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LA CAMERA DEL TORMENTO

La condussero a Palazzo Ducale in prossimità di un’aurora gelida. Sotto le Procuratie i caffè erano ancora affollati di gente che, in breve, avrebbe compiuto l’ultimo giro all’Erberia prima di tornare a casa. Alle sue spalle gli schiamazzi di Piazza San Marco echeggiavano nel buio livido; da qualche parte un trio d’archi intonava un Alleluia in saluto all’alba. Presto il campanile di San Marco avrebbe battuto il mattutino e le navi alla fonda alla Dogana avrebbero risposto con i loro cannoni.

Le stanze che attraversò erano immerse nell’oscurità e le ombre di un’unica candela si allungavano verso l’alto trasformando le sale ducali in una caverna. Passarono sotto medaglioni e affreschi, cornici d’oro dalle quali l’osservarono angeli privi di misericordia. Neri corvi tutti identici – parrucche bianche, tricorno e mantelli – la precedettero lungo sale che odoravano di polvere, fiori e incenso, simili a cattedrali senza Dio.

Attraversarono una stanza profumata di sangue e di paura. Lì, forse casualmente, la lanterna in mano a un usciere ondeggiò bagnando di luce una lunga corda che si perdeva verso il soffitto dove si intuiva la sagoma di una carrucola. Le parve che le pareti gemessero sommessamente della sofferenza raccolta, poi attraverso una porticina sprofondò verso le viscere del Palazzo al livello delle acque. Trascorse la prima notte in una cella comune che puzzava come una stalla, insieme a ladri e assassini. Al centro del camerone un fuoco fetido bruciava dissipando appena il gelo e l’umidità. Insetti e altre bestie si annidavano negli angoli tra gemiti, proteste e il pianto sommesso di una donna torturata da poco.

Vi trascorse anche la seconda notte, poi la terza, durante la quale si alzò avvicinandosi furtiva ai resti del fuoco nel mezzo della stanza. Raccolse un pezzetto di carbone. A tentoni, nel buio, lo utilizzò per inspessire le sopracciglia e sporcarsi il volto. A nessuno interessava l’igiene di un prigioniero e lei aveva bisogno di mimetizzare i suoi lineamenti per quanto possibile.

Il quarto giorno entrò un secondino che la condusse nella stanza degli interrogatori, che nel codice delle carceri chiamavano “Cantinelle”.

C’era il Cancelliere che avrebbe verbalizzato l’interrogatorio e, inoltre, Cordelia riconobbe Andrea Contarini, esponente dei Signori di Notte al Criminal. C’era anche un Avogador del Comun per conto della Quarantia Criminal – da ciò dedusse che i suoi crimini dovevano essere considerati di speciale gravità per scomodare ben tre magistrature, di cui l’ultima giudicava in prima istanza solo i reati di maggiore allarme sociale o, come recitava il fiorito linguaggio burocratico, tali da turbare anche il Serenissimo Principe.

Il Cancelliere prese minuziosa nota del suo aspetto fisico e del suo abbigliamento, dopodiché il magistrato iniziò l’interrogatorio.

«Vostro nome e cognome, padre, patria, professione e domicilio.»

«Cordelia Sheffield» rispose lei, con voce bassa e nitida. «Di Kensington, Londra, Inghilterra. Umile suddita di Re Giorgio II. Soggiorno nella vostra città da qualche tempo in Calle della Regina, Contrada San Cassan.»

«Inglese?» continuò l’uomo, con pazienza. «L’ambasciatore di Sua Maestà, Joseph Smith, non conosce il vostro nome.»

«Non sono nella posizione di conoscere una persona così illustre.»

Il magistrato la studiò, impassibile.

«Il nome di vostro padre.»

«Henry Sheffield, di Islington, Londra.»

«Sapete perché siete stata condotta sotto la nostra custodia?»

«No.»

«Non lo immaginate?»

«No.»

«Riflettete bene, non voglio porvi la stessa domanda per la terza volta.»

