Rinvenne al suono confuso di voci che discutevano sopra la sua testa.
«Se continuate, morirà.» Era la voce del medico, alterata dalla collera.
«È colpevole di crimini contro la sicurezza dello Stato, di omicidio e di Dio solo sa che altro» replicò Contarini in tono altrettanto duro. «Non posso permettere che ci sfuggano i suoi complici e non ha ancora confessato!»
«Forse perché non ha nulla da confessare.»
A quella dimostrazione di fiducia e bontà, così immeritate, le lacrime le bagnarono gli occhi. Finse ancora di essere svenuta nel caso si fossero lasciati sfuggire qualche altra informazione importante, ma poco dopo Contarini ordinò di farle riprendere i sensi e rimetterla in piedi.
Una pezza gelata le bagnò il viso, qualcuno le avvicinò alle labbra un bicchiere di acqua e vino. Il carceriere fece per aiutarla ad alzarsi posandole le mani intorno alla vita e avendo il riguardo di non toccarle le braccia. Cordelia rifiutò l’aiuto e si rimise in piedi.
L’orgoglio aveva bruciato le sue ultime energie e il solo peso della corda sui polsi era tale da lasciarla senza fiato per il dolore al benché minimo movimento.
«Parlatemi dei vostri rapporti con la famiglia Giustinian.»
«Non conosco queste persone, ve l’ho già detto» rispose lei.
«Ne siete certa?»
«Ne sono certa.»
«Ditemi allora, in quale occasione avete conosciuto il Nobiluomo Enrico Giustinian?»
Cordelia alzò gli occhi su Contarini senza riuscire a contenere il disprezzo. «Se ho appena detto di non aver mai conosciuto quella famiglia come potete aspettarvi che vi dica quando ho incontrato uno dei suoi componenti?»
Il magistrato la fissò. «Sapete perché siete qui?»
«No, signore, né lo immagino» ribatté lei.
«Siete accusata di spionaggio e dell’omicidio di sua Eccellenza Enrico Giustinian.»
La nausea che l’assalì non aveva nulla del dolore fisico. In quel momento sapeva di avere perduto il padre senza nemmeno avere la possibilità di mostrare dolore; con lui era svanita la sola speranza, per quanto flebile, di uscire di prigione.
Chiunque fosse il loro nemico, era riuscito con un unico colpo da maestro a liberarsi sia di lei sia di Enrico Giustinian.
Le campane di San Marco annunciarono l’alba mentre i carcerieri la riconducevano verso i Pozzi. Questa volta davanti a lei si aprì la porta di una cella contrassegnata con un numero romano rovesciato. Dentro era stretta e vuota, salvo un piccolo giaciglio, ed era rivestita interamente di legno come l’interno di una bara.
Non aveva finestre né spiragli eccetto la minuscola apertura sopra la porta dalla quale le passavano il cibo.
Il medico veniva una volta al giorno per esaminare il suo stato fisico e fino a che non l’avesse dichiarata di nuovo abile non sarebbe stata torturata.
Trascorsero giorni che si confusero l’uno con l’altro in una nebbia di intontimento e di dolore. Anche stare soltanto sdraiata le procurava fitte atroci alle spalle che le rendevano impossibile riposare, il vitto poco nutriente della prigione fece il resto e nel corso di poche settimane sprofondò in uno stato di torpore scandito soltanto dalle visite del medico e dal rumore dei passi dei carcerieri.
Quando la giudicarono in grado di sopportare uno spostamento, la condussero di nuovo lungo i corridoi segreti che collegavano le stanze del Palazzo. Gallerie interne illuminate da candele correvano rasente gli ambienti sontuosi abitati dal Doge e dai senatori. Intorno ai luoghi adorni di meravigliosi affreschi e arredi preziosi, si svolgeva la silenziosa e miserevole vita dei prigionieri. Di notte la musica di Venezia copriva le urla di chi viveva l’incubo della tortura, ai passi dei senatori sui pavimenti di marmo faceva eco lo scricchiolio sui gradini di legno che dai Pozzi e dai Piombi portavano alla Sala del Tormento.
Nel stanza dove la condussero, la luce del giorno le colpì gli occhi, accecandola. Era ormai abituata a un’oscurità perenne, interrotta soltanto dalle candele e da lucerne puzzolenti di olio bruciato, così serrò le palpebre, dietro le quali esplose una miriade di stelle e macchie colorate. La nausea tornò, insieme a un violento mal di testa.
Riaprendo gli occhi, che non cessavano di lacrimare, distinse un pavimento di marmo bianco e nero e un vasto camino con la mensola sorretta da due statue. Un’occhiata al soffitto le rivelò la mano del Tiziano nell’azzurro di un cielo dipinto e nelle ali di un angelo. Un lato della sala era occupato da un tavolo dietro il quale prese posto il Consiglio dei Tre al completo.
