Come ogni mattina ero arrivato presto al villaggio di partenza. Si annunciava una splendida giornata di sole per il penultimo atto del Giro d’Italia.

La tappa era bellissima: partenza da Campiglio e arrivo ad Aprica, con il Tonale, il Gavia e il Mortirolo a fare da palcoscenico all’ultima vera fatica dei corridori prima della grande festa di Milano.

Prima della celebrazione finale per il dominatore assoluto di quel Giro: Marco Pantani.

Il Pirata aveva già vinto quattro tappe in maniera spettacolare ed era in maglia rosa da sette giorni, con un vantaggio sui suoi avversari che era progressivamente aumentato di tappa in tappa fino a diventare incolmabile. Anche perché in salita nessuno al mondo sarebbe stato in grado di competere con lui.

In quel Giro, a ogni tappa, quello del mattino era un piccolo rituale. A parte le solite interviste e i servizi che dovevo realizzare per i telegiornali, c’era un momento particolare che segnava il vero inizio della mia giornata. Il segnale era sempre lo stesso: un boato fragoroso che all’improvviso scuoteva l’aria del villaggio di partenza. Gli applausi festosi e le urla della gente mi dicevano che Marco stava arrivando, e io ero lì, pronto come sempre, ad aspettarlo.

Ogni giorno incrociavo il suo sguardo, il suo sorriso, e bastavano quei pochi secondi per capire come stava, come si sentiva, e in che condizioni fossero le sue gambe e la sua testa.

Lo conoscevo ormai troppo bene e mi bastava scrutare quella luce che aveva sempre negli occhi per immaginare come sarebbe stata la giornata.

La sua e, di conseguenza, la mia.

Anche in mezzo a mille persone, c’era sempre un istante preciso nel quale lui si girava verso di me. Ogni santa mattina.

Era come se io gli chiedessi, pur senza parlare: “Marco come stai?” e lui mi rispondeva subito con il suo sguardo, con un cenno di assenso o con un gesto delle mani e del corpo.

Segnali che valevano più di mille parole.

Fino a quel momento era stato un Giro magnifico e spettacolare. Marco era il re della corsa e l’Italia intera si fermava al suo passaggio.

Grazie a lui il ciclismo era tornato a vivere momenti ed emozioni che sembravano d’altri tempi. I tifosi lo veneravano e gli avversari, costretti a patire ogni giorno sonore sconfitte in salita, lo rispettavano profondamente. Era un rispetto che derivava dalla sua indiscussa superiorità in gara, ma anche dal suo carisma personale e dal fatto di aver sempre preso le difese dei corridori, anche nelle situazioni più critiche.

Quel Giro era cominciato tra mille durissime polemiche per i controlli sul sangue e Marco aveva coraggiosamente messo la sua faccia e il suo nome a difesa del gruppo. Tutti gli atleti in gara avevano apprezzato quel coraggio, peraltro già dimostrato l’anno precedente sulle strade del Tour de France, quando per una situazione analoga si era staccato, in maglia gialla, il numero dalla schiena come gesto di solidarietà verso tutti i suoi compagni del gruppo che si sentivano umiliati e maltrattati dalla polizia e dalle autorità francesi dopo l’esplosione del caso Festina, lo scandalo che a inizio Tour de France portò all’arresto di un massaggiatore con la macchina piena di EPO e di altri prodotti dopanti e all’esclusione di una squadra intera dalla gara ciclistica.

Togliersi il numero di gara significava rischiare la squalifica.

Da più di trent’anni aspettavamo un italiano vincente al Tour, eppure Marco non esitò un secondo a sfilarsi quel numero dalla schiena.

Questo era Pantani.

A un giorno dalla fine del Giro, Marco era il dominatore assoluto della corsa; il secondo in classifica, Paolo Savoldelli, si trovava a 5 minuti e 38 secondi, mentre il terzo, Ivan Gotti, era staccato di 6 minuti e 12 secondi.

Tutto sembrava perfetto, tutto era pronto per il gran finale, per un’altra giornata di spettacolo e per un’altra impresa del Pirata delle montagne.

Alla partenza c’erano bandiere gialle ovunque, a incorniciare la passione e l’amore per Pantani.

C’erano gioia, allegria ed emozione.

Ma all’improvviso tutto cambiò.

La notizia fu come una martellata in testa.

«Davide, hai sentito? C’è un problema con Pantani!»

«Un problema?»

«Sì, pare che l’abbiano trovato con l’ematocrito alto!»

Capii immediatamente la portata distruttiva di quella notizia e dell’uragano che stava per abbattersi sul Giro e sulla vita di Marco, ma rimasi per più di un minuto immobile, quasi paralizzato, incapace di qualsiasi gesto.

