Quando vidi la mamma di Pantani da lontano la riconobbi subito: era vestita elegante, con un’acconciatura fresca di parrucchiere e grandi occhiali. Un’immagine completamente diversa rispetto a quando l’avevo incontrata a Cesenatico tanti anni prima: Marco aveva appena vinto il Giro d’Italia e mi esortava a cambiare i miei gusti in fatto di piadine, spingendomi con forza verso lo squacquerone accompagnato da altre cose succulente che a lui piacevano da matti.

Tonina dal suo chioschetto ci guardava sorridente e ci preparava quelle delizie tutta vestita di bianco, con quel classico grembiulino che si indossa in Romagna quando si sta ai fornelli. Christine, la fidanzata di Marco, lavorava lì insieme a lei e aspettava il momento giusto per raggiungerci.

Quanto tempo era passato da quei momenti felici!

Rivedevo ora Tonina in fondo a quel corridoio negli studi Mediaset; in quegli ultimi mesi ci eravamo sentiti spesso e l’avevo incontrata più volte anche a Cesenatico.

A ogni passo che facevo verso di lei mi tornavano alla mente i tanti momenti passati insieme a Marco, ricordi che mi avevano accompagnato nel corso degli anni, dopo che lui se n’era andato, e nei quali la nostalgia si mischiava al dolore.

Mi mancava tanto quel figlio che lei aveva perso quasi dieci anni prima e con cui avevo condiviso tanti giorni straordinari, quando lui vinceva tutto e io avevo il privilegio di incontrarlo prima alle corse e poi da solo, lontano dal clamore delle competizioni.

Da quando Marco è morto non è passata settimana senza che la mia mente non sia tornata a lui.

Rivedevo quelle vittorie meravigliose e risentivo la sua voce, mentre riaffioravano, con la stessa forza di quando le avevo vissute, tutte le emozioni che quel campione mi aveva saputo regalare.

Marco era unico.

Lui vinceva e io ero sempre lì, a pochi passi dal traguardo, ad aspettare che aprisse le braccia per festeggiare il successo della sua nuova impresa.

Avevo avuto il privilegio di conoscerlo fin da quando era un ragazzo. La sua prima vittoria al Giro d’Italia l’avevo commentata io nel 1994, riconoscendo in un puntino lontano, inquadrato dall’elicottero, la sagoma di un campioncino che stava per spiccare il suo primo volo.

E avevo avuto la fortuna di poter trasformare l’entusiasmo e l’ammirazione per lui in abbracci sinceri.

Marco era una persona meravigliosa e non si poteva non volergli bene.

Passo dopo passo arrivai da Tonina, che mi salutò con quel suo sorriso spontaneo e sempre velato di malinconia.

In quello sguardo era impresso a fuoco un dolore che nessuna madre dovrebbe mai provare. Sopravvivere al proprio figlio, vederlo morire così, in quel modo, avrebbe annientato chiunque; e lei, che ormai non aveva più lacrime da piangere, riusciva ancora a trovare la forza di lottare affinché la verità sulla vita e sulla morte di Marco venisse finalmente a galla.

Mille volte mi aveva ripetuto che Marco era stato ucciso, e lucidamente si ostinava a ricostruire e a comporre i tasselli di un giallo che invece la polizia e la magistratura avevano archiviato in fretta, giungendo a conclusioni molto diverse dalle sue.

Per Tonina era un momento particolare: ci stavamo avvicinando al 14 febbraio, mancavano cinque mesi a quella ricorrenza e all’improvviso avvertiva che il peso di tutto quel dolore già troppo a lungo sopportato stava per tornare ancora più intollerabile.

Quel 14 febbraio ormai prossimo avrebbe infatti segnato il decimo anniversario della morte di Marco. Una morte ancora avvolta da troppi misteri.

Tonina aveva sempre urlato al mondo che suo figlio non si sarebbe mai tolto la vita. Certo aveva dei problemi, e anche belli grossi. Quel maledetto giorno di Campiglio aveva proiettato Marco in una spirale devastante: qualche mese dopo, la cocaina era improvvisamente comparsa nella sua vita, probabilmente come antidoto a quel senso di ingiustizia e di dolore che si era incollato ai suoi sentimenti. Come via di fuga, forse, da una realtà che non riusciva più ad accettare.

Ma togliersi la vita no, quello no.

Marco aveva sofferto come una bestia per ciò che gli avevano fatto.

Soffriva ancora di più perché si sentiva tradito dal suo stesso mondo: era innocente e nessuno gli voleva credere.

Ma uccidersi no.

Non l’avrebbe mai fatto.