Le parole pronunciate da Marco poco prima di andare via non facevano che confermare ciò che in quel momento nessuno, forse, voleva vedere: la sua vita di atleta era finita, e probabilmente non solo quella.
«Io sono stato controllato già due volte, avevo già la maglia rosa e avevo 46 di ematocrito… Oggi mi sveglio con una sorpresa. Credo ci sia qualcosa sicuramente di strano e devo dire che ripartire, questa volta… sono ripartito dopo dei grossi incidenti… ma moralmente, questa volta, credo che abbiamo toccato il fondo.
In questo momento vorrei solamente un po’ di rispetto e un saluto ai tifosi.
Mi dispiace solo per il ciclismo che ancora una volta esce in un modo…»
Marco non riuscì a terminare quell’ultima frase.
Abbassò lo sguardo e se ne andò.
Sconfitto.
Tutti in quel maledetto giorno stavano perdendo qualcosa, e da allora nulla sarebbe stato più come prima: la storia di quel Giro era stata stravolta, la storia del ciclismo sarebbe cambiata per sempre e la vita di un uomo iniziava il suo conto alla rovescia verso un tragico destino.
Quel famigerato test ematico di Campiglio era da invalidare.
Il regolamento prevedeva infatti che ogni atleta avesse la possibilità di scegliere la provetta in mezzo ad altre, in modo che la decisione fosse assolutamente casuale. Stranamente, però, quel giorno non fu così e la scelta del contenitore per il sangue di Marco avvenne in un’altra maniera: l’ispettore incaricato consegnò personalmente a Pantani la provetta per l’esame del sangue senza alcuna possibilità di scelta; e Marco, che evidentemente aveva la coscienza pulita, non si oppose a quella incredibile – e vietata – variazione della procedura.
Di fronte a quell’errore grossolano Pantani poteva tranquillamente rifiutarsi di sottoporsi al controllo. Non lo fece. Era tranquillo e sicuro di non aver nulla da nascondere.
Qualche ora dopo, nella concitata e improvvisata conferenza stampa all’hotel Touring, Andrea Agostini, addetto stampa della Mercatone Uno e amico di vecchia data di Pantani, disse a caldo: «Se qualcuno voleva orchestrare un attentato al ciclismo, questa volta ci è riuscito!».
Nel 2013, in una delle sue tante velenose rivelazioni, l’ex ciclista statunitense Lance Armstrong ha accusato apertamente Hein Verbruggen – ex presidente dell’UCI (Unione Ciclistica Internazionale) – di averlo coperto e salvato dopo un controllo antidoping positivo durante il Tour de France del 1999, il primo vinto dal texano.
L’episodio sarebbe avvenuto a un mese di distanza dalla cacciata di Pantani dal Giro d’Italia.
Che strana storia: il Pirata trattato come un traditore e umiliato, neanche fosse un delinquente, e il texano tutelato e celebrato come un divo, oltretutto con la benedizione del comandante in capo del ciclismo mondiale.
È la storia di quel 1999: Pantani iniziava il suo calvario e Armstrong la sua prodigiosa ascesa. L’americano veniva protetto a qualunque costo, mentre Marco cominciava a morire.