L’aria del porto canale era fresca e il vento che arrivava dal mare agitava gli alberi.

Erano passati dieci anni, eppure trovarsi lì, quel giorno, era come immergersi in un oceano di malinconia e tristezza.

Appena uscito dal mio hotel vidi una persona in lontananza. La conoscevo bene: era Tonina.

Di solito, il 14 febbraio partiva per andarsene il più distante possibile da Cesenatico. Ma stavolta aveva deciso di rimanere.

Si capiva che non aveva chiuso occhio per tutta la notte e il dolore che quella giornata portava nel suo cuore era palpabile.

Cercava di mostrarsi forte, coraggiosa, sicura, ma si vedeva che aveva l’anima lacerata da mille ferite che non volevano guarire né mai si sarebbero rimarginate.

Ci abbracciammo, come sempre.

Quel mattino, insieme a Tonina c’era Francesco Ceniti, il giornalista della «Gazzetta dello Sport» che con lei aveva scritto il libro In nome di Marco. Le stava accanto con affetto e la circondava di mille attenzioni. Io avevo letto il suo libro, ma era la prima volta che lo incontravo di persona. Scambiammo quattro chiacchiere ben sapendo che per ognuno di noi sarebbe stata una giornata lunga e impegnativa.

Cesenatico si preparava a celebrare il decimo anniversario della morte di Pantani. Un giorno intero dedicato al suo ricordo. Anche se era molto difficile, Tonina desiderava che fosse una giornata di gioia e di festa come avrebbe voluto il suo Marco.

C’erano tanti bambini che arrivavano da ogni città e Tonina era pronta ad accoglierli per raccontare loro la storia di quel suo figlio amatissimo, campione e sfortunato.

C’era molta gente di tutte le età che da ogni angolo d’Italia arrivava a Cesenatico per portare un fiore a Marco, per dedicargli un pensiero o semplicemente per dire: «C’ero anch’io quel giorno».

Le bandiere gialle col disegno del Pirata tornavano a sventolare libere e le bandane ricoprivano il capo di quei tifosi che non l’avevano mai abbandonato.

Le foto di Pantani sorridente in sella alla sua bici ornavano le entrate dei bar, dei locali e delle piazze, mentre le maglie della Mercatone Uno ricomparivano orgogliose per mostrarsi di nuovo in mezzo alle biciclette e per le strade dopo essere rimaste per anni chiuse in qualche cassetto.

Ripensavo a dieci anni prima, al freddo che sentivo nell’anima il giorno del funerale di Marco. Al fiume di persone in lacrime che lo aveva accompagnato verso il suo ultimo traguardo e a quello stesso porto canale che si era fermato silenzioso a salutare il suo campione che se ne andava via per sempre.

Ma quel 14 febbraio era anche il giorno del nostro speciale Pantani: una trasmissione interamente dedicata a lui, al suo ricordo e ai tanti misteri che ancora oggi avvolgono la sua vita e la sua scomparsa.

Claudio Brachino aveva fortemente voluto quel programma: ci teneva molto, si vedeva, e su quel progetto lavorammo insieme con impegno e passione per oltre un mese.

Per me fu un periodo piuttosto duro.

Dovevo costruire un programma che parlasse di Marco, delle sue vittorie, del campione immenso che era stato, ma al tempo stesso avevo il compito non facile di cominciare a far luce sui tanti particolari oscuri che stavano emergendo con forza dal passato.

L’avvocato De Rensis stava completando un lavoro splendido, a metà tra quello del legale e quello dell’investigatore, e mi aveva rivelato molti aspetti importantissimi della sua ricerca.

Quel che avevo scoperto io su Campiglio, poi, mi permetteva di ridisegnare completamente lo scenario di quel giorno al Giro d’Italia, di andare ben oltre ciò che si era pensato fino a quel momento.

Il programma era pronto. Ci avevo lavorato con passione immensa. Era arrivato il momento di andare in onda.

