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LO SPOSALIZIO DEL MARE

La seconda settimana di maggio segnava l’inizio ufficiale della Fiera della Sensa e del suo Carnevale. In Piazza San Marco era già stato allestito il recinto di legno decorato che avrebbe ospitato i banchi degli espositori quando i viaggiatori si sarebbero riversati a frotte da tutta Europa per ammirare la raffinatezza delle arti veneziane e le meraviglie esotiche giunte da ogni recesso del mondo.

La mattina dell’Ascensione le celebrazioni iniziarono all’alba, nell’ora in cui i cittadini timorati di Dio si recavano alla messa e la crema della mondanità si ritirava dopo una passeggiata all’Erberia e un’ultima tazza di caffè. In ogni angolo di Venezia risuonavano le campane, su Riva degli Schiavoni le cantanti dell’Ospedale della Pietà si preparavano ad accompagnare con le loro voci eccelse la partenza del Bucintoro alla volta del Lido.

Dalla propria gondola, Cordelia lo vide emergere dall’acqua, alto due volte la parte sommersa del proprio scafo, risplendeva di dorature, statue allegoriche, vessilli e intagli. La solenne imbarcazione era lunga cento piedi e larga ventuno; al primo piano vi erano centosessantotto rematori dell’Arsenale e quaranta di riserva, più i tre Ammiragli che governavano la nave, uno dei quali era il padre di Cassian, Andrea D’Armer. Al secondo piano, i rappresentanti della Quarantia, dell’Avvocatura, i Dieci Savi, altre svariate personalità pubbliche accompagnavano il Serenissimo Principe, il suo seguito e il Maestro di Cerimonie di San Marco.

Il Genio della guerra e il leone alato sui rostri di prua puntarono verso il Lido e una miriade di gondole e barche più piccole – felzi e tendalini ornati d’oro, gondolieri in livrea che accompagnavano i nobili e gli ospiti insigni della Repubblica – ne formò un’eco scintillante tra le onde nella limpida giornata di metà primavera.

Attraverso un minuscolo cannocchiale da teatro montato su un bastoncino d’argento, Cordelia notò Enrico Giustinian affacciarsi per un momento alla balaustra del Bucintoro al fianco di Paolo Renier, il Savio alla Scrittura – che a Venezia era l’equivalente del Ministro della Guerra. Sembravano immersi in una fitta conversazione ed entrambi avevano l’aria cupa. Forse a Renier, noto per essere l’uomo più tirchio di tutto lo Stato da Terra e da Mar, era caduta una moneta in acqua, pensò. In quel caso sarebbe annegato per riprendersela e la Serenissima si sarebbe liberata di un leggendario caratteraccio senza scrupolo alcuno che aveva come unico pensiero quello di riuscire a diventare Doge. Per un breve momento Francesco Foscari, Savio da Terra, si affiancò ai due e Cordelia si disse che affondare il Bucintoro avrebbe significato privare Venezia della totalità della sua classe dirigente.

Dimenticò quel pensiero scorgendo una gondola con lo stemma dei D’Armer all’altezza di una delle creature marine che ornavano i fianchi del Bucintoro. Prima di rendersene conto, stava mettendo a fuoco con il cannocchiale i lineamenti di porcellana di Elena Bolani, il suo volto ardente fisso su quello di Cassian.

Un improvviso, violento dolore alla testa le illustrò con estrema chiarezza la propria reazione: le accadeva soltanto quando aveva un attacco di rabbia. Appoggiò in grembo il bastoncino del cannocchiale prima di rischiare di spezzarlo; respirò a fondo, per dominare il pulsare alle tempie e il desiderio di rompere qualcosa. Dietro gli occhi chiusi vide i capelli biondi come l’oro, i tratti perfetti, la sua necessità di essere sempre al centro dell’attenzione e dovette costringersi a non controllare cosa stesse accadendo nella gondola dei D’Armer.

