Tonina aveva preso una decisione importante: si era affidata a un avvocato con il preciso scopo di riuscire a far riaprire l’indagine sulla morte di Marco.
C’erano nuove prove, nuovi e importanti elementi all’orizzonte.
Quel giorno, nei nostri studi di Mediaset a Cologno Monzese, la mamma del Pirata voleva raccontare la sua versione dei fatti e spiegare – insieme all’avvocato Antonio De Rensis – perché tanti risvolti di quel tragico 14 febbraio di quasi dieci anni prima portassero a pensare che la verità sulla morte di Marco non fosse ancora stata scritta.
Incontrai per la prima volta l’avvocato nel camerino adiacente allo studio 10, dove stava per iniziare la diretta di Mattino Cinque, il programma televisivo che ogni giorno affronta temi legati alla cronaca e all’attualità. De Rensis era una persona molto elegante nei modi, nel vestire e nel parlare. Cinquant’anni ben portati, un impeccabile completo blu con tanto di camicia fatta su misura, nodo elegantemente aderente al colletto e gemelli in bella vista. Dimostrava una certa cura del dettaglio e un naturale gusto classico che si palesava anche nella pettinatura, ordinatissima, con i capelli lisci addomesticati alla perfezione all’indietro. Esprimeva sicurezza e mi fece subito un’ottima impressione, anche perché all’affetto spontaneo che dimostrava per Tonina univa un modo di parlare chiaro, efficace e lontano anni luce da quell’“avvocatese” involuto e criptico che spesso accompagna le sbrodolate lessicali di certi suoi colleghi.
Educato, gentile e deciso, De Rensis manifestava una passione e un coinvolgimento personale che mi fecero un grande effetto. Mostrò di aver assimilato e approfondito in poche settimane una mole infinita di carte. E mi fece capire, non prima di chiedere e ricevere un cenno di assenso da parte di Tonina, che molti segreti erano sul punto di essere svelati.
Si avvertiva un’atmosfera particolare, quella mattina. Vedevo in loro una consapevolezza e un’energia che fino a quel momento non avevo mai percepito. E sentivo molto forte quell’artiglio che si conficcava nel mio cuore ogni volta che pensavo a Pantani.
Ma c’era anche dell’altro: un particolare, una testimonianza che in tanti anni non avevo mai raccontato a Tonina. Lei era una donna vulcanica, aveva spesso reazioni istintive, molto veementi, e non sapevi mai come avrebbe reagito di fronte a certe rivelazioni. Per questo motivo avevo sempre tenuto per me un risvolto che pure poteva essere molto importante.
La persona che mi aveva fatto quella confessione mi aveva chiesto di non divulgarne il contenuto, almeno per il momento, ma soprattutto mi aveva fatto promettere di non svelare mai il suo nome finché non me ne avesse dato il permesso. Insomma ero vincolato al segreto professionale, oltre che all’impegno personale preso.
Nel corso degli anni avevo sempre mantenuto fede alla promessa, nella speranza che un giorno quella persona decidesse spontaneamente di rendere pubblico ciò che sapeva.
Dopotutto, che peso avrebbero potuto avere le mie parole, in confronto alla sua testimonianza diretta?
A un certo punto della trasmissione, dopo essere stati accolti con grande calore e affetto da Federica Panicucci e dopo aver ascoltato i racconti di mamma Tonina in lacrime, rientrando da un servizio che mostrava Marco in bicicletta decisi di rivelare in diretta quel retroscena che per tanti anni avevo tenuto per me.
Lo dovevo alla famiglia di Marco e a tutte le persone che avevano creduto in lui!
Decisi che non avrei svelato l’identità della fonte, per non violare il mio impegno, ma sentii anche che era decisamente arrivato il momento di raccontare i fatti così come mi erano stati esposti anni prima.
L’artiglio affondò ancora più forte dentro di me.
Guardai negli occhi Tonina, Federica e l’avvocato, presi fiato e cominciai a parlare. Sospinte da una forza che mi impediva di tenere a freno la lingua, le parole cominciarono a sgorgare spontanee, inesorabili, decise come la mia voglia di verità.
Nulla era previsto. Semplicemente non potevo più tacere.
Non stavo rompendo un patto, stavo solo infrangendo un muro che impediva a tutti di vedere la verità.
Tornai così ai fatti di quel Giro d’Italia del 1999.
«C’è una persona» dissi «che qualche anno fa mi fece una confessione molto importante. Mi raccontò di essere stato con Pantani, in camera sua all’hotel Touring, a Madonna di Campiglio.»
Qualche mese dopo la morte di Marco, questa persona – molto credibile e molto vicina al campione romagnolo – mi confidò che la sera del 4 giugno, dopo cena, Marco si era controllato da solo il sangue.
