L’incontro con il dottor Rempi mi lasciò un uragano di sentimenti contrastanti che litigavano dentro di me.

Da un lato sentivo fortissime le emozioni di quel giorno del 1999 che tornavano a graffiarmi l’anima. Vedevo Pantani, risentivo le parole di mio padre Adriano, che quel giorno, con la voce rotta dalla commozione, cercava di portare a termine il racconto in diretta di quella tappa terribile, senza nessuno in maglia rosa, e con Davide Cassani, stravolto quanto lui, impegnato nel durissimo tentativo di sostenerlo nella telecronaca.

Ma le parole del dottor Rempi mi davano anche la forza di proseguire nel mio lavoro e nella mia indagine, che ora acquistava nuovo vigore. Come avevo promesso alla mamma di Pantani, dovevo insistere, insistere e insistere.

Con la testimonianza dell’ex medico della Mercatone Uno in mano chiamai subito il mio direttore, Claudio Brachino.

Per tanti anni Claudio aveva curato e condotto Top Secret, un programma televisivo che affrontava i grandi misteri della storia: dall’omicidio di Kennedy alle Torri Gemelle, da Marilyn Monroe a Lady Diana. Insomma il mistero, i complotti e i grandi casi di cronaca erano per Brachino il pane quotidiano. Da due settimane stavo lavorando attorno al “mistero Pantani” e, quando ci incontrammo, mi ci vollero pochi minuti per convincerlo a organizzare un grande speciale che parlasse di Marco e delle troppe zone d’ombra che ancora avvolgevano i capitoli chiave della sua esistenza.

Una specie di Top Secret legato ai misteri della vita e della morte del Pirata.

Gli confidai alcuni particolari ancora riservatissimi che l’avvocato De Rensis, il legale della famiglia Pantani, mi aveva mostrato qualche giorno prima in gran segreto.

Claudio realizzò immediatamente la portata e la gravità di quelle informazioni: «Hai carta bianca!» mi disse. «Prosegui a pieno ritmo con il tuo lavoro e tienimi costantemente aggiornato. Io nel frattempo chiamo la rete [Italia Uno] e cerco di farmi dare uno spazio per il 14 febbraio, la sera del decimo anniversario della morte di Pantani.»

Non dubitavo che il mio direttore avrebbe condiviso con energia la mia iniziativa e mi faceva piacere vederlo così coinvolto, così pronto a gettarsi anima e corpo in una battaglia che per me era importantissima.

Avevo visto tanta gente sparire nel momento in cui Pantani aveva cominciato a cadere. Grandi amici fino al giorno prima che improvvisamente facevano spallucce al suo nome o che addirittura si sentivano in dovere di sparare sentenze al vetriolo contro di lui.

Brachino non aveva mai conosciuto Pantani personalmente, ma era deciso, come me, a mettersi alla ricerca della verità.

Si fidava di me e io mi fidavo di lui.

Uscito dal suo ufficio, diedi il via a un’altra operazione.

Ricordavo benissimo un passaggio del libro di Renato Vallanzasca intitolato Il fiore del male in cui si parlava di Pantani.

Il bel René – così lo chiamavano ai tempi in cui la sua vita era cadenzata da rapine, omicidi (veri e presunti) ed evasioni che gli valsero il non invidiabile record di quattro ergastoli e un totale di 295 anni di condanna – raccontò in quel libro di uno strano episodio legato al Giro d’Italia del 1999.

Vallanzasca parlava di confidenze, di un giro di scommesse clandestine e di un suo amico, detenuto in carcere come lui, che una settimana prima della fine del Giro d’Italia gli aveva misteriosamente profetizzato la cacciata di Pantani.

Era un episodio oscuro e misterioso.

Dovevo assolutamente parlare con Vallanzasca.

Quel pensiero fisso mi martellò in testa per diversi giorni.

Telefonai così a Gabriella Simoni, giornalista coraggiosa e amica personale del bel René.

Gabriella è stata per anni l’inviata di punta di Studio Aperto, per lei i conflitti di guerra erano come le corse in bicicletta per me. L’avevo sempre vista in prima linea, nella Guerra del Golfo, in Ruanda, in Kosovo, in Afghanistan. Roba tosta per chiunque. Lì si rischia la vita ogni giorno. Altro che cazzate.

Gabriella è una giornalista vera.

Grande inviata di guerra, oltre che una persona meravigliosa, come tutti quelli che sfidano pallottole vaganti e bombe per raccontarci la verità da quei teatri di sofferenza e orrore.

A Gabriella chiesi un aiuto per mettermi in contatto con Vallanzasca, spiegandole nel dettaglio i motivi di quella richiesta.

Con mia grande sorpresa mi sussurrò al telefono in quel suo tono leggero e inconfondibile: «Caro Davide, dovrei avere nascosta da qualche parte una vecchia intervista in cui Vallanzasca mi confidava proprio quello che mi stai dicendo tu. Tra l’altro è un’intervista molto lunga e piena di dettagli che lui non ha inserito nel suo libro e che ai tempi non resi pubblica perché così mi aveva chiesto Renato. Se vuoi, mi metto subito a cercarla e quando la trovo ti chiamo».

Passarono meno di 24 ore e il mio telefono cominciò a squillare. Il numero era quello di Gabriella. «Ciao Davide, ho trovato l’intervista che mi chiedevi, se vuoi tra un quarto d’ora passo da te in redazione così la vediamo insieme.»

Detto fatto!

Il filmato aveva un’ambientazione particolarissima e inquietante: era girato di sera, quasi al buio. A illuminare la scena, solo le luci dei lampioni di un parco immerso nella nebbia; una cortina fumosa, bianca e spessa, che saliva lenta dal terreno circostante regalando all’ambiente un’atmosfera spettrale. Sembrava la scena di un thriller americano.

A completare l’effetto da film giallo c’era naturalmente la pioggia, che stemperava i colori emessi da quelle luci già fioche scendendo fitta sulle teste di Vallanzasca e di Gabriella.

Loro due passeggiavano lenti, immersi nei loro discorsi, e totalmente incuranti del clima e del freddo, avvolti nei loro cappottoni scuri, con il cappuccio tirato sulla testa per ripararsi in qualche modo dall’acqua.

Il ticchettio delle gocce di pioggia faceva da colonna sonora a quell’incontro.

Il tasto start del videoregistratore era appena stato schiacciato, c’eravamo solo lei e io nella stanza a vedere quel servizio che continuava così…