A prua James, vestito da gondoliere, le lanciò un’occhiata.

«Milady, il Doge è quasi a Sant’Elena.»

«Procedi.»

Individuato il loro obiettivo, James si staccò da un gruppo di imbarcazioni per dirigersi verso una gondola a quattro remi. Cordelia indossò i guanti con cura e prese dalla borsa una sottile cerbottana d’argento. Con la massima cautela spezzò l’estremità di una fiala di vetro sigillato che conteneva un ago sottile. Senza toccarlo lo lasciò scivolare nel foro anteriore della cerbottana e poi scostò le tendine di broccato che chiudevano la finestra del felze, riaccostò il cannocchiale all’occhio.

Con un’abile manovra, James si immise nella traiettoria di un’altra gondola costringendo il gondoliere a virare per non finirgli addosso. Funzionò: mentre lo copriva di una valanga di insulti in veneziano, l’altro gondoliere finì contro una terza imbarcazione. Nel clamore che seguì, Cordelia mise la cerbottana tra le labbra e soffiò.

Un breve fischio fu il segnale per James, che cambiò rotta e iniziò ad allontanarsi verso il Bucintoro mescolandosi alla flottiglia che lo seguiva.

Mentre l’anello d’oro per lo Sposalizio del Mare riceveva la sua benedizione e il Bucintoro ripartiva alla volta del porto del Lido, qualcuno si accorse che il Nobiluomo Stefano Donà aveva avuto un malore. Il gondoliere diede l’allarme chiamando aiuto a gran voce, intanto il Bucintoro oltrepassava San Nicolò del Lido e si immetteva nell’Adriatico dove il Doge Alvise Pisani avrebbe lasciato cadere l’anello sposando ancora una volta Venezia al Mare, in segno di autentico e perpetuo dominio.

Nel periodo del Carnevale della Sensa i funerali in pompa magna erano esclusi: se anche fosse morto il Doge in persona si sarebbe provveduto affinché la notizia non trapelasse in modo da non turbare i festeggiamenti. Parte dell’economia della Repubblica si reggeva sull’afflusso di ricchi visitatori, mercanti e impresari che affollavano Venezia in occasione del Carnevale; gli impresari dei teatri, i ridotti, le sale da ballo e i caffè contavano su queste occasioni per aumentare i loro guadagni. Per sei mesi ogni anno, dalla fine del Natale alla fine di maggio, il lutto e la tristezza erano banditi da Venezia, così quando James travestito da prete si recò presso l’abitazione di Donà a offrire i servigi di una brava ragazza della sua parrocchia che avrebbe preparato con discrezione il morto per le esequie, non incontrò alcun sospetto ma un certo malcelato sollievo.

La sera dell’Ascensione Cordelia, nei panni dimessi di una popolana, si recò in Contrada San Matteo di Rialto dove Stefano Donà aveva in affitto un quartierino in un palazzo di proprietà di un cugino, attiguo all’osteria all’insegna della Donzella.

Dalle notizie raccolte, lo aveva classificato come il tipico patrizio veneziano più ricco di storia e ascendenze che di mezzi di fortuna. La dignità della sua dimora era dovuta soprattutto al fatto che un parente ne fosse il proprietario e l’oste della Donzella, Pietro de Pieri, raccontò quante cene gli avesse fornito a credito in virtù del fatto che lui stesso pagava pigione al Nobiluomo Filippo Donà.

«Gli detraggo le consumazioni del cugino dall’affitto» spiegò. «Era il classico soldato a cui piace fare il gradasso e raccontare le sue avventure. Ha perso una gamba per un cannone difettoso, non aveva un soldo bucato ma a sentire lui il Re di Francia gli doveva la vita ed era capace di dare a bere di essere arrivato a Napoli a nuoto in una notte, mi spiego?»

«Perfettamente.»