Sapeva benissimo che il giorno dopo sarebbero venuti a fare i controlli ematici, lo sapevano anche i gatti per strada, era quasi una prassi, prima dell’ultima vera tappa, così Pantani decise, con la macchinetta che aveva a disposizione, di effettuare un test per misurarsi da solo il tasso di ematocrito. Era una centrifuga piccola, semplice, ma affidabile.
Il Pirata era tranquillo, ma – con quella strana atmosfera che si era creata attorno a lui – non voleva correre rischi, voleva andare a dormire senza pensieri.
Questa persona concluse la sua confessione dicendomi: «Davide, te lo posso giurare sulla testa dei miei figli, Pantani quella sera aveva 48 di ematocrito!».
Non appena pronunciai quella frase, in studio ci fu un sussulto. La Panicucci sobbalzò sulla poltrona sgranando gli occhi e Tonina cominciò a piangere. Mi strinse forte la mano e, contrariamente a quello che temevo, non mi disse altro che: «Grazie per quello che hai fatto».
Federica mi chiese ancora una volta di ripetere quello che avevo appena raccontato e la accontentai, aggiungendo che in poche ore era praticamente impossibile passare da 48 a 53 di ematocrito: era un salto di valori fisiologicamente assurdo.
L’avvocato De Rensis, realizzando subito la portata di quell’informazione, esclamò perentorio: «Caro De Zan, non mi stupirei se domani un magistrato le telefonasse».
Quella testimonianza accendeva una luce nuova sui fatti di Campiglio. Soprattutto introduceva la possibilità che quel giorno, in quel maledetto controllo, Pantani fosse assolutamente a posto.
Per troppo tempo mi ero sentito prigioniero di quel vincolo di segretezza, obbligato a un silenzio che non aveva più alcuna ragione di esistere: Marco non c’era più, si era visto strappare a forza quel Giro d’Italia e, forse per la vergogna di tutto ciò che era successo, aveva imboccato la strada che l’aveva portato verso la morte. Rovistando a fondo tra le pieghe della mia coscienza mi resi conto che il vero patto era quello di non rivelare la fonte, il resto era una richiesta, una semplice richiesta che io avevo rispettato, per anni, con l’intima speranza che quel testimone si rivelasse finalmente al mondo per restituire un po’ di dignità a un caro amico che non c’era più.
Le agenzie di stampa rilanciarono subito la mia dichiarazione e quando uscii dagli studi mi ritrovai con il cellulare invaso dalle chiamate senza risposta.
Tonina e io ci abbracciammo forte prima di congedarci. Lei mi chiese di non lasciarla sola e io le promisi che non sarebbe mai accaduto.
Sì, perché quel giorno segnava per tutti noi l’inizio di una nuova avventura. Di un viaggio verso la verità, a qualunque costo.
Ancora non sapevo che, con il tempo, l’avvocato De Rensis sarebbe diventato per me semplicemente Antonio, un amico fidato. E che la sua passione ci avrebbe condotto verso sentieri e scoperte che in quel momento potevamo a stento immaginare.
Tornando in redazione decisi di telefonare subito alla persona che mi aveva fatto quella confidenza su Campiglio e Pantani. Era un mio amico e un brav’uomo.
Quando gli comunicai che avevo reso pubblica la sua confidenza non mi disse nulla, perché lo rassicurai sul fatto che la sua identità non era stata svelata. Ma quando lo esortai a farsi avanti, a quasi dieci anni di distanza dalla morte di Pantani, e a raccontare l’accaduto mettendoci la faccia, incredibilmente mi rispose di no.
La voce si fece improvvisamente dura e il suo tono, di solito morbido e amichevole, diventò all’improvviso nervoso e piccato.
Non mi sembrava nemmeno più lui.
Né mi pareva reale ciò che stavo ascoltando.
Rimanemmo al telefono per circa un’ora. Io cercavo in ogni modo di fargli capire quanto fosse importante che quell’episodio venisse raccontato al mondo direttamente da chi l’aveva vissuto, e quali scenari avrebbe potuto aprire una simile verità.
Era una rivelazione importantissima, che poteva provare l’innocenza di Pantani.
Non potevamo certo riconsegnare a Marco la vittoria al Giro d’Italia o la vita che aveva perso, ma potevamo restituirgli un po’ di dignità.
Non ci fu nulla da fare. Il mio amico ribadì con fermezza il suo no.
«No!» mi disse di nuovo, come tanto tempo prima, spiegandomi ragioni che non riuscivo a condividere ma che purtroppo ero costretto a rispettare.
Chiudendo quella conversazione provai un senso profondo di vuoto e di delusione, anche perché sapevo quanto affetto quest’uomo avesse provato per Marco, e non riuscivo a comprendere il motivo profondo di quel diniego.
La luce positiva che speravo di gettare su quel maledetto controllo di Campiglio pareva essersi irreparabilmente spenta. E non capivo chi altri avrebbe potuto darmi conferma di quell’evento che sapevo realmente accaduto, a dispetto di ciò che il mondo credeva.
Mi buttai sulla prima sedia che mi capitò davanti, deluso e sconfitto.