Il dottor Locatelli e io ci ritrovammo qualche giorno dopo all’ospedale San Raffaele.

Nel laboratorio di analisi l’attività era frenetica: in quel reparto si effettuano sette milioni di controlli ogni anno!

Quella mattina erano tutti molto gentili: i medici che ci accolsero, i tecnici di turno e anche l’addetta dell’ufficio stampa che ci accompagnava per i locali dell’istituto.

Scegliemmo insieme il punto migliore per realizzare la nostra intervista, in modo tale da non disturbare i medici al lavoro, e alla fine ci sistemammo nel cuore del laboratorio, proprio vicino ad alcuni macchinari che stavano girando a pieno ritmo.

Leggevo negli occhi e nelle movenze di Locatelli una certa tensione: la sicurezza e la determinazione dello studioso lottavano con la paura dell’uomo e con l’idea che quel suo gesto potesse provocare un terremoto.

La nostra presenza in quel laboratorio aveva suscitato una certa curiosità in tutto il personale: per qualche minuto medici, biologi e tecnici si presero una pausa. Molti si raccolsero attorno a noi con la voglia di capire cosa stesse avvenendo e quale dimostrazione stesse per tenere il responsabile di quel reparto.

Locatelli era emozionato.

Mentre lo osservavo, mi accorsi che spuntavano dalla tasca del suo camice bianco i fogli di un esame e alcune provette: mi parve di scorgere il suo nome su quei fogli. Sospettai – e probabilmente avevo ragione – che prima del mio arrivo avesse effettuato un test sul proprio sangue per valutare, come fa ogni scienziato, gli effetti reali della procedura che stava per illustrarmi.

Su quei fogli probabilmente c’era già scritto quel che avveniva prima e dopo la deplasmazione, e la sicurezza che leggevo nei suoi occhi di medico indicava che la mia ipotesi era giusta.

Iniziammo così l’intervista.

Gli domandai subito: «Dottor Locatelli, la domanda che le voglio fare è questa: se ho a disposizione un campione di sangue in una provetta, ho la possibilità di modificare il valore dell’ematocrito rispetto a quello reale?».

Mi rispose: «Certo, è possibile, sfruttando il fatto che, dopo il prelievo, la parte solida del sangue tende a precipitare sul fondo della provetta».

Per dimostrare quanto stava dicendo, il dottore prese una provetta con un campione di sangue e, mentre l’agitava, mi spiegò: «Mescolandolo, si ha una miscelazione della parte solida con la parte liquida; lasciando poi il campione fermo in posizione verticale per un determinato tempo, si ottiene una separazione delle due parti».

Per essere sicuro di non aver frainteso, indicando la provetta che aveva in mano provai a riassumere: «Insomma, se lascio la fiala a riposo, la parte solida del sangue precipita progressivamente verso il basso mentre quella liquida, più chiara, rimane sopra».

Lui annuì: «Nella parte sopra c’è la parte plasmatica, mentre sul fondo ci sono i globuli rossi».

A quel punto gli chiesi: «Come si fa ad alterare i valori?».

E Locatelli: «Aprendo la provetta e non prendendo nessun altro accorgimento, è possibile togliere una piccola quota».

Per illustrarmi il procedimento, il dottore aprì la provetta e, con una pipetta, prelevò alcune gocce dalla parte più chiara, quella plasmatica.

Quindi mi spiegò: «Togliendo questa quota si cambiano i rapporti tra la parte solida e la parte liquida. Rimescolando poi» e mentre diceva così agitò la provetta davanti a me «non c’è nessuna evidenza dell’alterazione macroscopica dei rapporti».

E infatti il sangue era ritornato, in apparenza, come prima.

«Ma il risultato» riprese Locatelli «è una variazione di tutti i parametri ematologici misurati: piastrine, globuli rossi, emoglobina ed ematocrito.»

Volevo che me lo ripetesse ancora una volta, perciò lo incalzai di nuovo: «Quindi, lei dice che, se si toglie un po’ di parte liquida del sangue, immediatamente il valore dell’ematocrito si alza?».

«Esatto.»

Era la conferma esplicita di ciò che avevo sempre sospettato: alterare quel tipo di test era veramente facilissimo, e guardarlo mentre spiegava quel metodo faceva venire i brividi.

Ma ancora per me non era sufficiente, e allora gli chiesi: «Facendo questo tipo di operazione varia anche il valore delle piastrine?».

«Certo!»

Gli feci questa domanda perché il campione del sangue di Marco prelevato a Madonna di Campiglio aveva dato dei valori veramente anomali di piastrine: erano letteralmente crollati!

