Kitty aveva versato nell’acqua della vasca un olio profumato perché le mantenesse elastica la pelle e impedisse ai muscoli del braccio sinistro di irrigidirsi. La ferita era superficiale e sarebbe guarita senza lasciare segni, nondimeno era un inconveniente dal momento che era già stata convocata per la missione successiva.
Raccolse le ginocchia contro il seno, all’improvviso stanca e insonnolita. Mancava circa un’ora all’alba e una tazza di cioccolata corretta con un tonico era riuscita a malapena a schiarirle i pensieri.
«Milady» il bussare rispettoso di Kitty alla porta dello spogliatoio la distolse dai suoi pensieri, «è quasi l’ora. Dobbiamo cominciare a vestirvi.»
«Ancora qualche minuto» sospirò lei appoggiando la tempia contro il lino bagnato che foderava la vasca di ceramica e chiudendo gli occhi.
L’accento di Kitty acuiva la nostalgia di casa, della verde campagna inglese e del chiasso indisciplinato delle strade di Londra. Si sforzò di pensare al Tamigi, ai flutti grigi e tumultuosi sotto i ponti e poi, dietro le sue palpebre, la scena mutò.
Non era più sulle sponde del Tamigi ma stava guardando una torre dal tetto spiovente, alta e irta di guglie e cuspidi, all’estremità di un ponte. Guardando in alto alla sua sinistra poteva incontrare lo sguardo cieco della statua di un santo, una delle dozzine che negli ultimi anni erano diventate le sentinelle silenziose delle sponde sulla Vtlava.
San Giuda Taddeo, pensò, prega anche tu per me.
Il gocciolare dell’acqua sul pavimento aveva un ritmo ipnotico, rimbombava in un silenzio talmente profondo da creare un’eco tra le pareti del suo cranio. Un sentore particolare saliva dall’acqua, come di alghe in putrefazione e pesce marcio, salato e pungente, simile all’odore dei porti quando la bassa marea scopriva i fondali. Qualcosa di soffice e viscido si avvolse lungo le sue gambe, nastri bagnati che rimasero immoti intorno alle sue membra senza causarle allarme.
La notte si diradava su Calle della Regina mentre da qualche parte un violoncello suonava un Miserere di Benedetto Marcello. Mani bianche emersero dalla laguna, volti dai lineamenti gonfi e indistinti dal velo delle acque, dita che si arrampicarono lungo gli argini e toccarono il punto in cui i palazzi si congiungevano con il mare. Poi un contatto viscido, un dito rugoso per essere stato troppo tempo immerso nell’acqua sopra la guancia la riscosse.
Cordelia si accorse di non essere in grado di urlare, il fiato si raccoglieva in gola ma senza produrre voce. Spalancò gli occhi e guardò in basso verso l’acqua della vasca: verdi alghe robuste e simili a funi sbucarono dal fondo e le strisciarono lungo le braccia. Era quella la sensazione di nastri bagnati che aveva avvertito intorno alle gambe. Sulle labbra adesso aveva sapore di sale e di marciume e una mano si posava sopra l’acqua del suo bagno talmente vicina da sfiorarle quasi le ginocchia, il polso scompariva sotto la superficie torbida di sapone e Cordelia in un impeto di nausea pensò che non aveva alcuna intenzione di scoprire se vi fosse attaccato qualcosa. Saltò fuori e le alghe produssero uno schiocco viscido quando si liberò dalla loro stretta. Nuda, con in mano il coltello che teneva accanto anche mentre faceva il bagno, si rintanò dal lato opposto dello spogliatoio e si spostò lungo la parete coprendo il perimetro ma distogliendo gli occhi dall’acqua il meno possibile. La mano era ancora lì, immobile, né dava cenno di volersi muovere. Si limitava a galleggiare, le dita rilassate e leggermente piegate e, maledizione, aveva l’aria di non essere viva da molto tempo.
Cordelia passò il pugnale nella sinistra e afferrò un catino ma, quando fece per avvicinarsi, come se avesse intuito le sue intenzioni, la mano distese le dita di scatto e poi affondò nell’acqua.
Imprecando, Cordelia cominciò a chiamare a gran voce Kitty la quale accorse, aprendo la porta con tanto impeto da mandarla a sbattere contro il muro. «Che cosa succede, Milady?»