Cordelia spostò lo sguardo sui pannelli di legno scuro alle spalle del magistrato. «Con tutto il rispetto, Eccellenza, possiamo rimanere qui fino a domani ma ignoro il perché io mi trovi in questo luogo.»

Il magistrato sembrò irritato. «Perché siete vestita da uomo?»

«Mi hanno riferito che durante il Carnevale a Venezia è d’uso comune mascherarsi.»

«Che tempi» commentò il Cancelliere in dialetto veneziano. «Gli uomini che si vestono da donne e le donne si veston da gentiluomini.»

Cordelia distolse lo sguardo.

«Nessun altro motivo?»

«Mi è parso che vestendomi da uomo avrei attirato meno attenzioni sgradite.»

Contarini non batté ciglio. «Ricominciamo daccapo, signora. Qual è il vostro nome?»

«Cordelia Sheffield, di Londra.»

«Conoscete la famiglia Giustinian.»

Lei finse di interpretarla come una domanda. «No.»

Lo sguardo del magistrato si fece affilato, il Cancelliere scosse ancora il capo. L’Avogador del Comun da parte sua non sembrava contento, con un cenno chiese la parola e disse: «La notte del vostro arresto era presente anche il signor Cassian D’Armer, promesso sposo della Nobildonna Cassandra Giustinian».

Cordelia si strinse nelle spalle. «Non conosco le persone che mi avete nominato.»

«Eravate in sua compagnia» insisté l’Avvocato.

Cordelia guardò di nuovo il pannello di legno, cancellando con cura ogni espressione dal proprio volto. «Vi ripeto che non conosco queste persone.»

«Il signor D’Armer si trovava insieme a voi.»

«C’erano alcuni gentiluomini» concesse Cordelia, impassibile. «Ma non so dirvi i loro nomi perché era la prima volta che li vedevo.»

«Siete stata vista discorrere con uno di loro. Di cosa?» la incalzò Contarini.

Si riferiva ad Alain de Mortemart, l’unico con cui aveva parlato quando si era accorta dell’arrivo di Messer Grande e del Fante dei Cai. «Chiedevo indicazioni, signore» rispose. «Per tornare a San Marco.»

Contarini gettò un’occhiata al plico di carte che giaceva sul tavolo davanti a lui. Il gesto secco con cui lo richiuse indicava la fine dell’interrogatorio.

Prima di essere riportata ai Pozzi, a Cordelia fu chiesto di confermare le proprie dichiarazioni. Dopo che le ebbero riletto il verbale si prestò docilmente. Non era quello l’interrogatorio di cui aveva paura.

Il quinto giorno qualcuno le portò degli abiti da donna, ordinandole di indossare quei rozzi panni per non offendere la decenza. Lei attese che la notte si aggiungesse all’oscurità della cella comune per ritirarsi in un angolo lontano e cambiarsi gli abiti. Di spalle, sgusciò dai calzoni ormai sudici dopo essersi infilata gli altri abiti, cercando di dare nell’occhio il meno possibile. I Pozzi erano al livello del rio che correva accanto a Palazzo Ducale e al gelo si aggiungeva l’umidità, ma non aveva il diritto di avvicinarsi al fuoco che bruciava al centro dello stanzone perché non aveva corrisposto la sua quota per la legna e le offerte alla chiesa, così tenne le calze e sopra il vestito indossò nuovamente la giacca da uomo.

Anche quella sera mangiò il biscotto e la pessima brodaglia che costituiva il rancio dei carcerati e si distese per dormire cercando di combattere la nausea. Doveva mantenere la lucidità per non rischiare di commettere un passo falso che avrebbe condannato tutti coloro che sperava di proteggere.

Lei sapeva di non avere alcuna probabilità di uscirne viva.

Per calmarsi si sforzò di pensare a Londra ma, nel silenzio della notte, in un momento di tregua dai rumori dei prigionieri, le parve di sentire l’eco di una barcarola cantata con dolcezza da un gondoliere. Il suono prodotto dall’acqua contro la chiglia di una gondola immaginaria le invase la mente, la musica di un violino rispose in lontananza, amplificata dal vuoto nei rii circostanti.

