La hall dell’hotel Leonardo Da Vinci a Cesenatico era piena di gente. C’era tutto l’universo Pantani raccolto in quella sala grandissima e piena di luci: vecchi compagni di squadra, amici di sempre, avversari e semplici curiosi venuti ad assaggiare l’atmosfera di quella serata dedicata a Marco.

A tanti anni di distanza e dopo tutte le celebrazioni del decimo anniversario, mamma Tonina aveva voluto organizzare un altro momento di ricordo attorno alla figura di suo figlio.

Rispetto al giorno prima la vedevo più tranquilla. Era stranamente serena, come se quella cerimonia e la percezione di tutto quell’affetto per suo figlio fossero riuscite a placare, almeno per qualche ora, il tormento perenne che l’accompagnava.

Improvvisamente fece la sua comparsa anche Jan Ullrich, avversario di Marco in tante battaglie. Fu un bel gesto. Un tributo di rispetto e ammirazione per il campione romagnolo che nel 1998 gli aveva inflitto una durissima lezione nella gara a lui più cara, il Tour de France.

C’era tutto, quella sera: commozione, affetto e – per quanto possa sembrare incredibile – anche allegria, nel pensare ai tanti momenti splendidi che il Pirata aveva regalato a tutte quelle persone e alla sua città, che ancora oggi lo ricorda con l’ammirazione e l’amore di sempre.

Ognuno in quella sala era un racconto, un aneddoto, una storia legata a Marco.

Le vite di tutti coloro che si trovavano lì si erano incrociate almeno una volta con quella del Panta, e per le ragioni più varie. Ma uno su tutti all’improvviso mi si presentò, quasi per caso, davanti agli occhi, attirando la mia attenzione.

Il suo sguardo mi riportò ai giorni belli delle corse, quando tutto andava bene, e quando lui, giovane corridore, si avvicinava al Pirata con timore e adorazione.

Era Stefano Garzelli.

Il tempo non aveva avuto grandi effetti su di lui e, nonostante i quarant’anni ormai raggiunti, la sua immagine e il suo volto erano rimasti intatti, proprio come la sua riconoscenza per quel campione che, con un colpo di genio e umiltà infinita, si era trasformato nel suo gregario, aprendogli la strada verso il successo al Giro d’Italia del 2000.

Garzelli non aveva mai dimenticato quei giorni, quegli anni di corse in bicicletta con la mitica Mercatone Uno, così come non poteva dimenticare il male che avevano fatto al suo Capitano (con la C maiuscola) di un tempo.

Non ricordo quale sia stato l’innesco, ma a un certo punto Garzelli cominciò a raccontarmi alcuni momenti di quella tragica mattina del Giro d’Italia 1999.

La mattina di Campiglio.

Forse qualcuno gli aveva parlato della nostra trasmissione andata in onda la sera prima su Italia Uno e delle nuove prove che avevamo mostrato. Ricordo solo che a un certo punto Stefano cominciò a ripercorrere quegli istanti che si erano stampati a fuoco nella sua memoria come se li stesse rivivendo in quel preciso momento.

D’impulso Garzelli cominciò col rivelarmi uno dei passaggi più intimi e segreti di quella giornata a Campiglio: il momento in cui Pantani, dopo lo shock del controllo andato male, si trovò faccia a faccia con i suoi compagni di squadra. Il momento del congedo, prima di abbandonare come un traditore quel Giro che fino a poche ore prima stava vincendo da eroe.

«Eravamo spaventati e persi» mi disse Garzelli. «Pantani per noi era tutto, e in pochi istanti ci trovavamo senza la nostra guida, il nostro Capitano, l’uomo dei nostri sogni. Eravamo sconvolti e disperati.»

Negli occhi di Stefano vidi trasparire evidente la sofferenza che gli costava riportare alla memoria quell’episodio.

Eravamo in mezzo a mille persone, eppure era come se attorno a noi si fosse formata una bolla trasparente e invisibile, che ci proteggeva e ci isolava da tutto il resto.

Garzelli si fece forza e proseguì senza più esitare: «Gli eventi di quella giornata erano stati come un uragano. Noi stavamo perdendo tutto e avevamo già deciso di ritirarci dal Giro d’Italia, perché senza Marco non avrebbe avuto senso continuare.

Poi Pantani ci chiamò tutti a raccolta. Non dimenticherò mai quel momento.

Eravamo riuniti in una stanza: io, Marco e gli altri compagni di squadra, qualche istante prima che lui andasse via per sempre da quel Giro. Un istante prima che tutto cambiasse. Per tutti.

Il Panta ci guardò dritto negli occhi, uno a uno, e noi non avevamo neanche il coraggio di incrociare il suo sguardo.

Poi, a un certo punto, Marco ci parlò.

“Ragazzi,” sussurrò con la voce rotta dal dolore “mi hanno inculato!”

Tirò un pugno contro il muro e andò ad affrontare il suo destino».

Garzelli tacque. Mi fissò per un attimo e poi, serissimo, concluse: «Ti dico solo una cosa, Davide. Un capitano non mente mai ai suoi compagni».