«Nell’ultimo periodo però pareva cavarsela meglio, zoppicava meno e aveva le tasche più gonfie. Era riuscito a pagare i debiti che aveva all’altra osteria della Donzella, quella che tengo vicino a Ruga degli Spezieri.» L’oste de Pieri fece un gesto verso Rialto e sorrise. «Là è proprietà delle Monache dell’Umiltà e a Venezia il clero non fa beneficienza.»

Cordelia rimuginò a lungo su quelle parole mentre un servo le apriva la porta della stanza da letto dove il corpo di Stefano Donà era rimasto in attesa di essere composto per la sepoltura.

L’omicidio di un nobile era una cosa complicata a Venezia, dove le morti sospette erano sottoposte ad autopsia da parte di medici o barbieri – a seconda delle complicanze del caso – e dove gli stessi erano obbligati ad avvisare l’autorità quando ravvisavano nei loro pazienti lesioni sospette. L’unica soluzione era simulare qualche altra cosa: un regolamento di conti, un malore improvviso.

«Com’è morto?» domandò Cordelia in dialetto veneziano.

Il servo le rispose nel medesimo idioma che il padrone si era sentito male in mare ed era morto poco dopo essere giunto a casa, in preda a una febbre violentissima. Il parroco aveva appena fatto in tempo a dargli l’estrema unzione.

Il veleno di Meyer si era rivelato efficace.

Gli abiti con cui vestire il cadavere per la sepoltura si trovavano su una sedia, una divisa con tanto di spada da cerimonia. Il morto aveva la costituzione fisica che ci si poteva aspettare da un militare di carriera: spalle larghe, un torace ampio, un’altezza notevole contenuta a stento dal letto intagliato.

Una volta rimasta sola, recuperò l’ago avvelenato utilizzando un paio di pinzette e lo gettò nel fuoco. La lesione che aveva provocato era minuscola, simile a una puntura d’insetto che non avrebbe insospettito nessuno.

Spogliare il cadavere non si rivelò complicato: lei era fisicamente forte e l’irrigidimento post mortem non era ancora sopraggiunto, né lo spettacolo della morte le faceva alcuna impressione. Il difficile fu invece togliergli i calzoni.

Cordelia non aveva alcun problema di pudore nei confronti del corpo maschile perché, nell’addestrarla, sua madre l’aveva liberata degli inutili fronzoli di un’educazione raffinata, tuttavia guardare le gambe nude dell’uomo le provocò una leggera vertigine. Anzitutto si trattava di due gambe; in secondo luogo intorno alla gamba destra, sotto il ginocchio, vi era una cucitura intricata, in parte simile alla sutura di un medico e in parte al lavoro di una merlettaia di Burano. Una striscia nera che lei conosceva bene, al di sotto della quale la gamba era diversa dall’altra – pelle più giovane e liscia, peluria bionda quando Donà era scuro come la pece.

In preda all’agitazione, Cordelia fece ciò che doveva in fretta: prese una lama corta e affilata e l’affondò nel cuore del cadavere, rigirando fino a che non fu sicura di averlo lesionato in modo irreparabile. Il sangue sgorgò copioso e scuro, quasi nero, quando il sopraggiungere della morte avrebbe dovuto arrestarlo del tutto. Allora attese in preda alla nausea che smettesse di sgocciolare, poi pulì con le lenzuola che raccolse e scaricò nel camino acceso lasciandole bruciare.

Rivestì il corpo nascondendo le ferite sotto strati di vestiti. Dopo cominciò a frugare nella stanza fino a che non trovò, nel primo cassetto di un mobile, una mezza maschera di cuoio nero più simile a quelle usate a teatro che a quelle d’utilizzo comune. Capitan Spaventa, pensò. Il Miles Gloriosus di Plauto, Capitan Matamoros o, più semplicemente, il Capitano che ogni sera andava in scena in un teatro di Venezia e del resto d’Italia. Un uomo che vantava imprese mai compiute e onori mai ricevuti.

