Rintracciai il numero del dottor Rempi e gli telefonai quella sera stessa.
Erano passati tanti anni dall’ultima volta che ci eravamo visti, ma non ci fu nemmeno un secondo di imbarazzo o di esitazione. Mi salutò cordialmente dimostrandomi, con il tono caldo e accogliente della sua voce, come la mia telefonata gli facesse piacere.
Era gentile e disponibile esattamente come lo ricordavo.
Ormai alle corse il dottor Rempi non veniva più, esercitava la professione di medico di famiglia a Carmignano, in provincia di Prato, e come hobby garantiva assistenza medica ai ragazzi di qualche squadra giovanile. I bei tempi del ciclismo professionistico erano per lui un ricordo lontano.
Passarono solo pochi minuti prima che i nostri discorsi ci portassero inevitabilmente a quella famigerata giornata del 1999 al Giro.
La nostra conversazione era ormai giunta al momento cruciale. Feci una piccola pausa e poi gli sparai il domandone: «Roberto, ma è vero che la sera prima di Campiglio Pantani aveva 48 di ematocrito?».
La sua risposta fu calma, immediata e sicura: «Sì, Davide, è tutto vero e io l’ho visto con i miei occhi».
Come speravo, il dottor Rempi mi confermò di non avere paura della verità e di essere pronto a ribadire quelle parole. Mi disse anche di averle in passato riferite ai magistrati che lo avevano interrogato: evidentemente non gli avevano dato un gran peso.
Gli chiesi allora quando potevamo incontrarci e lui mi rispose con prontezza: «Quando vuoi! L’unico problema è che sono in partenza con la mia famiglia per le vacanze…».
«Bene» replicai. «Dimmi dove vai e ti raggiungo per un’intervista.»
Mi ci volle un secondo per afferrare il nome di quel luogo: «Vado a sciare a Madonna di Campiglio».
L’appuntamento era fissato per il lunedì. Era inverno e le previsioni del tempo facevano rimbalzare bollettini tremendi.
Parlai con i produttori di Mediaset incaricati di organizzare quella trasferta e raccomandai loro di assicurarsi che venisse con me Matteo Salvatore. Matteo era un operatore molto bravo, avevamo realizzato insieme da poco una bellissima intervista con la mamma di Pantani. Senza che ci fossimo in alcun modo accordati, quella volta aveva filmato in un unico piano sequenza almeno dieci minuti assolutamente perfetti che furono la base di un servizio molto commovente. Neanche se avessimo pianificato tutto nei dettagli sarebbe venuto così bello.
Oltretutto Matteo era anche una persona sempre allegra e guidava bene e volentieri, il che non guastava, in vista di un viaggio che si annunciava lungo e probabilmente flagellato dal maltempo.
Partimmo di buon’ora da Milano e poco dopo Brescia la neve cominciò a fare la sua comparsa sul nostro parabrezza.
Fu un viaggio lungo, lento e tormentato. Ci vollero più di cinque ore per arrivare a Madonna di Campiglio e per tutto quel tempo la nevicata non ci abbandonò un solo istante, costringendoci a montare le catene per evitare di finire fuori strada.
Al nostro arrivo la muraglia di neve che incorniciava le stradine era impressionante. Almeno due metri e mezzo di biancore circondavano ovunque l’abitacolo della nostra vettura. Non si vedeva nulla e infatti, a un certo punto, ci trovammo persi in orizzonte indistinto e monocromo. Ci sembrava di essere immersi in una gigantesca nuvola, come quando un aereo in volo si tuffa tra le nubi e ti ritrovi senza orizzonte e punti di riferimento.
Poi finalmente lo vidi: l’hotel Touring era lì di fronte a me e mi aspettava per rinnovare nell’anima i tormenti di quindici anni prima.
Era proprio quello il luogo fissato con il dottor Rempi per il nostro incontro. A distanza di così tanto tempo, il destino lo aveva scelto per riannodare i fili di un dramma che aveva lasciato cicatrici profonde dentro di noi.
Rividi la scala attraverso la quale Pantani era uscito per sempre dal mondo dei campioni.
Ciascuno di quegli scalini era stato per lui come un passo in più verso l’inferno.
Quella scala aveva rappresentato la fine di una carriera e l’inizio di un declino straziante.
