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IL BALLO DELLE LUCERNE

Un gondoliere la riportò verso San Polo a gran velocità, facendosi largo tra altre imbarcazioni e guadagnandosi gli insulti dei colleghi in cambio di una piccola fortuna.

Il Canal Grande intorno a lei aveva preso a girare, in un gioco di luci e riflessi che le dava una lieve nausea. Il fiotto di sangue le inzuppava la manica sinistra. Il dolore era l’ultimo dei suoi pensieri, ma quando la vista si sfuocò, per la prima volta pensò che non avrebbe resistito. Con le dita malferme cercò una gala della sottogonna e strappò una striscia di tessuto che si avvolse intorno al braccio sinistro in un bendaggio, talmente stretto che le dita persero sensibilità. Infine, fece con freddezza un elenco dei danni: le macchie di sangue erano estese ma il mantello che aveva lasciato nel guardaroba dei Pérez de Guzmán le avrebbe nascoste; asciugò il sangue dalla mano destra e poi controllò che la parrucca fosse in ordine. Avrebbe fatto una fugace comparsa prima di andare a casa col pretesto di un malore. A Cassian come a chiunque altro sarebbe bastato vedere il suo volto per non dubitare affatto della sua sincerità.

Scendendo dalla gondola la colse un capogiro: vide la pietra d’Istria della riva avvicinarsi a velocità vertiginosa, lo spigolo di un gradino a un soffio dal suo viso. Il braccio del gondoliere la sostenne. «La signora sta bene?»

Non sembrava preoccupato e, con ogni probabilità, pensava che lei avesse bevuto troppo.

Una pellicola di sudore gelido le bagnava la schiena e le ginocchia tremavano quando, dopo essere entrata nel palazzo, si infilò nello spogliatoio. Ordinò a una cameriera acqua fredda, colonia, cipria e un panno pulito; poi si ritirò dietro un paravento per rimediare ai danni più evidenti. Sistemò la parrucca, si ripulì con acqua mista a colonia e poi si drappeggiò sulle spalle l’elegante mantello di una delicata sfumatura ametista guarnito di pelliccia bianca.

Con il braccio sinistro che pendeva inerte lungo il fianco si avviò verso i piani superiori attraversando saloni da gioco e sale da ballo fino a giungere in terrazza, sospinta da un’onda di musica – chitarre e violini scanditi dal suono di nacchere – che le accarezzò il viso in una folata fresca.

Un movimento troppo vicino la indusse a voltarsi e dapprima pensò di trovarsi davanti a uno specchio perché si ritrovò a fissare i propri occhi che le restituirono uno sguardo sollevato e colpevole insieme. Si mosse di lato e la sua immagine l’assecondò con un istante di ritardo quasi a volersi scrollare di dosso l’inevitabile simmetria, poi fece un passo indietro rompendo l’incanto e parlò.

«Cordelia, perdonatemi.»

Le occorse un piccolo spazio di tempo per notare le incongruenze in quello che avrebbe potuto essere il suo riflesso – la diversa tonalità di viola del vestito, i gioielli, l’espressione timida – e sgranare gli occhi.

Cassandra?

«Per favore, Cordelia, non siate in collera.»

Prima di abbandonarsi all’impulso di imprecare ad alta voce, Cordelia si voltò e infilò la destra in tasca. Quando si volse di nuovo verso la sorella aveva una maschera moretta sul viso.

«Cassandra» sibilò. «Che cosa vi è saltato in mente di fare? Da quanto tempo siete qui?»

«Da poco meno di un’ora» rispose Cassandra.

Cordelia la prese per un braccio e la trascinò verso un’alcova formata da alcun tendaggi. «Chi vi ha vista?» le domandò. «Santo cielo, voi avete perso il senno.»

«Ho parlato con Andrea Memmo» disse lei. «Non sono riuscita a evitarlo, mi dispiace.»

Cordelia chiuse gli occhi e si sforzò di pensare. Forse, dopotutto, la presenza di sua sorella poteva essere provvidenziale.

«Morivo dal desiderio di vedere questo palazzo e di stare con Cassian» le stava spiegando l’altra, la voce bassa e frenetica. «Così ho mandato la mia Flaminia dalla vostra Kitty per chiedere il colore del vostro abito di stasera. Speravo che poteste concedermi anche un solo ballo prima di tornare a usare il mio volto. A voi non importa di lui mentre per me un solo minuto trascorso in sua presenza significa una vita intera.»

«Quando vi domanderà se per caso vi siete mossa da qui voi risponderete di no» la interruppe Cordelia. «Ditegli del vostro colloquio con Memmo e di qualsiasi altra persona abbiate salutato che possa testimoniare della vostra presenza qui.»

