Questo libro corre lungo una cicatrice. Punti di sutura praticati sul destino drammatico e amarissimo di Marco Pantani. Per questo, di Pantani, continuiamo un po’ tutti a parlare, a discutere, a ricordare, maneggiando la sensazione di avere a che fare con ombre e misteri, violenze ed errori. Una sequenza di atti così controversi da impedire, soprattutto alla famiglia di Marco, una pace come compendio alla pena.

Davide De Zan, nel suo appassionato lavoro di ricostruzione, fa una scelta di campo esplicita e sospinta dall’affetto per un campione ammirato, per una persona amata. Pancia e testa, dunque. Con la convinzione e l’emozione di un reporter alle prese con molti elementi scabrosi che toccano perennemente l’emotività, che lo portano a un convincimento netto e finale. Davide ripercorre le tappe clamorose di una squalifica prima, di una morte maltrattata poi. Mette assieme le contraddizioni di un’indagine superficiale al punto da produrre, a distanza di molti anni, la riapertura dell’inchiesta da parte della magistratura. Quindi, un giallo, giallo vivo, che evoca l’omicidio in luogo del suicidio.

Dunque, cosa abbiamo in questo libro? Un viaggio nel dolore. Una quantità di dati contraddittori. La certezza di trovarci ancora molto lontani dalla verità. Poi abbiamo dell’altro. Il ciclismo moderno, con i suoi scandali e le sue vergogne; il carattere ambivalente di un ragazzo fortissimo sui pedali e poi fragile, vulnerabile. L’intensità che accompagna un’avventura umana fatta di luci abbaglianti e di ombre scure: ciò che rende indimenticabile il protagonista.

È sempre così quando incontriamo una figura speciale. Restiamo sconcertati da ciò che un campione mostra nei momenti in cui prevale il talento, qualcosa che gli permette gesti a noi estranei, per noi irraggiungibili. E poi ci innamoriamo quando questo stesso campione manifesta emozioni, sentimenti, debolezze che – al contrario – ci riguardano eccome, fanno parte della nostra umana, normalissima, preziosa quotidianità. Per questo, credo, Pantani resta qui. Luce e ombra, appunto. Un fenomeno ma anche un ragazzo che somiglia a un amico, a un figlio, a ciascuno di noi.

Non c’è unanimità di giudizio su Marco. I suoi valori ematici, negli anni dei voli lungo le salite e delle sue rovinose cadute, mostrano una consuetudine tipica e ciclistica a forzare le regole. Chi rimprovera, ancora oggi, a Pantani di aver violato valori sportivi e persino la tutela della propria persona, ha molti argomenti sui quali appoggiare una tale convinzione. Ma qui – indipendentemente dalla discussione sul doping e Pantani, sul doping e il ciclismo e indipendentemente addirittura dalla tutela che applica De Zan al “suo” campione – si tratta di altro.

Si tratta di misurare il lato oscuro del successo. Di attraversare altre ombre. Quelle che di fatto permangono sulla clamorosa squalifica di Madonna di Campiglio, 1999 e, soprattutto, sulle circostanze che determinarono la morte di Pantani a Rimini nel 2004. Credo sia possibile segnare una demarcazione tra ogni opinione personale su Marco Pantani e i curiosi, contraddittori, elementi che accompagnarono un crollo intimo spaventoso. Così, non credo serva star qui a giudicare i comportamenti pregressi del campione, nel momento in cui emergono sospetti palesi, connessi a una persona che ha perso la vita.

Pantani? Tutt’altro che innocente. Pantani? Vittimista al punto da perdere voglia di correre, voglia di vivere, disposto a cedere alla cocaina. Bene, anche pensandola così, abbiamo un caso spalancato. Pantani è stato “catalogato” come vittima di se stesso. Quando invece – come racconta Davide – per la stessa vittima possiamo e dobbiamo aspirare a un atto di giustizia più fermo e meno sommario; attento e credibile. Un atto dovuto, ecco, nei confronti di un uomo perduto.

Ogni lettore credo possa farsi un’idea personale. Penso sia possibile accogliere il punto di vista di De Zan in toto, in parte o per niente. Non importa. Davide è mosso dalla curiosità a sua volta mossa dall’affetto. Ma anche ripercorrendo con glaciale razionalità ciò che accadde in quella stanza di Rimini durante l’ultimo atto della vita di Pantani, credo sia impossibile dare per buona la versione ufficiale, considerare chiuso questo capitolo.

Sono i fatti concreti, dunque, a rendere rilevante questo libro. Nuove prove che emergono a distanza di anni proiettando una luce diversa su quella prima indagine che appare ora come un insieme di mattoni sghembi, inutili per costruire una casa, una teoria consistente. Il che costringe Marco Pantani a pedalare ancora, come un fantasma senza pace, tra i nostri pensieri e l’amarezza che nega, alla fine, una quiete, quella serenità che sopraggiunge dopo una lunga corsa, a traguardo tagliato.

Giorgio Terruzzi