Posò la maschera e chiuse il cassetto, dalla porta il servo la guardava come a chiedersi cosa fosse riuscita a rubare prima che potesse provvedere lui stesso.

«Questo posto è infestato dai parassiti» disse lei, con voce aspra. «Dove posso trovare un altro lenzuolo? Ho dovuto bruciare quello del letto perché brulicava di bestiacce.»

Con un gesto brusco tacitò il servo prima che potesse parlare. «Sua Eccellenza è pronto per le braccia del Signore. Datemi i miei soldi così posso andarmene da questa topaia.»

Era appena uscita dal palazzo quando avvistò un gruppo di uomini in abiti scuri, tricorni e maschere sul volto. Colta da un presentimento, si dileguò nella folla che fuori dall’osteria festeggiava la Festa della Sensa e, quando quelli furono entrati nel portone di Donà, si avvicinò di soppiatto a una delle finestre.

Non sapeva cosa aspettarsi ma quanto udì, anche nel vociare confuso della calle, le fece accapponare la pelle: un ringhio di rabbia quasi disumano e una voce femminile fredda come il ghiaccio che disse in francese: «Dannazione, di nuovo sono arrivati prima di noi».

Giunta a Rialto consegnò un biglietto a un gondoliere e poi si incamminò verso la Contrada di San Paternian diretta in Calle della Vida. In quella zona si trovavano un gran numero di locande e albergherie che lei conosceva piuttosto bene in quanto la generica tolleranza nei confronti dei convegni amorosi (a pagamento o meno) rendeva la zona ideale per incontri segreti e gli affari riservati.

Nel momento in cui si accorse di un uomo in maschera e tabarro che la seguiva, superò la locanda all’insegna della Vida e si immise in un ramo laterale di Calle delle Locande. Si lasciò alle spalle le insegne delle Tre Chiavi e Le Tre Rose e poi I Tre Visi; infine si infilò nella Locanda all’insegna del Selvatico o dell’Uomo Selvaggio che era conosciuta per essere un poco discreto covo di prostituzione.

Con il fazzoletto scuro annodato sopra una parrucca bionda e senza alcun timore di essere riconosciuta, entrò nella stanza che una fantesca le indicava. Era anziana – una legge vietava di impiegare fantesche al di sotto dei trent’anni per contrastare l’uso di tenerle a disposizione dei clienti insieme a dei bei giovinetti – ma non mancò di rivolgere uno sguardo invitante all’uomo che entrò poco dopo.

Senza degnarla di altro che un cenno imperioso di congedo, l’uomo si tolse il mantello e, quando la porta fu sbarrata, si liberò anche della maschera mostrando il volto attraente e arcigno di Enrico Giustinian.

«Cordelia, mi auguro sia importante perché al momento dovrei essere già al banchetto organizzato da Sua Serenità.»

«Lo è» disse lei, concisa. La vista sgradita di Elena Bolani le aveva riportato alla mente qualcosa che aveva completato una parte anche infinitesimale del quadro. Il giorno del suo ricevimento, aveva ucciso un uomo in toga nera, con un colletto di pizzi e una maschera abbandonata che copriva il naso e mostrava un paio di occhiali.

Balanzone.

«È importante» ripeté. «Credo sia arrivato il momento di spiegarmi perché sto assassinando le maschere della Commedia dell’Arte.»

La gradazione di espressioni che si alternarono sul volto di suo padre andava dal divertimento all’odio e Cordelia ebbe modo di apprezzarne l’autocontrollo quando lui sedette e versò del vino per entrambi.

«In fondo se non lo aveste compreso sarei giunto alla conclusione di avere ingaggiato la persona sbagliata, Lady Belladonna.»

«Sto uccidendo per voi» disse lei. «Pretendo di saperne il motivo.»

Una sfumatura di rosso tracciò il collo di Giustinian oltre il rigido colletto della giacca di gala. «Voi non avete il diritto di pretendere nulla, ragazza. Ci sono circostanze che vanno al di là della vostra comprensione e altre che non è necessario che sappiate per il vostro stesso bene.»