Nello studio di Milano c’era Claudio Brachino, conduceva lui quello speciale. Gli ospiti erano De Rensis e Andrea Rossini, un giornalista che aveva seguito da vicino l’indagine sulla morte del Pirata e si mostrava fortemente convinto dell’inattaccabilità delle tesi formulate ai tempi della prima indagine dalla polizia e dalla magistratura. Inutile dire che De Rensis era di parere completamente opposto.

Io ero a Cesenatico, nello Spazio Pantani, il museo dedicato a Marco.

Ero collegato da lì con Tonina, ed eravamo seduti in mezzo alle bici e alle maglie più belle e importanti del Pirata, circondati dai quadri che lui stesso dipingeva e da tanta gente, non inquadrata dalle telecamere, che ci aveva chiesto di poter stare lì con noi a seguire la trasmissione.

Il programma mostrò tutte le emozionanti vittorie di Pantani. I servizi con la musica, le parole di Marco e le sequenze più intense delle sue vittorie ridestavano le emozioni e i momenti d’oro di quella vita a due ruote, quando l’Italia si fermava al suo passaggio, quando il ciclismo era Pantani. E quando le sue imprese riportavano quello sport meraviglioso e ancora incredibilmente amato ai momenti leggendari dell’epoca di Fausto Coppi.

Ma c’era di più, perché a un certo punto, in trasmissione, cominciammo a parlare dei misteri della notte di San Valentino.

De Rensis, che in quel momento non voleva e non poteva svelare tutti i particolari della sua indagine e dell’esposto che stava preparando, si limitò a lanciare i primi dubbi.

Illustrò alcune incongruenze dell’indagine: i pesanti interrogativi sul terribile macello che regnava nella stanza di Pantani e la facilità con cui gli investigatori erano arrivati alla conclusione che nessuno fosse entrato in quella camera.

Con calma e grande chiarezza, De Rensis mise in luce la presenza in quel residence di Rimini di altri due ingressi, oltre a quello principale, che non si potevano controllare. E descrisse poi con grande precisione i segni sul corpo di Marco, che lasciavano intuire probabili percosse.

Con grande professionalità, toni pacati e argomentazioni inequivocabili, l’avvocato della famiglia Pantani cominciò a tracciare un quadro nuovo, inedito, di quel tragico 14 febbraio 2004.

La sua spiegazione era efficace, logica e senza sbavature.

Parlò della presenza di strani giubbotti e di come – contrariamente a ciò che pensava la polizia – fosse certo che, il giorno della morte di Marco, altre persone erano entrate in quella stanza.

Si trattava di un passaggio fondamentale, che cambiava molte cose.

Lo scenario tracciato da De Rensis conduceva nettamente verso l’ipotesi di omicidio.

Sapevo benissimo che l’avvocato aveva molte altre frecce al suo arco, ma capivo anche che in quel momento non voleva ancora affondare completamente il colpo e svelare tutte le delicate informazioni in suo possesso. Era già molto ciò che aveva raccontato fino a quel momento.

Fui tentato di sollecitarlo a esporsi un po’ di più, ma alla fine decisi di rispettare il suo piano.

Claudio Brachino dirigeva le operazioni dallo studio principale e il crescendo di emozioni che scaturivano da quella serata lo stavano coinvolgendo, proprio come ai tempi del suo famoso Top Secret.

Passammo dunque a esaminare i fatti di Madonna di Campiglio.

Nel giro di quindici minuti mandammo in onda una sequenza di servizi che fece vacillare le certezze sedimentate negli anni. Cominciammo dalla testimonianza shock del medico della Mercatone Uno, il dottor Rempi, che rivelava come Pantani avesse 48 di ematocrito la sera prima del controllo.

Poi seguì la rivelazione di Vallanzasca, l’intervista esclusiva di Gabriella Simoni che mostrava volto e parole del celebre ex bandito mentre affermava come in prigione gli avessero comunicato con una settimana d’anticipo che Pantani non sarebbe mai arrivato al traguardo di quel Giro d’Italia.