Cassandra annuì. «C’ero davvero, saprò fare la mia parte» disse con fierezza. «Se menzionerà qualche particolare di cui non sono a conoscenza fingerò che la mia malattia abbia confuso i ricordi come sempre.»

Cordelia scostò la tenda e gettò un’occhiata alla terrazza dalla larga cornice di una vetrata. I valletti avevano smorzato le lampade e soltanto le fiammelle di dozzine di minuscole lucerne illuminavano una sala da ballo sotto le stelle dove un’unica coppia stava danzando al suono delle chitarre. Il bruno, sensuale Don Manuel porgeva la mano a una bellezza bionda e dalla pelle chiara ma non per questo meno tenebrosa e la guardava con un’intimità che escludeva l’intera folla di invitati, racchiudendoli in un luogo selvaggio e sconosciuto dove esistevano soltanto loro e la musica. Sentì Cassandra trattenere bruscamente il fiato.

Don Manuel aveva avvicinato a sé la sua dama in una figura del fandango, con una forza deliberata e satura di sottintesi, arrestandola a un passo dal suo corpo, attirandola senza tuttavia arrivare a toccarla. Il modo in cui la guardava, il sorriso che lei gli rivolgeva persa nel suo volto e nel contatto delle loro mani, valevano a tacitare ogni respiro nello spazio di cento passi. Intorno a loro si era fatto il silenzio, nulla turbava le note di chitarra, lo scoppiettare delle lucerne e il battere cadenzato dei tacchi dei ballerini che si giravano intorno senza smettere il contatto visivo, come due fiere nella più antica metafora del corteggiamento.

«Chi è lei?» domandò Cassandra.

«Doña Jimena.»

«La sua sposa?»

«Sua sorella minore» rispose Cordelia e, spostando lo sguardo a destra, oltre la corona di gente che seguiva la danza, scorse Cassian. Era appoggiato alla balaustra, rivolgendole il profilo, l’attenzione lontana nel buio oltre i tetti della città, la bocca splendida curvata in un’espressione cupa.

Avrebbe dovuto distogliere lo sguardo perché era impossibile osservare qualcuno con la dolorosa intensità che sapeva di avere negli occhi senza attirarne l’attenzione, pensò mentre Cassian si voltava, costringendola a lasciare cadere la tenda e a ritirarsi dietro di essa.

«Che cosa vi succede?» Il tono allarmato di Cassandra la indusse ad aprire gli occhi e a raddrizzare la schiena interrompendo la lenta discesa verso il pavimento. Il sangue perduto stava tornando sotto forma di un freddo tremendo fin dentro le ossa e di una debolezza che le dava la nausea. Doveva andarsene: le servivano cure immediate o avrebbe perso i sensi davanti a tutti provocando un disastro.

«Andate da lui, adesso. Ricordate tutto ciò che vi ho detto?»

«Non posso lasciarvi da sola!»

Cordelia serrò i denti e sentì una goccia di sudore scivolarle dalla parrucca lungo la fronte. «Se volete aiutarmi, fate come vi dico.»

Con un ultimo sguardo pieno di rimorso e preoccupazione Cassandra le voltò le spalle e uscì sulla terrazza.

Per un momento, solo per un momento, Cordelia avvertì un sordo rancore nei confronti della sorella, sentendosi spregevole. Appoggiò la fronte contro la parete gelata, aprì gli occhi e le tessere del mosaico le restituirono un vortice di colori sfocati.

Avrebbe desiderato anche soltanto per una volta fermarsi ad aspettare che qualcuno facesse tutto il lavoro al suo posto; dare per scontato che l’avrebbero protetta, che le avrebbero tolto dalle spalle il peso delle sue responsabilità per il semplice, acclarato motivo che non era in grado di sostenerlo. Per una sola, maledetta volta nella vita avrebbe voluto essere debole.

Era sola mentre sentiva gli ospiti ridere e conversare ignari di lei e osservava un’altra se stessa andare incontro a Cassian. Notò il modo in cui il volto di lui si animava, cambiando dalla collera al sollievo. Era una sensazione inspiegabile, e dolorosa.

Cassian si mosse verso Cassandra, il passo deciso e lo sguardo fisso su di lei, con una sicurezza che indusse chiunque intorno a togliersi dalla sua traiettoria. La raggiunse, in un modo imperioso le disse qualcosa che Cordelia poté soltanto intuire. Cassandra scosse il capo, indicò alcune persone tra cui il giovane Memmo e allora Cassian le afferrò il braccio sinistro, scostando con decisione la cascata di trine che arrivava al gomito.

