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I SOGNI DI UNA MORTA

Il Carnevale della Sensa aveva riportato in città anche Antonio Orsini, ospite del suo buon amico e studente del Teatro Anatomico Francesco Ricciardi. Cordelia e James – ancora nei panni dello studente napoletano Carlo Caracciolo – li incontrarono al Florian una sera di metà maggio e anche questa volta lei era a volto coperto: una mezza maschera in seta malva ricamata d’argento come lo splendido abito che indossava.

«La mia curiosità finirà per uccidermi, Madame» disse Orsini. «Sogno il vostro volto ogni notte e non posso mai avere conferma di essere un veggente.»

Un coro di risate seguì quella battuta mentre camerieri in livrea servivano bricchi di caffè e cioccolata e vassoi di dolci. Sul palco l’orchestra suonava e fuori dalle vetrate le Procuratie erano affollate di maschere.

«Sapete cosa desidero» rispose Cordelia. «Fatemi vivere la mia piccola storia di fantasmi e otterrete la vostra ricompensa.»

Il cappuccio rigido della stessa tonalità del vestito le incorniciava il volto in una nuvola di merletti, lo abbassò sulle spalle e lasciò che un valletto l’aiutasse a togliere il mantello, poi incrociò le dita sulla preziosa tovaglia ricamata.

Promettere – e anche mantenere – ciò che il suo sorriso suggeriva a Orsini un tempo sarebbe stato più facile. Adesso a fatica riuscì a impedire che l’immagine di Cassian si sovrapponesse a quella del giovane che aveva davanti. Per un istante la vista vacillò poi ci fu solo il sorriso di Antonio Orsini, abbagliante sulla pelle olivastra, e i suoi occhi color caffè che la guardavano con un desiderio misto a vera ammirazione.

«Come promesso, vi condurrò a Sant’Arian e lì sarò ai vostri ordini.»

«Lo saremo tutti» disse Ricciardi. «Le dame veneziane sono le più intrepide, Orsini. Non troverete nulla di lontanamente simile a Roma.»

«Avete notizie del vostro amico?» aggiunse Cordelia, rivolta a Ricciardi. «Il gentiluomo fiorentino, Romualdi, mi sembra di ricordare.»

«Una memoria eccellente, signora.» Il sorriso di Ricciardi era privo di sospetti, solo velato di mestizia. «Ernesto Romualdi per coincidenza trascorrerà la notte a Venezia. È di passaggio dalla Francia per recarsi a Padova.» Il giovane sollevò una tazza all’indirizzo di Orsini. «Sembra che i suoi genitori ritengano il grande Morgagni l’unico in grado di occuparsi di lui.»

Lo studente di Padova accettò il complimento rivolto al suo maestro con un cenno del capo, Cordelia e James si scambiarono uno sguardo da dietro il ventaglio di lei: era necessario scambiare due parole con Ernesto Romualdi e probabilmente non avrebbero avuto un’altra occasione.

I Romualdi avevano alloggiato il figlio alla locanda all’insegna del Leon Bianco, in Contrada Santissimi Apostoli, prospiciente il Canal Grande, proprio sopra il traghetto.

La locanda era una delle più rinomate, con il Carnevale della Sensa talmente affollata che non sarebbe stato difficile introdurvisi. James si fece largo quasi a spallate, sventolando sotto il naso di un servo abbastanza monete per convincerlo a trovare loro un tavolo per una cena di mezzanotte. Il traghetto per Padova partiva dalla Riva dall’Olio ogni mattina e ogni sera, quindi avevano poche ore prima che Romualdi abbandonasse la città.

Cordelia spedì uno dei suoi tirapiedi in Calle della Regina perché le portasse un semplice domino nero e la maschera montata sul bastone d’avorio. Indossò il mantello in gondola, nel tragitto verso Santissimi Apostoli e, giunta sul posto, si fece accompagnare al tavolo dove il signor Caracciolo l’attendeva per la loro cena.

«È al secondo piano» le disse James non appena il cameriere si fu allontanato. «Ben sorvegliato, alla porta ci sono due uomini robusti. Forse temono che qualcuno gli faccia del male.»

«O che possa scappare» replicò lei. «Se non torno entro mezz’ora vieni a cercarmi.»

