Mancava una settimana alla fine del Giro d’Italia del 1999. Viene questo amico e mi dice: «Renato, lo vuoi un bel regalo?».
Io gli rispondo: «Certo! Bisogna vedere quanto mi costa».
E lui, di rimando: «Non ti costa nulla, stai tranquillo, voglio solo farti un bel regalo!».
Sul momento rimango un po’ perplesso e gli chiedo: «Dai, fammi capire. Vai avanti!».
«Senti, Renato, se vuoi posso darti una bella dritta che è tranquilla, sicura, è certa!» Poi mi guarda e mi butta lì: «Come lo vedi Pantani?».
«Come vuoi che lo veda? Sta bastonando tutti. Cazzo, viaggia come un treno!»
Un secondo dopo mi guarda in faccia e mi fa: «E se io ti dico che quello perde il Giro? E c’è una bella scommessa pronta da fare?».
«Ma come fate?» gli dissi subito io. «Bisogna sparargli a Pantani per fermarlo!»
E lui: «Non è un problema».
«Ma dai! Ma non è possibile. Dovete buttarlo giù da un burrone! Ma il regalo qual è?» chiesi io.
«È semplice, Pantani adesso viene pagato pochissimo, ma i suoi avversari sono quotati a 10, anche a 12, perché non c’è gara. La scommessa è lì pronta da fare.»
Era sabato. Mancavano otto giorni alla fine del Giro d’Italia.
Senza battere ciglio mi ribadì una volta ancora, calmissimo: «Renato, lo sai che io non parlo mai a vanvera. Se dico una cosa, quella succede».
Tra l’altro sapevo che “lui” viveva nel mondo delle scommesse clandestine.
Non mi stupivo che potesse avere quel tipo di informazioni, ero preoccupato piuttosto del modo in cui tutto poteva succedere. Mi dava da pensare. Ma lui si mostrava sicuro… «Renato, stai tranquillo, se io dico una cosa, quella avviene.»
Cazzo!
Ci pensai su un attimo: a quel punto della corsa, alle spalle della maglia rosa in classifica c’erano Jalabert e Gotti, se ben mi ricordo.
«Ma come fa Pantani a perdere? Bisogna sparargli, a quello lì, per fermarlo» dissi io, un’altra volta, scherzando.
Nei giorni seguenti – era l’ultima settimana – c’erano delle belle tappe toste e Pantani continuava a vincere. Così, quando incontrai quel mio amico, gli dissi: «Oh, minchia, complimenti! Mi davi proprio una dritta giusta, eh?».
E anche stavolta, senza battere ciglio, mi rispose: «Eh, Renato, stai tranquillo, non ti preoccupare, hai sbagliato a non giocare».
Il sabato dopo, cioè a distanza di una settimana da quando mi era stata fatta quella proposta, io la mattina mi alzo bello tranquillo, non leggo i giornali, combinazione non ascolto nemmeno la radio e vado a farmi la doccia.
Quando passo davanti alla sua cella mi sento chiamare: «Renato, Renato! Hai sentito?».
«Che cosa c’era da sentire?» gli rispondo io.
E lui subito: «Hanno fermato Pantani!».
«Fermato? In che senso?»
«L’hanno fermato, l’hanno squalificato, era positivo.»
E poi, dopo un attimo di pausa, aggiunse sorridendo: «Che ti dicevo io?».
È chiaro che aveva ragione lui.
Evidentemente sapeva qualcosa…
Le parole di Vallanzasca erano molto chiare e, sul finire dell’intervista, emerse anche un altro risvolto, più profondo e umano: «Chi mi conosce sa benissimo che quello che ho detto risponde a verità. Non me ne fregherebbe niente di andare a difendere Pantani così, tanto per fare.
Ho parlato e ho raccontato tutto perché mi hanno distrutto un mito, lo hanno letteralmente demolito.
Io sono convinto che quella botta, che ti fa crollare il mondo addosso, può essere stata l’inizio di un percorso dal quale poi era difficile tornare indietro.
Il mio racconto è solo un mattoncino, una piccola cosa, perché mi sarebbe piaciuto poter dire a tutti che Pantani era innocente.
Quel brutto “scherzo” di Campiglio, fatto solo per guadagnare dei soldi, ha contribuito a farlo morire. Mi sarebbe piaciuto poterlo dire pubblicamente. E non solo per accertare la verità su di lui, ma anche per dare una consolazione a sua madre e alla sua famiglia, che per tutto questo hanno sofferto tantissimo».
Evidentemente anche i criminali hanno un loro codice d’onore, e per Vallanzasca era arrivato il momento di liberarsi di un segreto che poteva scagionare Pantani da un’accusa infamante. Con quelle parole, il bel René abbandonava le vesti del bandito per rendere onore a un campione che era stato ingiustamente infangato e umiliato. Di certo il ciclismo di quegli anni era un ciclismo malato: lo raccontano la storia e i tanti scandali che lo hanno attraversato, ma è anche vero che, se i corridori avevano delle colpe, Marco Pantani, da solo, ha pagato per tutti.