La sera, a casa, cominciai a parlare dell’accaduto con Elena, la mia fidanzata.
Elena è un medico, un’ematologa che ogni giorno si confronta con realtà durissime come la leucemia e i trapianti di midollo.
Eravamo seduti sul divano e per l’ennesima volta lei mi spiegò in che modo, a suo parere, potevano essere andate le cose quel giorno a Campiglio.
La sua spiegazione era logica, lineare, ma era molto diversa da tutto ciò che era stato ipotizzato in prima battuta da Pantani e poi dai periti di parte che in quel frangente erano intervenuti per interpretare quello “strano” risultato.
A quei tempi si era parlato di provette riscaldate per alzare l’ematocrito o addirittura di contenitori per il sangue con poco anticoagulante all’interno. «Tutte ipotesi poco plausibili!» sentenziò Elena, che in fatto di esami del sangue se ne intende, e tornò a raccontarmi come si potesse alterare con facilità quel tipo di test.
Poi, con quel piglio tipico che ha sempre quando si sente sfidata, aggiunse: «Non mi avevi detto che c’era anche un problema con il valore delle piastrine? Bene, eccoti servita la risposta che volevi!».
Io rimasi di stucco, perché in quel momento realizzai com’erano andate probabilmente le cose a Madonna di Campiglio.
Quello stesso giorno, durante la diretta di Mattino Cinque, mentre parlavo di Marco, all’improvviso era esplosa una lampada in studio, facendo un botto micidiale! Federica Panicucci si era presa un bello spavento e Antonello, l’assistente di studio, mi aveva poi detto che in cinque anni non era mai successa una cosa simile.
Sul momento ci avevamo riso sopra, dicendo che forse era un segnale del Pirata.
La sera, mentre ero a casa con Elena a parlare di ematocriti strani e di Pantani, di colpo udimmo un forte rumore alle nostre spalle. Mi voltai di scatto e mi avviai istintivamente verso lo studio che si apriva sul soggiorno: il suono arrivava da lì.
Con mia grande sorpresa vidi che un libro era volato per terra, precipitando dalla libreria sul pavimento.
La libreria era grande, allineati lì sopra c’erano come minimo trecento volumi.
Mi chinai, afferrai il libro caduto e con infinito stupore ne lessi il titolo: Gli ultimi giorni di Marco Pantani.
Rimasi di sasso!
Lo confesso, non sono un tipo particolarmente incline a credere nel paranormale, ma quell’episodio mi colpì parecchio. Soprattutto dopo ciò che già era accaduto quella mattina negli studi di Mediaset: due cose strane nello stesso giorno.
Elena e io ci guardammo meravigliati mentre le mostravo – con lo sguardo di uno che aveva appena visto un fantasma – il testo appena raccolto da terra.
Probabilmente, mi dissi, era stato il passaggio di un tram sgangherato a generare una vibrazione più forte del solito. Ma, ripensandoci bene, in dieci anni non si era mai verificata una cosa del genere e nessun libro aveva mai pensato di tentare un tuffo con avvitamento dalla mia libreria.
Rilessi quel titolo, sgombrai la mente da pensieri assurdi e decisi che se davvero in quel momento la vita mi stava lanciando un messaggio, era quello di non mollare. Di non arrendermi. E di continuare a cercare la verità.
Quel libro, Gli ultimi giorni di Marco Pantani, era stato pubblicato nel 2007 in Francia e in Italia l’anno dopo. L’autore, Philippe Brunel, era un giornalista straordinario: penna garbata, grande sensibilità e cultura, fiuto ed esperienza da vendere. Era anche un caro amico con cui avevo condiviso quasi vent’anni di viaggi e corse in bicicletta sulle strade del Tour, del Giro e dei Campionati del Mondo.
Ci incontravamo spesso alle corse e ogni volta trovavamo l’occasione per trascorrere qualche piacevole serata insieme. Da soli o con le nostre compagne: a Milano, a Parigi dove lui abitava, oppure in giro per l’Europa.
