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DANZE MACABRE

La messa in scena doveva aver richiesto cura e organizzazione. Non doveva essere stato semplice trasportare gli attori, morti da tempo, di quella rappresentazione raccapricciante.

Manuel Pérez de Guzmán batteva con gentilezza la mano sulla spalla di uno dei rematori dicendo parole in spagnolo. Il ragazzo – appena adolescente – sembrava sull’orlo delle lacrime e tentava disperatamente di non guardare.

«Va tutto bene» disse Manuel. «Torna alla gondola e aspettaci.»

«Piuttosto» disse Alain de Mortemart, «recati al convento delle Benedettine e chiedi carta e carboncini. Le monache ti daranno qualcosa di caldo da bere così potrai riprenderti» aggiunse con gentilezza.

Il giovanetto alzò lo sguardo sugli occhi azzurri dell’uomo, sui suoi lineamenti crudeli e poetici insieme. Una vampa di rossore gli tinse le guance e annuì, la sua contemplazione estatica però ebbe breve durata, infatti Cassian D’Armer gli affidò il gondoliere che poco prima aveva avuto un malessere. «Dici alle monache di prendersene cura» gli ordinò in modo sbrigativo. «Non dire a nessuno ciò che avete visto, né il motivo per cui vi trovate qui.»

«Devi smetterla di concupire i miei gondolieri» aggiunse poi, in francese, avvicinandosi ad Alain. «È difficile trovarne uno bravo che non sparisca o che non metta incinta una delle cameriere.»

«Quello non metterà incinta nessuna cameriera.»

«Appunto.»

«Se avete finito di discutere della servitù potreste venire a dare un’occhiata?» Giacomo Casanova stava esaminando il prato senza traccia dell’orrore impresso sui volti di chi aveva intorno: i suoi occhi azzurri esprimevano soltanto un sincero dispiacere.

Tutti e quattro rimasero in silenzio, percorrendo con passi lenti e pensierosi il perimetro che circoscriveva idealmente la scena.

«La danse macabre» mormorò de Mortemart. «Qualcuno si è dato molta pena per lasciare questo messaggio.»

«Sicché ecco dove sono finiti gli abiti scomparsi dagli appartamenti del Doge» disse Casanova. «Sua Serenità non sarà affatto contento di scoprire a cosa sono serviti.»

Cassian pensò che, quando il Doge Pietro Grimani fosse stato messo a parte dell’accaduto, gli abiti trafugati sarebbero stati la sua ultima preoccupazione: ciò che giaceva sul prato in quel mattino gelido si sarebbe aggiunto agli incubi che popolavano le sue notti.

L’uomo al centro indossava una ricca veste di damasco di seta e la cappa di ermellino del Doge di Venezia. Sul suo capo riposava il corno ducale in oro e pietre preziose, ai piedi ricchi calzari ricamati d’oro. Era morto, la pelle bruna e tirata del volto mostrava la forma del teschio, l’immobilità perfetta non poteva appartenere alla vita. Per precauzione Giacomo, che ultimamente si atteggiava a medico, si chinò per premergli due dita sul collo con un gesto affettato.

«Morto» decretò.

«Vuoi controllare anche loro?» domandò Alain, con garbo.

Due scheletri tenevano per ciascuna mano il cadavere mascherato da doge, disposti in modo da accennare un ballo. L’incubo silenzioso di una festa danzante.

Un terzo scheletro disposto poco distante sembrava osservare la scena, in abiti neri cenciosi e una corona dorata in testa; dalla parte opposta, vegliava un secondo cadavere con indosso una tunica nera in tessuto cerato, un grembiule di cuoio e un cappello a larghe tese; completavano l’abbigliamento guanti robusti e una bacchetta. Sul volto portava una maschera dal lungo becco ricurvo munita di lenti rotonde sugli occhi.

«Mi sembrano abbastanza morti» disse Casanova e poi sgranò gli occhi. «Oh, ma il tuo era sarcasmo.»

Alain sorrise e fece un piccolo inchino.

Un rivolo d’aria gelida piegò l’erba e agitò le vesti nere dello scheletro.

«D’altronde non sono semplicemente morti» aggiunse Giacomo, in tono pensieroso. «Sono morti di Peste Nera.»