Per finire arrivò la lezione del professor Locatelli, che con calma e sicurezza illustrò il modo in cui era possibile alterare un test come quello di Madonna di Campiglio.

A tutto questo si aggiunse poi una schermata che mostrava chiaramente come le piastrine di Pantani quel giorno fossero le uniche misteriosamente crollate verso valori mai registrati prima. Era la prova evidente e devastante della manomissione del sangue? Quei quindici minuti e quella sequenza di testimonianze sembravano riscrivere completamente la storia di quel 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio.

Quei filmati, visti uno dopo l’altro in rapida successione, impressionarono tutti.

Osservare sullo schermo televisivo il dottor Locatelli che modificava con movimenti sicuri il risultato in quella fialetta di sangue fece letteralmente cadere le braccia al cameraman che si trovava di fronte a me nello studio di Cesenatico. Per un attimo le sue mani persero la presa dai bracci della telecamera e quasi cadde all’indietro per lo shock.

A essere sincero, nei giorni precedenti, mentre a Milano scrivevo e montavo quei servizi, ero stato assalito da mille dubbi: temevo che la complessità della materia potesse risultare indigesta al grande pubblico. Ma quando vidi in quel nostro piccolo studio tutte le persone con le mani nei capelli, la bocca spalancata, gli occhi sgranati e increduli, e con il cameraman che non riusciva più a rialzare le braccia, be’… allora realizzai che forse avevamo colpito nel segno.

Il messaggio era arrivato chiaro e potente a tutti.

Alla fine di quel servizio, la mamma di Marco non riuscì a trattenersi. Aveva appena osservato il medico mentre miscelava e poi alterava il risultato del test sul sangue. Lo stesso test che a Madonna di Campiglio quindici anni prima aveva inchiodato suo figlio.

A quel punto fece un balzo sul cuscino, vibrò un colpo secco sulla sedia e urlò in diretta: «Bastardi! Bastardi! Ecco come hanno fatto! Marco me l’aveva sempre detto, che a Campiglio lo avevano fregato, e aveva ragione. Aveva ragione!».

Alla fine della diretta rimanemmo molto tempo a parlare. Tonina era ancora scossa per tutto ciò che aveva visto. Avevamo discusso a lungo, per telefono, in quei giorni, e le avevo spiegato punto per punto tutto quello che stavo preparando. Inoltre proprio lei, con l’aiuto di Annalisa – una ragazza che spesso l’aiutava e l’accompagnava ovunque – con grande spirito di collaborazione mi aveva fornito molti dei documenti che mi avevano permesso di formulare e verificare le mie teorie.

Capivo però che assistere in diretta a quella sequenza di servizi, vedere formarsi davanti ai propri occhi lo schema di un sordido complotto ordito ai danni di suo figlio, era qualcosa di diverso rispetto alle mie spiegazioni, per quanto potessero essere attente e minuziose.

Quella notte, Tonina mi confidò che al ritorno dal Giro d’Italia del 1999 Marco aveva riempito le pareti della sua stanza a Cesenatico con molte scritte impresse di suo pugno.

La frase che suo figlio aveva vergato ripetutamente con l’inchiostro sui muri era questa: «A CAMPIGLIO MI HANNO FREGATO». Le pareti erano quasi completamente ricoperte da queste parole.

In tanti anni passati ad ascoltare storie e aneddoti su Pantani non ero mai venuto a conoscenza di questo particolare così intimo e doloroso. Realizzai così, una volta di più, il tormento che doveva aver accompagnato il Pirata in quelle giornate e nei mesi che erano seguiti.

Un uomo non può mentire a se stesso.

Quelle scritte le avrebbero viste solo lui e i suoi familiari.

Se arrivi a imprimere quell’urlo di dolore nella tua stanza da letto, vuol dire che sai di essere innocente. Vuol dire che ti senti umiliato e calpestato ingiustamente.

Qualche tempo dopo le pareti furono ridipinte e quelle scritte scomparvero per sempre.

Purtroppo la vernice non poteva cancellare ciò che ormai era fissato indelebilmente nell’anima di Marco.