Ai piedi delle scale si mescolò a una comitiva di milanesi che saliva ai piani superiori. Giunta al secondo, si inoltrò in un corridoio dove una lanterna illuminava tre porte, quella al centro aveva un uomo per ciascun battente. Camminò come se non avesse alcuna fretta e quando giunse in prossimità degli uomini staccò la maschera dal volto giusto il tempo per lasciar balenare un sorriso dolce.

Il secondo dei due uomini, il più giovane, rispose al sorriso e quando lei, passandogli davanti, lasciò cadere sul pavimento un fazzoletto, si chinò per raccoglierlo con un gesto galante, che gli costò una gomitata alla base del cranio, abbastanza forte da spedirlo all’istante nel mondo dei sogni. Il suo compagno non fu lesto a impugnare il coltello quanto Cordelia a colpirlo sotto il mento con l’estremità del bastone della maschera. Il secondo colpo lo raggiunse alla tempia mandandolo a fare compagnia al suo compare sul pavimento.

Siccome era quantomeno imprudente lasciare due uomini svenuti nel corridoio, Cordelia bussò all’uscio attiguo e dal momento che non rispose nessuno, si sentì autorizzata a togliere dai capelli due spilloni che si rivelarono efficienti grimaldelli. Aprì la porta e trascinò dentro i corpi, sbuffando per la fatica e i tacchi alti. Li rovesciò sullo stomaco e legò loro i polsi dietro la schiena con una fune di seta, poi uscì e chiuse la porta a chiave.

Per fortuna la maniglia della stanza di Romualdi si abbassò con facilità, segno che il ragazzo non era prigioniero ma solo ben protetto. All’intero l’accolse un chiarore fioco e un profondo silenzio. Nel cerchio di luce di una candela, un giovane biondo era chino su un libro, la cena intatta su un vassoio. Sembrava appena adolescente o forse l’impressione era accentuata dall’aspetto magro, quasi emaciato. La pelle era diafana, bianca come il latte, profonde occhiaie gli scavavano il viso, quando sollevò una mano per schermare la candela e guardare chi fosse entrato, lei scorse tagli appena rimarginati al polso.

Era uno studente di medicina, pensò. Sapeva come farlo e ci aveva provato sul serio.

«Signor Romualdi, non voglio farvi del male» disse con la sua voce più gentile. «Soltanto parlavi per un momento.»

Abbassò la maschera ma badò a restare nella penombra.

«Chi siete?» Il tono con cui le parlò era mite, l’espressione trasognata. «Siete troppo bella per volermi nuocere e, in caso contrario, tanto da renderlo comunque gradevole.»

«Alcuni vostri amici mi hanno riferito che durante il Carnevale avete incontrato una donna. Vorreste parlarmene, se per voi non è troppo doloroso ricordare?»

«I miei ricordi» rispose Romualdi, l’espressione afflitta, sfiorando il libriccino che lo aveva sorpreso a leggere. «Tentano di sottrarmeli con Teriaca e sciroppo di papavero, ma io scrivo ogni cosa, per non dimenticarla. La incontrai al palazzo del principe Concini, lo conoscete?» disse lui.

Cordelia annuì, fissandolo con un misto di simpatia e compassione: la Teriaca era un medicamento la cui formula veneziana era preziosa e rinomata fino in Cina. Tanta era l’importanza economica di quel prodotto che veniva preparato in pubblico, con la sovrintendenza dei Maestri dell’Arte degli Spezieri e al cospetto di funzionari di giustizia.

Tempo prima Cordelia aveva accettato una lauta commessa per rubare la formula e si era appropriata di quella delle spezierie più famose: La Testa d’Oro di Rialto e lo Struzzo a Ponte dei Bareteri. Confrontando le composizioni aveva potuto constatare che gli ingredienti comprendevano oppio e altre erbe sedative. Insieme allo sciroppo di papavero c’era di che indurre alla stupidità anche la mente più forte, e quella di Ernesto Romualdi non lo era.

«Concini aveva donato questo palazzo a una cortigiana, un luogo favoloso dove durante una festa in maschera incontrai questa donna bellissima.»