La Peste, la Morte Nera, la Grande Morte era il flagello di Venezia. L’ultima ondata, oltre cento anni prima, aveva provocato migliaia di vittime trasformando la Serenissima in un vascello di morti sospeso sulle acque e isolato da un continente impegnato a lottare contro la medesima epidemia.

«Danse macabre» disse Alain, quasi con dolcezza.

Manuel si fece il segno della croce. Nei suoi occhi scuri il riflesso della cupa religiosità spagnola spiegava l’assenza di orrore. «La Morte è madre di noi tutti» mormorò nella sua lingua.

Cassian annuì. Erano ormai abituati a quel curioso miscuglio di francese, spagnolo e veneziano e passavano dall’uno all’altro senza quasi accorgersene.

Non era di buon auspicio vedere l’effigie stessa di Venezia, il suo Serenissimo Principe, danzare con la Morte Nera. Lo sguardo di Cassian si spostò sul secondo cadavere e lo fissò, al suo fianco uno dei gondolieri emise un sospiro nervoso. La maschera con quella specie di becco, gli occhiali e la bacchetta: ognuno avrebbe riconosciuto il Medico della Peste nella sua veste tradizionale. Anche durante il Carnevale, strappava sempre più di uno sguardo inquieto. Il timore atavico era troppo radicato nei veneziani.

Cassian si chinò per spostare con delicatezza la maschera, facendo cadere frammenti di erbe e una piccola spugna, che sprigionarono un odore di aceto, canfora e lavanda. L’interno cavo del lungo naso andava riempito di sostanze che contrastassero i miasmi della malattia e filtrassero l’aria per proteggere il medico dal contagio. Chi aveva inscenato quel quadro raccapricciante era stato attento anche ai dettagli.

Il gondoliere si mosse a disagio: Cassian non aveva bisogno di guardarlo per sapere che aveva uno sguardo atterrito.

«Non è contagioso» disse. «Sono soltanto morti.»

Al momento di dirlo si accorse di non esserne del tutto certo e una goccia di sudore gelido gli bagnò la nuca. Col bastone scostò il colletto del cadavere vestito da Doge e controllò la pelle, che era vecchia e tirata ma non recava traccia delle piaghe tipiche della peste.

Casanova stava girando intorno al sito, frugando l’erba con il bastone da passeggio. Il suo fischiettare gaio e sommesso creava un contrappunto bizzarro con i volti tesi dei gondolieri e la gelida fissità dei morti disposti sul prato. Una raffica salmastra piegò le cime degli alberi e agitò gli abiti dei cadaveri così a lungo che a Cassian parve che la mano del Doge si fosse spostata. Poi il vento cessò e con esso l’illusione di movimento.

«Allons-y» esclamò Alain, facendo un cenno impaziente al giovane gondoliere che poco prima aveva spedito a procurarsi l’occorrente per scrivere.

Il ragazzino sembrava non attendere altro: lo sguardo estatico e i piedi leggeri, corse verso di lui e gli porse dei fogli e due carboncini.

«Mi sembra chiaro, signori, che dobbiamo considerarla una minaccia» disse Manuel. «Possiamo tornare a Venezia e fare il nostro rapporto al signor Bragadin?»

«Non.» Alain si piegò sulle ginocchia, l’espressione concentrata. «Ne avrò ancora per un po’.»

Manuel si strinse nelle spalle. «Faccio arrivare la colazione, allora» disse, senza scomporsi, richiamando uno dei suoi Mori.

«Ti sei portato dietro un cameriere?» domandò Cassian.

«Quattro» rispose Manuel, con naturalezza. «Mi seguono sempre. Potrei aver bisogno di loro ovunque.» Come a conferma delle sue parole, un altro moro in livrea e turbante sbucò da dietro un cespuglio con un enorme vassoio d’argento che scintillava sotto il sole pallido.

Poco dopo stavano sorbendo caffè e cioccolata da porcellane tedesche mentre uno de Mori, Mousqueton, attendeva paziente con un piatto di pasticcini. Alain de Mortemart sedeva su uno sgabello con una tavola di legno sulle gambe e disegnava. Al suo fianco, Grimaud, un altro dei Mori, attendeva con una tazza di caffè da cui il francese di tanto in tanto sorbiva un sorso.

