AGLI AUTORI DELLE RIVISTE MENSILI
DI CRITICA LETTERARIA
Signori,
La libertà che mi prendo nell’inviarVi l’insignificante prodotto di qualche ora d’ozio susciterà indubbiamente la Vostra meraviglia e, probabilmente, il Vostro disprezzo. Non voglio, però, con la futilità delle mie giustificazioni, rubarVi del tempo ma ammettere concisamente le ragioni della mia temerarietà, per timore che, attraverso un prematuro esercizio della pazienza che spero mi avvantaggerà, debba far diminuire la sua benevolenza e provocare io stesso la mia censura.
Senza un nome, senza raccomandazioni e ignoto sia al successo che al fallimento, a chi posso opportunamente rivolgermi per avere protezione se non a coloro che dichiarano pubblicamente di sovrintendere a tutte le attività letterarie?
La vastità delle Vostre osservazioni critiche che, non limitate alle opere utili o a quelle d’ingegno, si aprono anche a quelle di frivolo divertimento e tuttavia peggiori della frivola noia, mi incoraggia a chiedere la Vostra protezione, dato che – forse per i miei peccati! – mi dà diritto alle Vostre postille. OffenderVi quindi per questa offerta, per quanto insignificante, male si addice all’universalità del Vostro impegno anche se non disprezzarla potrebbe – ahimè! – esserVi impossibile.
Il linguaggio dell’adulazione e l’incenso della lusinga pur essendo, da tempo immemorabile, eredità naturale e risorsa costante del Dedicatore, a me offrono soltanto il malinconico rimpianto per non aver osato invocare il loro aiuto. Tutto quello che potrei dire assumerebbe un’apparenza sinistra dato che, in questa situazione, magnificare la Vostra capacità di giudizio sembrerebbe l’effetto di un artificio e celebrare la Vostra imparzialità farebbe pensare che ne dubito.
In qualità di Magistrati della stampa e di Censori per il pubblico – verso il quale siete vincolati dai sacri legami dell’integrità a esercitare l’imparzialità più ispirata e per il quale i Vostri suffragi dovrebbero recare i segni della pura, intrepida, innegabile verità – appellarsi alla Vostra MISERICORDIA significherebbe sollecitare la Vostra infamia e quindi, benché sia più dolce dell’olibano, più grata ai sensi di tutti gli odorosi profumi d’Arabia e anche se
Cade come la dolce pioggia dal cielo
Su quello che sta sotto...1
io non la corteggio! Ho diritto esclusivamente alla Vostra Giustizia e a questa mi conformerò. Il Vostro impegno non è verso l’autore che Vi supplica, bensì verso il pubblico imparziale che non mancherà di bramare
La sanzione e l’ammenda del vostro vincolo.2
Qui non c’è uno scrittore da strapazzo abituato all’insulto e insensibile alle critiche che sfida la Vostra severità e neppure un gazzettiere mezzo morto di fame
Spinto dalla fame e a richiesta degli amici3
che implora la Vostra indulgenza; il Vostro esame sarà libero dai preconcetti sia della parzialità che del pregiudizio; nessun mormorio indocile farà seguito al Vostro biasimo, nessun interesse privato verrà gratificato dalla Vostra lode.
Che l’ansiosa sollecitudine con cui mi raccomando alla Vostra attenzione non mi esponga al Vostro scherno. Ricordate, signori: siete stati tutti, un tempo, giovani scrittori e il più esperto veterano del Vostro esercito potrebbe, rammentando la sua prima pubblicazione, vedere rinnovati i suoi terrori e riconoscere i miei. Il coraggio è una delle virtù più nobili di questa sfera inferiore anche se è appena più indispensabile sul campo di battaglia, per salvaguardare dalla sventura l’eroe che combatte, che non nei rapporti privati con il mondo, per schivare quella meschinità d’animo che conduce, a passi impercettibili, verso quella serie di vili passioni e che trascina la mente troppo timida in un servilismo che sminuisce la dignità della natura umana. Tuttavia è una virtù inutile in una situazione come la mia; una situazione che toglie, persino alla codardia, l’aculeo dell’ignominia. Ma se ne potrebbe forse fare a meno di quel coraggio che susciterebbe disgusto piuttosto che ammirazione? In effetti è il privilegio speciale dell’autore togliere al terrore il disprezzo e alla pusillanimità il biasimo.
Qui lasciatemi riposare e sottrarmi, finché mi è ancora possibile, al fascino dell’EGOTISMO, un mostro che ha più devoti di quanti abbiano mai omaggiato la divinità più popolare dell’antichità e la cui particolarità è che, pur suscitando un’adorazione cieca e involontaria in quasi tutti gli individui, la sua influenza è universalmente respinta, il suo potere universalmente condannato e il suo culto mai menzionato se non con abominio perfino dagli stessi seguaci.
Nell’indirizzarmi a Voi collettivamente ho voluto solo sottolineare i generosi sentimenti per mezzo dei quali la critica liberale, annullando in modo totale l’invidia, la gelosia e tutte le opinioni egoiste, dovrebbe distinguersi.
Signori, ho l’onore di essere l’obbedientissimo e
umilissimo
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