Pantani aveva cominciato a morire quel giorno, e adesso io mi trovavo esattamente nel punto dove tutto era iniziato, in quella tragica mattina di quindici anni prima.
Ripercorsi i gradini e quando entrai nella hall dell’albergo provai nuovamente una fitta improvvisa e dolorosa: era l’artiglio che tornava a conficcarsi nel mio cuore.
I flashback cominciarono a balenarmi rabbiosamente davanti agli occhi, come se il nastro del tempo si stesse riavvolgendo per poi fermarsi prima di schizzare nuovamente in avanti.
Era come viaggiare in un vortice temporale senza fine. Sballottato avanti e indietro negli anni in un gorgo impetuoso, in un buco nero.
Mi rivedevo lì, quel giorno, in quel drammatico 5 giugno.
Agitato e stanco.
Le immagini e le sequenze degli avvenimenti si confondevano di fronte a me: rivivevo l’agitazione e il caos di quella mattina primaverile di tanti anni prima, e nello stesso tempo tutto ciò si mescolava al silenzio ovattato del mio presente, in una fredda giornata d’inverno, con poche persone in giro e la neve che scendeva forte e silenziosa attorno a noi.
Il dottor Rempi arrivò puntuale.
Il suo volto era disteso e commosso: rivederci lì evidentemente faceva un certo effetto anche a lui.
Aveva ormai superato la sessantina, i capelli bianchi e un po’ diradati avevano preso il posto di quel ciuffetto scuro che si appoggiava sulla fronte l’ultima volta che ci eravamo incontrati. Negli occhi azzurri c’era un velo di tristezza, a svelarmi come i fatti di quel giorno ormai lontano occupassero ancora uno spazio importante nella biblioteca dei suoi brutti ricordi.
Ci accomodammo in una stanza molto ampia; il camino era acceso vicino a due grandi finestre che si aprivano sulle montagne, anche se quel giorno la neve lasciava poco spazio all’orizzonte.
Due ragazzi stranieri ci guardavano incuriositi mentre Matteo sistemava le luci e ci dava il via per cominciare un’intervista che avrebbe completamente ridisegnato la sequenza degli eventi accaduti in quel famigerato e tragico giugno del 1999.
«Roberto, c’è un particolare, c’è un episodio che finora non è mai stato rivelato, un episodio che sposta di molto il racconto di quella giornata di Madonna di Campiglio e di tutto ciò che accadde dopo. Che cosa è successo veramente la sera prima di quel controllo sul sangue di Pantani?»
«Quella sera sono andato in camera di Marco per chiedergli se avesse bisogno di qualcosa e per ricordargli che il giorno seguente sarebbero venuti gli ispettori per effettuare i test sul sangue. Lui era in maglia rosa, era praticamente certo che alla penultima tappa sarebbe stato sottoposto a quei controlli. Mi rispose che non c’era nessun problema, anche perché si era controllato da solo il valore dell’ematocrito.
Allora i corridori usavano queste apparecchiature, le centrifughe, che non erano né mie né della squadra. In quella occasione e con quella centrifuga Pantani effettuò il suo controllo personale e il valore di quell’esame era di 48. Se mi ricordo bene, dopo tanti anni, il valore era 48.2-48.3.»
«Questo risultato te l’ha comunicato Marco o l’hai visto con i tuoi occhi?»
«Marco aveva già fatto il controllo, in camera sua, ma la centrifuga era là davanti ai miei occhi e il risultato, ben visibile, era – come ti ho detto – 48.2-48.3. Abbondantemente sotto i 50. Questo era il limite massimo consentito dai regolamenti sportivi. Superare quel valore significava essere estromessi dalla corsa. Marco era assolutamente nella norma. Era tranquillissimo per il controllo del giorno dopo. Ed ero tranquillo anche io, al punto che, dopo aver finito il mio solito giro nelle stanze dei corridori, me ne andai in paese a una festa che avevano organizzato. Questo te la dice lunga sul clima di serenità e calma che vigeva nella nostra squadra alla vigilia di quel test ematico che tutti sapevamo sarebbe arrivato l’indomani.»
«Caro Roberto, da medico: come può un 48 di ematocrito diventare dopo poche ore un 53?»
«Credimi, ancora oggi ci sono delle notti in cui mi sveglio e non so darmi risposta.»
Quest’ultima frase, Rempi me la disse con le lacrime agli occhi.