Cordelia si portò una mano alla bocca per arginare lo sgomento: lui aveva visto tutto, aveva visto il proiettile colpirla ed era andato a cercare le prove dei suoi sospetti.

Quando però le dita incontrarono soltanto pelle liscia e intatta, Cassian perse ogni espressione e rimase immobile, fissando la giovane donna davanti a lui con una punta di incredulità. Poi, senza alcun preavviso, l’afferrò per le spalle e si chinò per posare la bocca sulla sua.

Lo stratagemma era riuscito, eppure mentre osservava le crepe della sua copertura richiudersi – il viso estatico di Cassandra, il modo in cui chiuse gli occhi a quel bacio – non provava alcun sollievo. Una pena cupa e imprevista le fece bruciare gli occhi, sollevò il braccio buono per sfregarsi le ciglia umide e si appoggiò alla parete, tremando e chiedendosi come sarebbe riuscita a trascinarsi fino a casa.

In qualche modo riuscì a scendere le scale, la vista annebbiata da un velo di lacrime, allo stremo delle forze. Davanti alla porta d’acqua del palazzo, dove i valletti fugavano le tenebre del Canale con lampade di vetro, era ferma una gondola. Accanto al gondoliere una donna abbassò il cappuccio e le porse la mano. «Signora» disse in italiano perfetto. «Possiamo andare.»

Kitty l’aiutò a salire sull’imbarcazione che subito si staccò dal molo privato diretta verso Santa Croce e al rifugio sicuro di Calle della Regina.

Non era a Venezia ma il luogo, nonostante fosse sconosciuto, era familiare tanto da accenderle dentro una scintilla di cocente nostalgia. Accanto a una statua di marmo, guardava scendere la notte sul largo nastro d’argento che scorreva al di sotto del maestoso ponte di pietra.

Alzò lo sguardo sulla sagoma del santo dietro il quale si addensava il buio: la statua di San Giovanni porta fortuna, pensò, se tocco la sua base tornerò a casa, in questa città. Era un’idea confortante, quando si stava per partire alla volta di un luogo lontano.

Poi il sogno mutò nonostante i suoi sforzi, in un momento atteso e temuto, inevitabile; e nell’istante in cui vide Cassian D’Armer seppe che cosa sarebbe successo.

Erano nei giardini della Giudecca, in un angolo riparato da cascate d’edera scintillante di rugiada. Qualcuno aveva sistemato un drappo di seta su un letto di roccia e cuscini soffici per renderlo confortevole, residui di pioggia stillavano, radiosi, dalla pergola sovrastante formando un rivolo iridescente d’acqua che profumava del temporale appena trascorso.

Dietro la schiena la pietra era dura e tagliente, il corpo sopra il suo bruciava, esigente, eppure c’era una gentilezza struggente nel suo tocco, che cercava un contatto privo di imposizione. Lui la sovrastava senza forzarla e le labbra sulle sue avevano la purezza dell’oro e il riguardo di tenerle lontano la sua tenebra.

Le forze del buio premevano contro l’orizzonte del suo abbraccio ma, in quel momento, nelle sue mani c’era soltanto una luce infinita e dietro il suo sguardo notti insonni che aveva vissuto soltanto per lei.

Poteva percepire i suoi sentimenti come un drappo di raso sopra la pelle nuda; il perdono per tutte le sue menzogne, l’acqua che avrebbe lavato le macchie di sangue dalla sua anima. Il suo bacio aveva il gusto di una passione controllata a stento e la promessa inviolabile che avrebbe riconosciuto soltanto lei dietro ogni sua maschera.

Cassian sollevò il volto dal suo senza separare i loro respiri e la guardò. I suoi occhi avevano la trasparenza di un mare che aveva visto molto sole e troppi annegati, il sale e la violenza dei flutti che si tingevano di pace posandosi su di lei.

«Cordelia.»

Il proprio nome nella sua voce la raggiunse insieme alla coscienza che non avrebbe mai potuto ascoltarlo nella realtà e le disegnò una ferita dentro il petto, in un luogo talmente profondo da rendere impossibile ritrovarlo e dove, in assenza di cure, si sarebbe cicatrizzata malamente lasciandole un segno per sempre. Si svegliò che il dolore sordo al cuore anestetizzava quasi del tutto il pulsare del braccio ferito.

Sul vassoio d’argento accanto al letto l’attendeva una lettera col sigillo di Enrico Giustinian e il cortese invito a partecipare a un assassinio.