«Questo vorrei che lo lasciaste giudicare a me.»

Giustinian bevve un sorso di vino con un gesto rabbioso. A onor del vero non si mostrò così schizzinoso da fare una smorfia davanti a quell’infimo intruglio proveniente da chissà quale magazzino.

«È fuori discussione. Abbiamo fatto un patto del quale è evidente che io debba ricordarvi le condizioni: la vostra persona e le vostre competenze sono a mia disposizione per un anno al termine del quale avrete di nuovo accesso alle sostanze di Charlotte e un salvacondotto per lasciare la Repubblica di Venezia, cosa che vi è impossibile senza il mio consenso.»

«Allora rifiuto e sciolgo il contratto» replicò lei calma. «Mia madre è scomparsa e, non so come, voi siete riuscito a requisire i suoi beni ma per quanto mi riguarda potete tenervi tutto. Non intendo essere trattata come una marionetta.»

Le rispose uno sguardo di un gelo tranquillo, calcolato. «So per certo che i vostri committenti apprezzano in particolar modo il fatto che voi accettiate il lavoro senza fare domande.»

Cordelia sorrise. Ormai sapeva di averlo in pugno. «Per voi farò un’eccezione in nome dei nostri rapporti di vecchia data.» Sollevò il bicchiere in un brindisi silenzioso e lo vuotò. Si alzò e gli fece un inchino per accomiatarsi.

«Sedetevi, ragazza.»

«Datemi un motivo per farlo.»

«Si fanno chiamare la Compagnia delle Larve» rispose Giustinian dopo un lungo silenzio, quando lei pensava che non avrebbe più parlato. «Sono nemici della Repubblica da prima della vostra nascita. È giunto il momento di fare in modo che non possano più essere una minaccia.»

«Continuate.»

«Un servo e una servetta, un soldato, un faccendiere, un dottore», ogni parola sembrava costare a Giustinian uno sforzo sovrumano, la sua voce trasudava disgusto. «Ognuno aveva il ruolo di assistere e aiutare il capo dell’organizzazione.»

«Di chi si tratta?»

«Che cosa fareste se ve lo dicessi?»

«Andrei a cercarlo e lo ucciderei. Mi pare inutile girare intorno al problema.»

Giustinian annuì. «La risposta che mi aspettavo, ma non è il modo corretto di procedere. Le teste dell’Idra vanno eliminate una per volta in via definitiva, per non rischiare che si rigenerino.»

«Non vi comprendo.»

Lo sguardo dell’uomo incrociò il suo. «Ogni volta che vi troverete davanti una Larva non trascurate mai di distruggere il cuore. Quella gente ha raggiunto un compromesso con la morte.»

«Questo vale anche per gli altri cadaveri che camminano per Venezia, suppongo.»

«Nel loro caso, agite per misericordia. Sono solo vittime.»

«Voglio quel nome.»

L’uomo mise da parte il vino e la guardò. «Dopo ciò che ci siamo detti ancora non comprendete la gravità della situazione. Bisogna isolarlo, privarlo dei suoi seguaci prima di sperare di ucciderlo, altrimenti la storia sarà sempre destinata a ripetersi. Usano i rapimenti per finanziare le loro malefatte, torturano povera gente che ha avuto la sola sfortuna di incrociare la loro strada, profanano tombe.»

Per la prima volta, Cordelia sentì la sincerità nelle parole di suo padre.

«Ingaggiare la mia stessa figlia non sarebbe stata neppure un’opzione se non fosse stata l’unica. In realtà il compito sarebbe dovuto ricadere su entrambe ma, come avete potuto vedere, Cassandra riesce a malapena a restare in vita e non posso pretendere altro da lei. Voi siete addestrata e avete il potere di ucciderlo per ragioni che ancora non potete comprendere.»