In quel minuto infinito era come se tutto si fosse congelato attorno a me e a quella frase che cambiava in un attimo l’orizzonte di quel piccolo grande mondo chiamato Giro d’Italia.

Vedevo persone, volti e oggetti che fluttuavano come al rallentatore davanti ai miei occhi.

Era esploso all’improvviso un casino assurdo, eppure io ero assordato da un silenzio irreale, ovattato, e non riuscivo a sentire nient’altro che quella voce nella mia testa che continuava a ripetermi: “C’è un problema con Pantani! C’è un problema con Pantani!”.

In un istante prendevano forma tutti gli oscuri presagi che a più riprese avevano accompagnato i discorsi più o meno espliciti di molti “suiveurs” che in diverse occasioni avevo dovuto, mio malgrado, ascoltare.

La cattiveria e il sospetto sono da sempre compagni dell’uomo, e in questo senso il ciclismo non fa differenza; in molte squadre c’era chi pensava che Pantani facesse uso di chissà quale propellente per potenziare il suo motore. E non passava giorno senza che qualcuno dicesse la sua sull’argomento. Sospetti, insinuazioni e accuse più o meno velate, condite da un’invidia senza fine per l’atleta che stava vincendo il Giro alla grande.

Come in un déjà vu rimasi lì fermo, immobile, con mille pensieri che mi urlavano nella testa e con le gambe incapaci di portarmi verso parole e conferme che non volevo sentire.

Come in trance risalii dal villaggio di partenza fino all’hotel di Marco, il Touring. Arrivato lì, mi trovai immerso in una bolgia incredibile.

C’erano microfoni, telecamere e giornalisti di tutto il mondo.

C’erano tifosi inviperiti o curiosi, bambini che piangevano e genitori incapaci di dare loro spiegazioni plausibili.

La notizia era esplosa come un ordigno nucleare, propagando ovunque rabbia, disperazione e sconcerto. Eravamo tutti sotto shock e come automi cercavamo di capire quale fosse, in quella situazione allucinante, la cosa giusta da fare.

Io stavo malissimo, ero disorientato e sconvolto, eppure dovevo svolgere come sempre il mio lavoro: ero un cronista e non potevo farmi trascinare da quello che sentivo dentro, non potevo cedere alla voglia di gridare al mondo che tutta quella vicenda mi sembrava impossibile.

Dovevo rimanere calmo, coerente e lucido. Questo imponeva la mia professione.

Dovevo raccontare quella notizia clamorosa, e dovevo farlo nel modo migliore.

In quel momento l’uomo faceva a pugni col professionista.

Nella camera numero 27, Marco Pantani era disperato.

Sapeva di essere innocente, ma sapeva anche che nessuno gli avrebbe creduto.

Vibrò un pugno contro un vetro, imprecò, pianse.

Di colpo il re era diventato un intruso nel proprio mondo.

Un mondo che lui adesso doveva affrontare, da reietto, prima di andarsene via.

Respinto, espulso, sgradito.

Marco provava disperazione e vergogna. Una vergogna che mai prima di allora aveva conosciuto e che da quel momento non l’avrebbe più abbandonato.

A quel punto accadde qualcosa di incredibile: le sue gambe, che fino a quel momento lo avevano portato a volare sulle montagne più impervie, di colpo cedettero di fronte al peso di tutte quelle emozioni tremende. Erano diventate instabili e malferme per lo shock e il dolore.

Non appena Pantani uscì dall’ascensore per fare il suo ingresso nella hall dell’albergo, con tutta quella gente che lo aspettava fuori, ebbe un cedimento. Le gambe si piegarono.

Fu in quel preciso istante che i carabinieri, chiamati dai proprietari dell’hotel per presidiare una situazione che poteva degenerare da un momento all’altro, corsero verso di lui per sorreggerlo.

Gli uomini in divisa avevano un unico scopo: proteggere Pantani, fargli da scudo in mezzo a quel trambusto che stava montando all’esterno e difenderlo da quella calca infernale, sempre più pressante e pericolosa.

I carabinieri erano lì solo e soltanto per questo: volevano aiutarlo in quel momento terribile.

Ma l’immagine che rimbalzò in ogni angolo del mondo, con quei militari in divisa di scorta attorno a lui, trasmise l’impressione di uno scenario delittuoso. Marco sembrava una persona tratta in arresto.

Nel vederlo andare via compresi, con il cuore scorticato, che la carriera del più grande scalatore di tutti i tempi era giunta al traguardo finale.

Anche quella mattina i nostri sguardi si incrociarono, ma stavolta in quegli occhi non c’era più alcuna luce. Al suo posto vidi solo un nero profondo e impenetrabile.

Quel giorno non gli strapparono solo la maglia rosa e una grande vittoria. Gli lacerarono l’anima, gli pugnalarono il cuore e gli rubarono la dignità.