La cameriera le rivolse una sola occhiata poi raccolse un telo di lino da una sedia e glielo gettò. Cordelia se lo avvolse intorno con una sola mano, senza mettere da parte il pugnale.
«Portami un bastone e una pistola.»
«Subito.»
Insieme svuotarono la vasca, dopo che Cordelia ebbe scandagliato il fondo a lungo con il bastone. Non trovarono nulla, a parte un pezzo di alga che Kitty prelevò con le molle del camino e gettò tra le fiamme.
Cordelia da parte sua era in preda a una gelida collera: prima doveva assolvere al compito che le aveva assegnato Giustinian e dopo sarebbe andata a cercare Alain de Mortemart per ordinargli di tenere i suoi morti lontano da lei.
L’ordine tassativo era che sembrasse una volgare rissa sfociata in un omicidio. La vittima, Lunardo, apparteneva a un ramo decaduto dei Morosini e la sua condizione di nobile indigente lo poneva più vicino alla sfera dei Barnabotti che a quella della nobiltà più influente. Come molti suoi pari, apparteneva a una nobiltà del sangue ed era sprovvisto dei mezzi per mantenere un tenore di vita consono, così viveva di espedienti e case da gioco, in particolare era nota la sua frequentazione del Casino dei Nobili a San Barnaba.
Ultimamente però le sue fortune dovevano aver subito un qualche miglioramento, pensò Cordelia guardandolo passare da un portone dove si era rifugiata, perché indossava un mantello di buona qualità dalle rifiniture preziose. Il suo volto recava le tracce delle dissipatezze a cui si era abbandonato durante la notte e, del resto, era l’ora in cui la buona società si ritirava dopo un’ultima tazza di caffè e una passeggiata all’Erberia oppure, nel caso di Lunardo Morosini, dopo un bicchiere in una malvasia.
Sulla soglia delle rivendite di vino greco – Malvasia, Cipro e Malaga e quella bevanda amarognola chiamata garba che i veneziani sembravano apprezzare tanto – si incrociavano patrizi di ritorno dalle feste, gondolieri, operai e anche mendicanti che investivano così le loro elemosine. Era consuetudine che il nobile prima di andarsene lasciasse una moneta sul banco, facendo cenno al bottegaio di pagare con il resto le consumazioni degli astanti.
Cordelia imboccò Calle del Rimedio, a Santa Maria Formosa, famosa per le sue mescite e così chiamata per l’indefessa convinzione veneziana che la malvasia fosse una panacea. Il locale in cui si infilò, mascherata, era arredato con un largo bancone al centro della stanza, dietro il quale erano assiepate botti in bell’ordine, il profumo di vino dolce si univa a quello del legno e delle candele che bruciavano davanti a una grata in ottone lucido con un’effigie sacra. Fuori dalle finestre aveva preso a scrosciare una tempesta d’acqua come poche se ne erano viste a Venezia. Non era disdicevole per le signore recarsi nelle malvasie, specie se alla moda come Rafai e Lazzaroni, quindi il suo ingresso non suscitò particolare interesse.
Lunardo Morosini stava bevendo quando Cordelia si avvicinò al bancone e fece la sua ordinazione a voce bassa e rauca, imprimendole un timbro seducente.
L’effetto fu immediato, Morosini si voltò a guardarla. «Permettete, signora» disse, e tolse la caraffa dalle mani del vinaio che lo lasciò fare anche in virtù di una moneta apparsa sul banco come per magia. Cordelia corrugò la fronte: era stato talmente veloce che non lo aveva nemmeno visto muoversi.
«Siate generoso, vi prego» gli disse, con sorriso mesto. «Ho bisogno di calore e di coraggio.»
Trattenne lo sguardo dell’uomo un istante più del necessario e poi lo abbassò ad arte perché lui lo inseguisse in basso, dove le trine del corpetto scoprivano con generosità il seno bianco. «Gli sgherri di mio marito, signore, mi stanno cercando e se dovessero trovarmi non oso pensare a cosa potrebbe accadere. Quando è lontano da Venezia mi tengono quasi segregata.»
Si curò di pronunciare quelle parole a voce abbastanza alta perché le udissero anche gli astanti.
«Servo vostro, signora. Non avete nulla da temere fintantoché vi trovate in mia compagnia.» Morosini le sorrise con gentilezza, teneva una distanza rispettosa e il suo atteggiamento non era insistente, eppure dietro lo sguardo lei colse il calcolo freddo, la scaltrezza volgare che il sangue patrizio non riusciva a dominare. Aveva anche un lieve accento che lei non riuscì a identificare.