Era ormai giorno inoltrato quando terminarono e già erano giunti da Venezia anonimi tirapiedi inviati da Matteo Bragadin che si sarebbero occupati di ripulire la scena e portare i reperti umani al Teatro Anatomico, dove sarebbero stati esaminati con grande discrezione da professori vincolati al silenzio.

«Solo un momento» disse de Mortemart. Si infilò l’indice tra le labbra e rifinì con il polpastrello umido un’ombreggiatura. I fogli si accumulavano ai suoi piedi da dove il terzo dei Mori, Bazin, si affrettò a raccoglierli e ad arrotolarli con destrezza.

Infine Alain si alzò e volse le spalle al ballo silenzioso dei morti; in questo modo non si accorse che una raffica di vento, piegando l’erba, scompigliava la veste cenciosa dello scheletro e l’ermellino che bordava le maniche del cadavere coi paramenti da Doge. La cappa scarlatta si mosse, la pelliccia setosa scivolò su un braccio scarno scoprendo mani piegate ad artiglio in guanti di velluto rosso.

Qualcuno gridò – forse uno dei gondolieri – e Manuel imprecò in spagnolo, ma era troppo lontano per intervenire.

Alain si sentì sfiorare le spalle, poi una detonazione ruppe l’aria. Nei campi, i contadini ignari alzarono il volto verso il cielo cercando di capire da dove provenisse il rumore dello sparo.

Cassian sostenne lo sguardo di Alain e poi, lentamente, abbassò la pistola. Entrambi guardarono verso il prato dove il Doge morto era accasciato bocconi, il cuore trapassato dal proiettile e la corona dogale rovesciata accanto; la mano destra era ancora protesa per ghermire o forse per chiedere aiuto.

Giacomo Casanova corse, trafelato, appena in tempo per colpire col pomolo del bastone da passeggio il Medico della Peste che stava alzandosi da terra. Cassian sparò una seconda volta, da distanza ravvicinata, sfondandogli il torace.

Giacomo lo guardò, stupefatto. «A quanto pare erano molto meno morti di quanto sembrassero.»

All’approdo delle gondole, Cassian annunciò che sarebbe rientrato a Venezia da solo. Alain e Manuel si scambiarono uno sguardo e poi quest’ultimo rispose: «Vengo con te. Gli altri possono tornare con le mie imbarcazioni e quelle mandate da Bragadin».

Cassian si irrigidì. «Preferisco restare da solo.»

«So dove stai andando, amico.» La mano di Manuel si posò, calda e pesante, sopra la sua spalla. «Resterò a distanza.»

Ciò che Manuel non disse fu che l’ultima volta aveva rischiato di affogare. Al freddo, ubriaco di cognac e di disperazione, si era inoltrato nella desolazione della Laguna Nord dove le terre emerse formavano piatte distese abbandonate in balia delle maree. Si era immerso alla ricerca di un’illusione e si erano dovuti tuffare in tre per convincerlo a non cercare di raggiungere il fondo del mare.

I suoi viaggi notturni non erano un mistero, gli amici temevano di non vederlo tornare e che un giorno le barene restituissero le sue ossa insieme alle monete antiche e ai tasselli di mosaici di città inabissate da secoli.

Mentre la campana delle Benedettine echeggiava sopra le acque, i rematori dei D’Armer fermarono la gondola nel tratto finale di una cupa, frequente processione. Con tatto, Manuel finse di assopirsi sotto il felze col il tricorno sulla faccia, invece di nascosto osservò Cassian togliersi la giacca e piegarla meticolosamente su una delle panche a prua, poi gli stivali e le calze e infine la camicia, rimanendo in calzoni neri da sera nel freddo intollerabile dell’aria di ottobre.

Quando si tuffò squarciò l’acqua simile a una lama, senza neppure sollevare spruzzi. I gondolieri non si mossero, nonostante dal loro aspetto teso sembrassero pronti a seguire il padrone nel caso lo avessero visto in difficoltà. Manuel si irrigidì e rinunciò a simulare il sonno, spostandosi verso la sponda dell’imbarcazione. Al suo fianco Mousqueton gli versò una tazza di caffè che, Dio solo sapeva come, era riuscito a mantenere in caldo.