Cordelia abbassò il capo lasciando che i capelli sporchi scendessero intorno alle guance e mentre Andrea Contarini recitava la requisitoria che le rinfacciava i suoi crimini, stette bene attenta a non alzare il volto in direzione degli Inquisitori. Sapeva di avere un aspetto miserevole, l’abito dimesso e il fazzoletto in testa completavano l’opera con cui il carboncino, la malnutrizione e la tortura avevano allontanato dal suo volto ogni traccia che potesse ricondurre alla raffinata Nobildonna Cassandra Giustinian, tuttavia non voleva correre alcun rischio. Sapeva anche che si tentava quanto più possibile di mantenere riservata l’identità degli Inquisitori di Stato scelti dal Consiglio dei Dieci, quindi il fatto che si mostrassero a viso aperto poteva significare soltanto la sua condanna a morte.
«Testimoni di sicura fiducia le cui dichiarazioni sono state controllate e messe agli atti» disse Contarini «riferiscono che la sera suddetta la prigioniera si avvicinava al Nobiluomo nostro compianto senatore Enrico Giustinian e lo colpiva con tre coltellate al petto sotto le Procuratie Vecchie.»
«In base a cosa è stata riconosciuta?» domandò qualcuno che lei non vide poiché teneva gli occhi sempre fissi sul pavimento.
«Gli abiti che indossava» rispose il magistrato. «Vestiti da uomo, neri. I crimini contro il segreto dello Stato non sono in discussione» concluse Contarini. «È acclarato che la prigioniera è una spia inglese che ha fatto incetta e commercio di informazioni riservate. La sua abitazione, in Calle della Regina in Contrada San Cassan, è stata perquisita e sono stati rinvenuti e acquisiti svariati carteggi in lingua inglese.»
Proseguì illustrando come gli argomenti della sua corrispondenza privata fossero resoconti politici e minuziose descrizioni di tecniche dei vetrai di Murano e della farmacologia veneziana, nonché piante di Palazzo Ducale con l’indicazione precisa degli appartamenti e delle abitudini del Serenissimo Principe.
Il che, pensò Cordelia, corrispondeva sicuramente a verità: aveva venduto i segreti dell’arte vetraia di Murano che la Repubblica conservava con gelosia, impedendo anche ai suoi artigiani di trasferirsi oltre confine; aveva sottratto le formule di veleni proibiti; aveva mandato ai suoi contatti di Londra, Vienna e Parigi resoconti su Venezia. Tuttavia non sarebbe mai stata così sprovveduta da farlo senza usare un linguaggio cifrato, né aveva mai conservato nulla in Calle della Regina.
Gli Inquisitori di Stato erano una magistratura che si muoveva nell’ombra e si nutriva di delazioni, di sussurri e di mezze parole ma, d’altra parte, verificava con scrupolo le notizie poste alla propria attenzione, così, alla cura che qualcuno si era dato per trovare dei falsi testimoni, si aggiungeva quella per fabbricare le prove.
Fu con sua grande sorpresa quindi che apprese come le fosse stata accordata la facoltà di presentare delle deduzioni difensive.
Ricondotta nella sua cella, si sedette sul giaciglio e per la prima volta da giorni accettò il cibo che le portarono. Avrebbe preferito il torpore dell’inedia ma, a quanto sembrava, non poteva permetterselo ancora. Si sforzò invece di pensare a ciò che sapeva della legge processuale della Serenissima. Secondo la procedura le avrebbero consegnato una copia dell’atto d’accusa perché prendesse visione delle sue imputazioni e ne avrebbero inviata un’altra alla parte lesa: la Repubblica stessa per l’accusa di spionaggio e, per l’omicidio di Enrico Giustinian, la sua legittima erede Cassandra Giustinian.
Era un’esca gettata a sua sorella da qualcuno che forse sapeva più di quanto non avesse lasciato intendere e, se Cassandra avesse fatto qualcosa per aiutarla, avrebbe vanificato ogni suo sforzo. Le restava soltanto una cosa da fare.
Bussò alla porta della cella e poco dopo la grata si aprì mostrando il viso aquilino di un carceriere al quale chiese l’occorrente per scrivere.
«Sento vicina la mia fine» disse. «Voglio scrivere agli amici perché preghino per la mia anima e facciano offerte in suffragio.»
Quel genere di richiesta non restava mai inascoltata, così nel giro di qualche ora ebbe a disposizione quanto le serviva.
Alla luce di un mozzicone di candela guardò il foglio e poi, in alto a destra, scrisse un verso della Bibbia. Il resto impiegò parecchie ore a scriverlo. Era complicato cifrare un messaggio facendo in modo che apparisse come una normale missiva: sapeva benissimo che gli Inquisitori avrebbero messo al vaglio la lettera e avrebbero anche potuto decidere di trattenerla ma, al momento, era la sua unica possibilità. Dopo un’intera notte, stremata, si addormentò sopra i suoi tentativi, la candela ormai consumata. La svegliò un carceriere con una colazione a base di polenta e fagioli. Lo accompagnava un fante dei Signori di Notte, con la notizia che un avvocato si era presentato per chiedere una copia degli atti di incriminazione in modo da scrivere le sue memorie difensive.