«Allora approfitterò della vostra gentilezza» rispose lei. «Se mi ricondurrete a casa sana e salva saprò ben ricompensarvi, lo prometto.»
Lo sguardo con cui accompagnò la frase, il modo in cui cambiò posizione perché il mantello si aprisse lievemente mostrando la vita sottile e l’ampia scollatura erano inequivocabili.
«Non dovete preoccuparvi» disse Morosini porgendole la mano. Continuava a fissarla con garbo, quasi con pazienza, senza tentare di forzare il confine della maschera per attribuirle delle fattezze. Sembrava invece sicuro che costituisse solo un ostacolo momentaneo.
Lei accettò la mano. «Non è per me che sono preoccupata.»
Il Nobiluomo Lunardo Morosini comprese il significato di quella frase quando la prima pugnalata lo raggiunse al petto. A quel punto cercò lo sguardo di Cordelia dietro i suoi assassini e trovò solo fermezza e nessun senso di colpa dal momento che lei aveva compreso chi avesse davanti.
Un omicidio abilmente mascherato da delitto passionale, uomini al soldo del marito geloso di una dama licenziosa: l’unico modo di uccidere un nobile veneziano senza attirare sospetti. L’Avvocato del Comune incaricato dell’inchiesta avrebbe incassato il racconto del padrone della malvasia e dei suoi clienti che avrebbero confermato le circostanze. I testimoni avrebbero dichiarato che, usciti in Calle del Rimedio, Morosini e la sua misteriosa accompagnatrice erano stati inseguiti e poi affiancati da quattro uomini in anonimi abiti scuri e dal volto coperto da fazzoletti sotto la tesa del tricorno. Uno degli sgherri aveva gridato a Morosini che avrebbe pagato per l’offesa arrecata corteggiando la moglie del suo signore e dopo lo aveva colpito con un pugnale dritto al cuore, rigirando l’arma fino a squarciargli il petto.
Cordelia lo aveva guardato morire senza battere ciglio. In mente aveva solo la sua voce, quella dell’uomo che aveva tentato di usarle violenza nel palazzo di Santa Marina il giorno della festa dei Bolani. Lo vide cadere al suolo e, un momento prima che chiudesse gli occhi per sempre sul mondo, il mantello nero si aprì scoprendo un completo bianco, la marsina decorata di bande verdi sul petto sotto i lunghi occhielli dorati. Anche le fibbie delle scarpe avevano un nastro verde e, adesso, Cordelia poteva identificare con chiarezza il suo accento: bergamasco. Si chinò sul cadavere e raccolse qualcosa che gli spuntava da una tasca. Era una maschera verde oliva che spiegava ogni caratteristica notata in quell’uomo: la scaltrezza, il calcolo dietro l’apparente ossequio; il costume bianco e verde, la maschera verde, l’accento di Bergamo – che in Morosini era dovuto a una madre di origini lombarde.
Era Brighella.
Stava per rialzarsi quando qualcosa attrasse il suo sguardo.
«Signora, dobbiamo andare. Stanno arrivando.»
Nella lotta, Lunardo Morosini – Brighella – aveva perso il guanto destro e un colpo di pugnale gli aveva squarciato la manica fino al gomito. Cordelia scostò i brandelli di camicia insanguinata con il manico di un pugnale e guardò il punto in cui il polso si congiungeva con la mano: punti neri e regolari formavano un disegno simile a un bracciale. Il lavoro era più simile a quello di un artista che di un medico, come se la pelle fosse stata ricucita da una ricamatrice esperta o da una delle merlettaie di Burano: l’effetto era simile a una striscia di pizzo con un motivo intricato che per lei era anche troppo familiare. La mano oltre la cucitura aveva una carnagione diversa rispetto al resto del braccio, più scura e abbronzata, e le unghie erano corte e squadrate. Prese l’altro polso del cadavere per fare il confronto: la sinistra era bianca, dalle unghie ovali e ben curate.
Le lasciò andare entrambe e si alzò.
«Signora.»
«Possiamo andare.»
Una goccia di sudore freddo le scivolò tra le scapole facendola rabbrividire, involontariamente si sfiorò il busto al lato del seno sinistro.