Si addormentò al rumore cadenzato di un remo immaginario.

Sapeva di dover morire. Lo aveva visto nel suo sguardo e sapeva il perché. Era sangue del suo sangue, l’unico portatore dell’antidoto alla sua immortalità. Era terribile avere la certezza di appartenere a qualcuno dal fatto che questi lo avrebbe ucciso.

Non avrebbe mai più rivisto il sole tramontare sulla Città Vecchia né udito i rintocchi di San Vito. Non sarebbe mai tornato a casa.

Stava sognando quando nel cuore della notte la svegliarono e la prelevarono per condurla in una stanzetta fredda e stretta dove l’attendeva un uomo che si stava lavando con cura le mani in un catino di rame. Qualcuno le mise tra le braccia un ruvido indumento di juta in cui lei affondò le dita lottando per arginare la nausea.

Aveva previsto quel momento, questo però non le impedì di provare un moto di nervosismo quando il medico delle prigioni la esaminò per vagliare il suo stato di salute, soffermandosi a tastare le giunture delle braccia.

«State tremando» le disse.

«Vi ringrazio, la stanza è fredda» mentì.

Le parve di scorgere un lampo di compassione nello sguardo dell’uomo. Il saluto educato ma non umile quando era entrata, i modi raffinati, ogni cosa in lei suggeriva un’estrazione altolocata. Nell’esperienza di un medico delle carceri, un prigioniero nobile rinchiuso nei Pozzi e non nei Piombi – le carceri a basso rigore nel sottotetto – era accusato di delitti politici e seguiva una strada obbligata: la tortura e poi la morte.

Il medico le indicò il sacco e poi uscì da una porticina mimetizzata nel muro per consentirle un poco di riservatezza mentre lo indossava. Era un gesto di cortesia, forse l’ultimo che avrebbe avuto. Cordelia si spogliò in fretta, indugiare sarebbe stato inutile.

Attraverso un cunicolo di corridoi e una stretta scala, la scortarono in un’ampia sala sovrastata da una balconata dalla quale pendeva una corda la cui estremità inferiore posava su una piccola piattaforma di legno rialzata di tre gradini. Di fronte, un tavolo lucido e tre sedie dall’alto schienale che davano le spalle alle finestre di Palazzo Ducale.

Come aveva previsto, mancavano ancora diverse ore all’alba. Ciò che doveva accadere richiedeva la notte, sorprendere il prigioniero al minimo della resistenza, ancora confuso e intontito, condurlo dal sonno più profondo alla paura e poi al dolore.

Tre uomini entrarono e presero posto dietro il tavolo, in un angolo defilato sedette il Cancelliere che avrebbe trascritto l’interrogatorio.

«Favorite il vostro nome.» A parlare era ancora Andrea Contarini, Signore della Notte al Criminal.

«Cordelia Sheffield, di Kensington, Londra» rispose lei con voce tranquilla.

Contarini sfogliò alcune carte del plico che aveva portato con sé. Con un moto di panico, Cordelia realizzò che alcune erano delle referte, i rapporti degli informatori degli Inquisitori.

A un cenno di Contarini un assistente l’afferrò per un gomito e la costrinse a salire i tre gradini della stretta piattaforma al centro. La corda le sfiorava le braccia, l’avvertimento era deliberato. Ai margini del campo visivo scorse un movimento dietro una delle grate che si aprivano su porte sbarrate. Erano i prigionieri costretti ad assistere, perché prendessero consapevolezza di ciò che avrebbero subito a breve.

«A quanto abbiamo potuto appurare» riprese Contarini, «una spia inglese di nome Cordelia Backson è stata avvistata in questa città. È il vostro nome?»

«No.»

Il sudore gelido le bagnò la schiena sotto la tela ruvida del sacco. Faticò a controllare l’espressione del proprio volto ma dal modo in cui la stavano guardando seppe che nulla era trapelato della sua lotta interiore. Dal disappunto di Contarini comprese anche che aveva contato su una sua reazione emotiva.

«Ne siete sicura?»