Cordelia strinse tra le mani la ciotola calda e in gola le lacrime di commozione. Un grumo di dolore e solitudine si dileguò dalla sua anima lasciandola debole e tremante.
«Sapete chi lo manda?» domandò, cercando di simulare un certo sbalordimento.
Il fante scosse il capo. «No, siora. Il benefattore ha voluto restare anonimo.»
Almeno Cassandra aveva avuto il buon senso di non esporsi in prima persona, pensò Cordelia, tremando quasi per il sollievo, ma si era comportata esattamente come lei aveva previsto. Cordelia sorrise al fante e disse: «Mi dispiace, mandatelo via. Ci deve essere un malinteso. Non conosco nessuno in questa città che potrebbe compiere un gesto simile per me».
Gli altri due la guardarono sbalorditi e lei accennò un piccolo sorriso. «Abbiate però la pietà di consegnare questa lettera al parroco di Santa Maria Formosa.»
La perpetua di Santa Maria Formosa, dietro corresponsione di una lauta mancia, fungeva da fermo posta d’emergenza e se James non aveva ancora abbandonato Venezia, di sicuro andava a controllare con regolarità.
La lettera, tra appassionate richieste di messe in suffragio e di devolvere i suoi pochi averi alla Chiesa in cambio di indulgenze, conteneva un unico messaggio cifrato. Il verso della Bibbia avrebbe guidato James per trasmettergli il suo ultimo ordine.
“Non fate nulla. Fuggite.”
Quando fu di nuovo sola si apprestò a scrivere una seconda lettera, ancora più difficile della prima, così quando giunse l’Avvocato del Popolo – un avvocatino da due soldi incaricato di difendere a spese dello Stato chi non poteva permettersi assistenza legale – la trovò pronta a porgergli la sua piena confessione vergata per iscritto da consegnare nelle mani di Andrea Contarini, Signore di Notte al Criminal.
Due giorni dopo la svegliarono intimandole di alzarsi e di seguire due sbirri che la precedettero lungo un corridoio diverso da quelli che aveva imparato a conoscere. Le fiamme dei candelieri si allungarono lungo un cunicolo che partiva rasente le celle e infine sulle acque buie di un canale dove l’attendeva una gondola con due rematori e due uomini mascherati.
La spinsero a bordo e le legarono le mani dietro la schiena. Quando l’imbarcazione si staccò dalla porta d’acqua l’odore della laguna la investì. Si trovarono come per incanto al largo del Bacino di San Marco e un fiotto di musica si levò nella notte trasportato dal vento.
Vivaldi, l’Estate.
Lei si volse per guardare Venezia allontanarsi alle proprie spalle, le luci di Piazza San Marco, le due colonne che rappresentavano la soglia della città leggendaria adagiata sulle acque. Sotto gli archi di Palazzo Ducale e più in là, oltre lo sprazzo della Piazzetta, le parve di intravedere macchie variopinte: il bel mondo passeggiava in direzione delle Procuratie tra i caffè aperti tutta la notte, gli specchi dell’Arco Celeste e l’elegante orchestra del Florian.
Era terminato il Carnevale della Sensa e presto i patrizi veneziani avrebbero cominciato il loro esodo verso gli ozi delle ville lungo il Brenta. Un’estate che lei non avrebbe mai visto.
La gondola proseguì nella argentea luce della luna che rendeva nitidi i contorni delle isole e limpido il paesaggio. Quando scorse da lontano le luci dell’Isola di Santo Spirito, Cordelia cominciò a piangere in silenzio. Stavano dirigendosi verso il Canale dell’Orfano dove, come tutti i prigionieri scomodi, l’avrebbero soppressa in segreto, lasciandola annegare.
I rematori cessarono le spinte e la gondola si fermò. Nel buio le parve di intravedere una seconda imbarcazione, subito però se ne dimenticò perché uno degli uomini l’afferrò per le spalle.
«Facciamo in fretta» disse, in dialetto. «Non mi è mai piaciuto giustiziare le donne.»
«Sarà già morta quando la butteremo in acqua» disse l’uomo con la maschera spostandosi verso di lei. Aveva un leggero accento straniero.
Lei non fece neppure in tempo a difendersi, qualcosa di brillante e acuminato disegnò un arco sopra la sua testa catturando un barbaglio di luna e un momento dopo sentì una scheggia di ghiaccio penetrarle nel cuore. Il suo grido si perse nella notte mentre la sensazione di gelo si diffondeva lungo le membra, paralizzandola.
«Non respira» disse qualcuno.
«È morta, Dottore?»
«Sì, decisamente. Sbarazzatevi del cadavere e andiamocene.»
Qualcun altro, forse uno dei gondolieri, mormorò una preghiera – Requiescat in pace, amen – con un fervore sommesso che celava la richiesta all’Alto affinché nessun morto tornasse dalla laguna per perseguitare i vivi.
Le diedero una spinta quando ormai la paralisi aveva raggiunto le gambe così non poté lottare né nuotare, vide solo la luna alta in cielo mentre con le spalle rompeva la nera superficie del mare.
Le acque della laguna si chiusero sopra i suoi occhi aperti e cessò di esistere.