Manuel borbottò qualcosa in spagnolo sul bordo della tazza e sorbì qualche sorso svogliato. Passò un minuto, poi un altro. Strinse tra le dita l’orologio da taschino in oro massiccio e infine spinse la tazza nelle mani di Mousqueton. Il caffè dolce gli schizzò gli abiti mentre iniziava a togliersi la giacca. Aveva passato al moro anche il panciotto quando vide la testa bruna di Cassian infrangere la barriera delle acque.

I muscoli sulle braccia si contrassero mentre risaliva a bordo, il sole disegnò chiazze di luce sui capelli neri appiccicati alle spalle e sulla peluria sparsa sul petto abbronzato.

«Avrai una polmonite entro stasera» gridò Manuel gettandogli addosso la propria giacca. Mousqueton corresse il caffè con una generosa dose di cognac e gli porse la tazza fumante.

«El Cid» commentò Cassian. «Tu e i tuoi servi onnipresenti.»

Si lasciò però convincere a bere il caffè e in breve il colore tornò sopra le sue guance ombreggiate dalla barba di un giorno.

«Lei avrebbe saputo che cosa pensare» disse, dopo un lungo silenzio, la voce rauca per qualcosa che non aveva nulla a che fare con il freddo. «Enrico Giustinian era arrivato vicino alla verità e le uniche a conoscere le informazioni di cui era al corrente erano le sue figlie.»

«Cassandra non sapeva tutto» disse Manuel. «Per quanto riguarda Cordelia…» Abbassò la voce pronunciandone il nome con cautela, come se stesse maneggiando un’arma, e pure la smorfia sul volto dell’amico gli rivelò che non c’era modo di addolcirne il pensiero. «Non abbiamo modo di sapere che cosa avesse scoperto» terminò.

«Abbastanza perché qualcuno decidesse che doveva morire come suo padre» rispose Cassian. «È come se l’avessi consegnata io stesso al Fante dei Cai. Era troppo brava, non sarebbero riusciti a catturarla senza l’impiego di tutte le forze della Repubblica. Invece, per colpa mia, quella notte l’hanno colta di sorpresa.»

Manuel sospirò. «Non puoi addossarti questa responsabilità. Neppure sapevi chi fosse.»

Cassian fissò le creste di schiuma sospinte dal vento. «In fondo credo di averlo sempre saputo» mormorò.

Per qualche momento regnò il silenzio, poi Manuel soggiunse: «Ho fatto portare alcune colonne dalla Grecia. Potremmo portarle qui e inabissarle per abbellire il fondo del mare. Nelle notti di chiaro la vista sarà ancora più bella».

Un sorriso leggero e triste piegò le labbra dell’altro. «Hai già fatto tanto.»

«Sembra alleviare la tua pena» rispose Manuel. «E io farei qualsiasi cosa per aiutarti. Anche Jimena è preoccupata per te, ha paura che a forza di bere, di duelli e gioco d’azzardo finirai per farti ammazzare o bandire da Venezia. È molto angosciata e sai che nulla al mondo deve angosciare Jimena, neppure tu.»

«Mi presenterò questa sera con dei fiori per dimostrarle che godo di ottima salute.»

«Torniamo in città» disse Manuel. «Hai bisogno di un bagno caldo e di abiti asciutti.»

«Ho bisogno di parlare con Matteo Bragadin.» Cassian sollevò lo sguardo e fissò l’amico. «È arrivato il momento di raccontargli la verità.»

«Ne sei certo?»

«I segreti dei Giustinian giacciono in fondo a questa laguna senza che nessuno possa raggiungerli» rispose Cassian. «È arrivato il momento di mettere fine a questa storia. Forse non avrò un’altra possibilità e non riesco più ad andare avanti così.»

Guardò gli abissi con un desiderio profondo nello sguardo, rivoli di acqua salmastra gli correvano sulle guance e lo struggimento sul suo volto era indescrivibile. Protese una mano e accarezzò il mare con tenerezza, la luce spietata del giorno rendeva la superficie opaca e i fondali lontani. Non era una di quelle notti limpide in cui le correnti si accordavano in stato di grazia per trasformare le acque in cristallo e mostrare sul fondo una città sommersa. Non era possibile scorgere frammenti di palazzi o giardini fluttuanti e statue rovesciate, e nemmeno, legata a catene d’oro, la bara dove una fanciulla riposava nel sonno o forse – ormai – nella morte.