Cordelia gli rivolse una breve occhiata, poi guardò la notte al di fuori delle grate che proteggevano le finestre. «Ho già detto che il mio nome è Sheffield, non conosco alcuna Cordelia Backson.»

«Che cosa state cercando a Venezia?» domandò Contarini. «Chi vi ha ingaggiata?»

«Non capisco di cosa stiate parlando, signore. Sono una forestiera in città per la Fiera della Sensa.»

Non le avrebbero mai creduto e lei si sarebbe limitata a fare ciò che la madre le aveva insegnato: non trascinare con sé nella morte anche i propri contatti. Resistette all’impulso di passarsi una mano sul viso per distribuire meglio lo strato di sporcizia che aveva usato in mancanza di una vera e propria maschera: era solo questione di tempo, bastava che la persona sbagliata la incontrasse per errore in un corridoio mentre la spostavano da una cella all’altra e sua sorella sarebbe stata perduta. Non le avrebbero mai consentito di dormire in pace il suo sonno artificiale col sospetto che la sua gemella fosse una spia inglese.

«La prigioniera è convinta delle sue parole?»

Contarini pronunciò la domanda in un tono distaccato che le parve l’ultimo doveroso avvertimento, poi indicò a uno dei carcerieri di procedere. Il medico era pronto in un angolo della stanza.

Cordelia si concentrò nel contare con scrupolo le singole assi che rivestivano la parete.

Il tempo trascorse. Il carceriere si avvicinò e le legò i polsi dietro la schiena, poi Contarini fece un altro cenno.

Al primo strattone di corda l’urlo che le uscì dalla gola la lasciò senza fiato. Lo sentì echeggiare per tutto il Palazzo mentre le giunture si slogavano producendo uno scricchiolio raccapricciante. Il dolore l’accecò e smarrì la cognizione del tempo e dello spazio.

Quando tornò in sé era in ginocchio, immersa nel sudore gelato e stava tremando irrefrenabilmente, tanto che dovette serrare le mascelle per non rischiare di ferirsi la lingua con i denti. La nausea la rendeva debole e stremata, il sangue le pulsava nelle orecchie e dal respiro breve e rapido sapeva di essere sul punto di perdere i sensi.

«Volete dirci il vostro nome, adesso?» tuonò Contarini dal suo scranno.

«Cordelia Sheffield» disse lei, con un filo di voce.

«Qualcuno vi ha pagato per svolgere operazioni di spionaggio a Venezia?»

«No!»

«Vi hanno pagata per commettere degli omicidi?»

«Voi state sbagliando persona!»

Seguì un lunghissimo silenzio in cui lei rimase con le braccia inerti ancora legate e, quando sentì il rumore della carrucola e le corde tendersi, fu travolta da un’ondata di terrore quasi folle.

Contarini si alzò e la raggiunse, volgendo le spalle al resto della commissione si chinò verso il suo orecchio. «Fatemi solo un cenno e tutto questo finirà. Allontanerò tutti e voi mi racconterete chi vi ha assoldato e delle informazioni che avete raccolto. Se renderete piena confessione, avrete salva la vita. Ho il potere di offrirvi altre prospettive.»

Lei lo guardò, diffidente, cercando di interpretare le sue parole. «Non so che cosa intendiate.»

Il Signore di Notte, senza cercare di nascondere la contrarietà, indietreggiò di un passo e parlò a voce alta, in modo da farsi udire da tutti. «Avete raccolto informazioni per conto di qualcuno?»

«No.»

Il Signore di Notte sembrava calmissimo, ma il battere nervoso dell’indice sul fascicolo le dimostrava che invece era quasi fuori di sé per la collera. «Vi conviene confessare le vostre colpe, oppure morirete.»

Era morta in ogni caso, lo sapevano entrambi. La differenza era tra una morte rapida e compassionevole o la tortura che le avrebbe spremuto fino all’ultima parola e le avrebbe tolto il senno.

«Non ho fatto niente» disse, lottando per tenere la voce ferma.

Al terzo tratto di corda perse i sensi.