«Dopotutto, quando sono utile ai vostri fini sembrate avermi a cuore.» Cordelia non avrebbe voluto esprimersi in quei termini. Le parole le uscirono dalle labbra prima che potesse controllarle.

Il volto di Enrico Giustinian perse ogni espressione, soltanto gli occhi scintillavano, ma questa volta Cordelia non riuscì a interpretarli. «Voi mi rimproverate l’abbandono e con la presunzione dei giovani credete di avere la verità in mano. Sapete che vostra madre è sparita nel nulla portandovi con sé quando eravate appena in fasce? Se Cassandra fosse stata in grado di viaggiare avrebbe rapito anche lei. Credete che io abbia avuto una possibilità di tenervi con me?»

«Raramente abbiamo parlato di voi» rispose lei, secca. «Non so neppure se avrò la possibilità di chiederglielo.»

«Vostra madre e io abbiamo preso le nostre decisioni in merito alle nostre figlie in seguito a circostanze così gravi che non potete permettervi di giudicarle.»

Cordelia tacque, lottando per controllare la rabbia. «Non è sufficiente» disse. «Ho visto i simboli intorno alla mano di Morosini e intorno alla gamba di Donà, voglio sapere che cosa significano.»

Lo guardò, vide che era impallidito. La sua espressione le suggerì con chiarezza che nonostante si fosse aspettato quella domanda non era ancora pronto a rispondere.

«Voglio sapere perché ne ho uno identico addosso.»

A quelle parole seguì un silenzio talmente profondo che si riuscì a sentire il cuoco che rimproverava un garzone con la medesima nitidezza che se fosse stato nella loro stessa stanza.

«Devo andare adesso» disse Giustinian. Il gesto brusco con cui si alzò fece vacillare la sedia, che cadde di lato. Entrambi non diedero segno di accorgersene.

«Non ve ne andrete in questo modo senza fornirmi delle risposte» proferì lei in un sibilo. «Dovete dirmi con esattezza chi stiamo cercando.»

Giustinian fece un gesto esasperato. «Come desiderate. Tanto che differenza può fare? Se non sono riuscito a trovarlo io non vedo come possiate riuscirci voi. Von Heimmel. Il suo nome è Artemius Von Heimmel.»

Fece per accomiatarsi ma lei lo fissò. «Non abbiamo finito. Quel segno nero simile a un ricamo. Voglio sapere che cos’è e che cosa significa.»

«Questo colloquio finisce qui» disse lui, girandole intorno per raggiungere la porta.

«Dovessi costringervi con la forza, avrò delle risposte e se conoscete mia madre potete immaginare che cosa mi ha insegnato» disse lei, calma.

L’altro annuì, un gesto breve e secco. «So per certo che Charlotte è stata un’ottima maestra. Se volete rivederla viva, farete ciò che vi ordino di fare e smettetela con le domande.»

Cordelia si accorse di essersi aggrappata al bordo del tavolo quando sentì le ginocchia piegarsi e le braccia reggere tutto il suo peso. Le aveva concesso una piccola, calcolata vittoria nascondendo la carta più alta. «Come avete detto? Mia madre è ancora viva?» disse, rauca.

«Avete udito bene: sapevo che sarebbe giunto il momento della vostra ribellione e ho preso le mie precauzioni. Non ho in ostaggio solo il vostro patrimonio ma anche vostra madre.»

«Mi avete lasciato nel dubbio che fosse morta. Vi ucciderò per questo» esclamò con voce strozzata.

Guardò l’uomo con gli occhi sgranati e pieni di odio e quello, per tutta risposta, sorrise e fu un sorriso stanco, senza traccia di soddisfazione, quasi affettuoso.

«Sono un passo davanti a voi, Cordelia. Devo esserlo perché altrimenti voi sareste già lontana e Venezia perduta. Adesso devo recarmi dal Doge. Attendete mie istruzioni.»