Proseguendo, il suo racconto ricalcava quanto già narrato dal suo amico e compagno di studi, Ricciardi: una fanciulla splendida con una mezza maschera sul volto e tratti che al giovane sembravano familiari. Gli pareva di averla già vista in un sogno, spiegò – i lunghi capelli biondi, il riflesso verde degli occhi, quella bocca deliziosa – e aveva implorato di poterle fare da cavaliere. Ubriaco e felice, aveva danzato con lei fino al mattino e la sera successiva era tornato per incontrarla ancora. Il Carnevale volgeva al termine, la donna era sempre mascherata e solo quando il buio più profondo accoglieva i loro abbracci accettava di restare a volto nudo. Una notte però, nel loro vagare sotto le stelle, erano sbucati d’improvviso in una calle sotto un capitello e sull’icona religiosa bruciava una lucerna a olio. Lei si era riparata il volto con la mano, rifugiandosi nell’oscurità di un sotoportego ma per lui era stato più evidente che mai dove l’aveva già vista: su un tavolo del Teatro Anatomico, mentre si eseguiva un esame autoptico.

«Vedere il cadavere di una fanciulla così giovane e bella avrebbe commosso chiunque non avesse un cuore di pietra, il mio forse ne fu più toccato degli altri, così mi era stato impossibile dimenticarla.»

Il turbamento che gli adombrò il volto, il lampo di vergogna che non riuscì a celare nel distogliere lo sguardo le rivelarono quanto aveva già intuito. Si era innamorato, quel giorno, durante l’autopsia. Era stato il potere dei suoi sentimenti ad attrarre inesorabilmente la creatura morta?

«Lei aveva dei segreti. Era chiaro dall’inizio. Non mi aveva rivelato il suo nome, né la sua provenienza ma… è Venezia, era il Carnevale, mi sarebbe parso strano il contrario. Arrivai a pensare che fosse una burla dei miei compagni di studi: forse, accortisi del mio turbamento, avevano scovato una donna molto rassomigliante a quella morta che mi aveva tanto colpito. Mi dicevo che era impossibile, non poteva essere davvero lei.»

S’interruppe, prese un lungo respiro e le sue guance si scaldarono per una vampata di rossore che gli trasfigurò il volto, facendolo sembrare vivo e giovane per la prima volta da quando lei era entrata. Gli occhi erano pieni di stelle, Cordelia non avrebbe saputo definirli in altro modo. «Poi la notte di Giovedì Grasso preparai per noi un luogo dove poter rimanere davvero soli. Il mio buon amico Vendramin mi diede le chiavi di un grazioso quartiere che aveva alla Giudecca, immerso nei giardini.»

Il pudore gli smorzò la voce, il ricordo gli ruppe il fiato. Cordelia fissò la candela, incapace di spiare nel suo sguardo un ricordo così intimo.

«A notte fonda mi risvegliai provando un sentimento di fatalità» continuò lui. «Accesi le candele e guardai la donna che dormiva al mio fianco.»

Tacque e allora Cordelia lo guardò negli occhi che, questa volta, non recavano traccia di pentimento. «Io l’amo, signora. Se avete un’anima gentile sapete di cosa parlo. L’ho amata dal primo istante in cui ho posato gli occhi su di lei mentre era alla mia mercé, su un tavolo del Teatro Anatomico. Quella notte vidi i medesimi tagli che le mie mani colpevoli avevano praticato sul suo corpo. Per l’amor del Cielo… io stesso avevo estratto il suo cuore dal petto per poterlo studiare!»

Cordelia trasalì. «Però quando voi l’avete conosciuta era viva.»

«Forse no.» Il tono di Romualdi si era fatto asciutto, pragmatico. «Sono un medico, Madame, e la mia signora per tutto il tempo che l’ho avuta a fianco non ha mai avuto bisogno di mangiare, né di bere, né di riposare. Una volta, correndo in una gara amorosa urtò con un gomito il basamento di marmo di una statua: la sua pelle rimase immacolata, nemmeno la traccia di un livido. I miei occhi potevano essere ciechi ma la mia scienza ci vedeva benissimo. Sapevo che non era umana, penso di aver sempre saputo chi fosse, anche se ciò andava contro ogni logica.» Fece una pausa. «I miei amici pensano che io sia pazzo o che qualcuno mi abbia giocato un tiro crudele rendendomi tale. Soltanto io ho capito di avere vissuto un’esperienza proibita a tutti.»

