare un delitto di cui si era innocenti, un omicidio che con ogni evidenza non era neppure mai avvenuto. Probabilmente le sofferenze patite nei Pozzi l’avevano fatto impazzire. Il primo giorno si era ubriacato in un’osteria dalle parti di San Zulian e si era impegnato anche la giubba per pagarsi ancora del vino. I compagni di contrada erano andati a prenderlo e lo avevano messo nel suo letto, ancora vestito, poi se n’erano andati. Quando Dottari si era svegliato, tutta la parrocchia aveva sentito le sue urla. Erano cessate soltanto quando si era gettato dalla finestra, con una corda intorno al collo la cui estremità era assicurata a uno dei piedi di un pesante cassettone.

Pace all’anima sua che, alla fine, si era macchiata in ogni caso di un crimine contro il Signore.

«Busento che dice?» domandò Cordelia, rivolta a una delle donne, una lavandaia rotonda e gioviale, versando ancora un poco di vino nei boccali. «Sarà stato in grado di dire se quell’uomo lo aveva aggredito oppure no.»

«Non ricorda nulla» intervenne invece la più anziana, una cucitrice di Rialto in visita all’amica lavandaia. «Anche se la moglie, che è una mia buona amica, dice che ha un taglio grande quanto un palmo della mano dietro la nuca. E volete sapere una cosa? Quello è esattamente il posto dove Dottari sosteneva di averlo colpito.»

La lavandaia ridacchiò pulendosi le dita su una fetta di pane. «Se volete la mia opinione, era ubriaco e si è ritrovato chissà dove, poi quando ha terminato i soldi è tornato all’ovile.»

Le brave comari non sembravano affatto turbate dall’idea che invece sconcertava Cordelia: qualcuno che avrebbe dovuto essere morto, al pari dell’amante dello sfortunato studente di medicina, se ne andava in giro per Venezia come se nulla fosse.

Tornata a casa, trovò un secondo biglietto da Casa Giustiniani Santa Croce: una convocazione di suo padre per la mezzanotte del giorno dopo presso la sagrestia della chiesa in Contrada Anzolo Rafael. Represse un senso di frustrazione chiedendosi per quanto tempo i Giustiniani l’avrebbero trattata come il loro burattino.

Lavorò fino a tardi, scandagliando mappe della laguna e rileggendo i rapporti dei suoi informatori e lasciò un appunto per James perché si informasse in merito a misteriosi ritorni di persone credute morte. Un biglietto recapitatole attraverso uno dei suoi indirizzi fasulli presso un convento delle monache di San Daniele la informava che la compagnia di studenti di medicina avrebbe organizzato la spedizione a Sant’Arian per la prima settimana di giugno, non appena gli impegni universitari avrebbero consentito il ritorno a Venezia di Orsini, autoelettosi capitano della compagnia.

La pendola sulla mensola del camino segnava le due del mattino quando ripose la penna e si avvicinò all’armadio dove Kitty aveva appeso il vestito color lavanda.

Era la creazione di una sarta francese, talmente elegante da poter figurare con grande effetto addosso alla Piavola de Franza, la Bambola vestita all’ultima moda di Parigi che faceva mostra di sé all’imbocco delle Mercerie e che, a detta di quella lingua tagliente dell’Avvocato Goldoni, indossava parecchie creazioni di sarti veneziani abilmente spacciate per invenzioni d’oltralpe.

Cordelia lo aveva fatto confezionare in Francia con una scollatura molto profonda per un abito da giorno. Quando si sorprese a scegliere a mente i gioielli che avrebbero fatto risaltare al meglio il suo incarnato, inorridì. Chiuse l’armadio con un colpo secco e gli voltò le spalle, agitata e diffidente come se si aspettasse di vederne uscire un sicario che l’avrebbe assalita a tradimento, con un colpo alla schiena dritto a trafiggere il cuore.