Quel sangue, stranamente, mostrava un numero di piastrine nettamente inferiore a quello che Pantani aveva sempre avuto nella sua vita, anzi era molto basso persino rispetto ai normali valori fisiologici. Quel giorno, però, nessuno aveva dato importanza a questo risultato difforme e sospetto, perché l’ematocrito aveva catalizzato l’attenzione di tutti!

«Certo!» mi aveva risposto il tossicologo quando gli avevo posto quell’ultima domanda, e mentre lo ascoltavo trovavo in quella parola, in quell’unica parola pronunciata con tono deciso, senza tentennamenti, il legame diretto tra due anomalie di un unico esame: ematocrito alto e riduzione del numero di piastrine.

Era una prova importante, un collegamento che finora nessuno aveva mai portato alla luce.

Il metodo che il dottor Locatelli mi aveva appena illustrato si chiama, come è stato detto, “deplasmazione”. Gli chiesi di spiegarlo in maniera semplice un’ultima volta.

E lui: «Togliendo del plasma da un campione di sangue otteniamo due risultati: il primo è che abbiamo un aumento dei globuli rossi e conseguentemente anche dell’ematocrito…».

«E il secondo?»

«È una diminuzione delle piastrine. Perché le piastrine diminuiscono? Perché sono più leggere e si trovano nella parte liquida che noi abbiamo sottratto. Il risultato è che, quando rimescolo il campione, tutto ritorna apparentemente normale, ma i parametri sono completamente cambiati.»

Il dottore terminò la frase e la sua dimostrazione affiancando due provette con lo stesso campione di sangue: il primo non manipolato e il secondo a cui era stata sottratta una quota della parte liquida. Due provette assolutamente indistinguibili, ma in realtà profondamente diverse, perché il sangue contenuto in una di esse aveva subito un’alterazione sostanziale.

In una delle due, infatti, l’ematocrito era salito e le piastrine erano colate a picco.

Proprio come nel sangue di Marco a Campiglio.

Il gruppo di medici che aveva assistito a quella dimostrazione e ascoltato con attenzione le parole di Locatelli, rimase istantaneamente congelato e a bocca aperta, con gli occhi fissi su di lui, come in un fermo immagine.

Uno di loro, sorridendo amaro e annuendo, sospirò: «Ma certo! è facilissimo manipolare un esame così. È un gioco da ragazzi per uno che sa cosa fare».

Alla fine dell’intervista decisi di rimanere ancora qualche minuto con Locatelli.

Il tossicologo mi portò a vedere alcuni strumenti del suo laboratorio e in particolare mi mostrò i contenitori in cui vengono depositati e trasportati i campioni ematici per effettuare i test più delicati.

Le provette hanno un cappuccio speciale che di fatto le blinda, impedendo ogni tipo di intrusione non autorizzata. Oltretutto, dopo essere state etichettate in modo sicuro, vengono chiuse in una speciale busta di plastica e sigillate. Con questi accorgimenti è impossibile per chiunque effettuare manovre di manomissione senza lasciare tracce evidenti.

A Campiglio nel 1999 le cose erano molto diverse e le provette potevano essere manomesse senza che nessuno in seguito riuscisse ad accorgersene. Un test del dna avrebbe solo potuto attribuire la paternità del sangue dell’atleta a cui era stato prelevato, ma non avrebbe fornito alcuna indicazione su un’eventuale manipolazione di questo tipo.

Chiesi a Locatelli un parere sui test ematici effettuati a quel tempo e le sue parole non lasciarono spazio a molte interpretazioni. Mi disse che, se fosse stato un corridore professionista, non si sarebbe mai sottoposto a un esame così mal congegnato. Mettere il proprio prestigio e la propria dignità professionale nelle mani di un test che prendesse in esame un unico valore era una follia.

Il fatto poi che l’atleta esaminato non avesse alcun controllo su quel che poteva succedere in seguito alla sua provetta di sangue aggiungeva criticità a un sistema a suo dire assurdo e con basi scientifiche molto discutibili.

Nel caso di Pantani, poi, non ci fu nemmeno la possibilità di eseguire una vera “contro-analisi”, perché non c’era un secondo campione di sangue da analizzare, in una provetta diversa, ma solo e soltanto lo stesso sangue nel medesimo contenitore.

Anche se si fosse ripetuto quel test cento volte, il risultato non sarebbe mai cambiato.

Questa era la procedura con cui i corridori avevano a che fare durante il Giro d’Italia nel 1999. A pochi mesi di distanza dal fattaccio di Campiglio, quel tipo di test sul sangue venne modificato per sempre, aggiungendo nuovi parametri e differenti sistemi di lettura dei risultati.

Troppo tardi, purtroppo, per Marco.