«Capisco.»

«La rivoglio con me. Non mi importa come e non mi importa cosa sia, riuscirò a fuggire e la ritroverò. So dove cercarla» aggiunse poi, quasi tra sé.

Colta da un’improvvisa intuizione Cordelia disse: «Sant’Arian».

«L’ossario della laguna.» Ernesto Romualdi annuì. «Dove noi studenti ci rechiamo a volte per raccogliere ossa umane e studiarle.»

Lei si avvicinò e raccolse da terra il piccolo libro rilegato in pelle che era scivolato al suolo. Un’occhiata alle pagine, fitte di frasi e disegni, fu sufficiente a irrigidirle le spalle.

Le parole di Ernesto Romualdi descrivevano conventi in rovina infestati dagli spiriti e serre dove le rose si intrecciavano alle ossa, mura che cingevano una notte perenne e albe senza sole su giardini selvaggi irti di croci, perduti in mezzo al mare. In un disegno particolarmente ben fatto, un tralcio di rose selvagge si intrecciava alle costole di uno scheletro, ma era l’immagine successiva ad averla colpita come un pugno allo stomaco: una donna dalla fisionomia appena accennata e una lunga veste da notte aperta sul petto e lunghe tracce nere simili a merletto intorno ai seni delicati e lungo i fianchi.

Con un brivido involontario Cordelia si toccò il torace sotto il braccio sinistro, poi appoggiò il volumetto sul tavolo, con una calma che non provava.

«Aveva sul corpo cuciture chirurgiche simili a quella che avete disegnato?»

«Sì, Madame. Molto diverse da quelle che pratichiamo alla Schola Medica. Queste sono simili a un ricamo, non trovate? Qualcuno deve aver rimosso quelle che le avevamo praticato post mortem e le ha sostituite con queste.»

Cordelia stava ancora riflettendo sulla questione quando, poche ore dopo, la campana di San Marco rivolse il suo saluto al nuovo giorno. Passeggiava al braccio di James all’Erberia, sfogliando con piglio distratto alcuni dispacci dei loro informatori.

«Siamo diventati come i veneziani» disse a un certo punto, porgendo a James una lettera cifrata che era arrivata da Lione col postale che regolarmente giungeva a Venezia il martedì e il mercoledì. «Abbiamo assunto in breve il vizio dell’Erberia.»

«È un ottimo luogo di scambio, Milady, ma continuo a preferire il tè al caffè e mi considero sempre un buon suddito di Re Giorgio II.»

James fece correre lo sguardo sul traffico di imbarcazioni che scaricavano merce fresca proveniente dalla terraferma. I facchini trasportavano casse di frutta e verdura quali a Londra non se ne sarebbero mai vedute in quel periodo dell’anno. «Tuttavia mi manca il dialetto dei marinai dei docks» disse il giovane.

«Quando arriva il portalettere da Vienna?»

«Sabato mattina, Milady.»

Le comitive del bel mondo si recavano verso i caffè per raccogliere le forze necessarie a tornare a casa, si mescolavano a manovali e artigiani che, invece, prima di iniziare il lavoro si infilavano in alcune botteghe per una colazione a base di polenta e carne.

Da queste uscì un ragazzetto che si avvicinò a James e, in cambio di una monetina, gli consegnò un foglio ripiegato.

«Milady, come dicevo, l’Erberia è un ottimo posto per gli scambi. Purtroppo le notizie non sono incoraggianti.»

«Che intendi?»

«Artemius Von Heimmel, l’uomo che mi avete incaricato di rintracciare. Sembra una finta pista, Milady. Il mio informatore mi riferisce che se ne sono perse le tracce in seguito a un incidente a Colonia, almeno vent’anni fa. Probabilmente è morto.»

«Scomparso non significa morto» obiettò lei.

«Sembra che fosse già molto anziano.» James strappò il foglio in mille pezzettini e lo infilò in tasca. «Dovrebbe essere immortale per vivere ancora.»

Cordelia si sentì soffocare per la collera: se suo padre l’aveva ingannata ancora una volta, avrebbe aggiunto al suo conto anche quell’oltraggio. Al momento però aveva altro di cui occuparsi.