Philippe mi aveva sostenuto moltissimo negli anni in cui commentavo il Giro d’Italia per la Fininvest (poi diventata Mediaset). Mi telefonava spesso dalla Francia per incoraggiarmi e regalarmi qualche prezioso consiglio dei suoi, mentre io ricambiavo dandogli qualche informazione “fresca” su quel che avveniva dietro le quinte del Giro.
Tra noi c’è sempre stata stima reciproca, amicizia sincera e grande affetto.
Fu per questo che, quando incontrai Philippe a Cesenatico sul finire del 2004, decisi in pochi minuti di cambiare idea su un progetto che avevo in mente da tempo.
Non gliel’ho mai detto, ma in quel periodo stavo per mettermi a scrivere un libro che raccontasse di Pantani e dei tanti misteri che ancora avvolgevano la sua storia. Ero sconvolto per tutto quello che era successo e una volta ancora il destino mi aveva riportato vicino ai luoghi dove Marco era nato e cresciuto.
In quei mesi stavo seguendo un nuovo reality show sul calcio che mi costringeva a vivere tra Cervia, Cesenatico e Milano Marittima. Praticamente mi ero trasferito lì. A Milano tornavo di rado e per quasi nove mesi la mia casa diventò la Romagna.
Ogni giorno incrociavo qualcuno che mi parlava di Pantani, ogni volta era una confidenza, un retroscena, un particolare che nessuno conosceva.
Da quelle parti tutti sapevano della mia amicizia con Marco e della mia ammirazione per lui. E quella era la molla per venire a farmi dono di aneddoti e racconti spesso molto interessanti.
Quando, una sera, Philippe mi telefonò, come spesso faceva quando era in Italia, per dirmi che era a Cesenatico, in un minuto ci mettemmo d’accordo per incontrarci e immediatamente pensai che fosse l’occasione giusta per confidargli quel mio progetto di libro.
Era bello vedere il mio amico Philippe da quelle parti, in quelle sere di fine autunno, sempre impregnate di umidità e di nebbia fumosa, in quella classica atmosfera da mare d’inverno.
Ci trovammo al Nautilus, da Franco, un ristoratore di Cervia amico di Pantani, dove spesso mi recavo anch’io. Il pesce era molto buono e Franco era un uomo simpatico e di compagnia.
Ebbene, quella sera Philippe mi rivelò che stava scrivendo un libro su Pantani e che il suo incontro con quel ristoratore non era casuale, ma faceva parte di una serie di interviste che stava realizzando come base per cominciare a comporre il suo racconto. Mi disse che aveva già preso diversi appuntamenti e che c’erano molte cose da svelare.
Era talmente forte la mia stima per lui che in un secondo decisi di fermarmi e cambiare i miei progetti. Se era Philippe a indagare, potevo tranquillamente cedergli il passo: sarebbe stato lui a scrivere il libro che avevo in mente di realizzare.
Se c’era qualche fatto nuovo e importante da portare alla luce, ero sicuro che lui l’avrebbe scoperto.
Al resto ci avrebbero pensato la sua penna illuminata e il suo talento.
Insomma, per non metterlo in imbarazzo non gli dissi niente e come sempre ci salutammo con un abbraccio.
Dieci anni dopo mi ritrovavo con quel libro tra le mani. Gli ultimi giorni di Marco Pantani era misteriosamente volato giù dalla mia libreria forse per farmi capire che, se Philippe Brunel era riuscito ad arrivare fino a quel punto, probabilmente era giunto per me il momento di completare il suo lavoro.
Philippe aveva scoperto particolari molto importanti, ma ora c’erano altre verità che dovevano essere portate a galla e rivelate.
Lo scenario stava cambiando radicalmente.
Le prove che a Madonna di Campiglio il controllo fosse taroccato e che la morte di Marco nascondesse in realtà un omicidio erano sempre più pressanti ed evidenti.
Adesso era arrivato il mio turno. Dovevo mettermi al lavoro.
Il libro che non avevo scritto nel 2004 a Cesenatico cominciò a prendere forma in quel momento.