C’è una persona che più di ogni altra era in rapporto stretto con Pantani ai tempi di Campiglio: il suo massaggiatore Roberto Pregnolato.

Quell’uomo aveva un legame speciale con il campione romagnolo, facilitato anche dal suo carattere aperto, espansivo: era sempre allegro e pronto alla battuta.

Pregnolato era un personaggio molto particolare. A prima vista, con quei suoi lunghi capelli spesso ossigenati e con la faccia vissuta che raccontava avventure di ogni genere, poteva sembrare il chitarrista di un gruppo rock. Oppure un attore, di quelli adatti a ruoli maledetti.

Sta di fatto che Pregnolato avrebbe anche potuto essere il degno compagno di viaggio di quell’ideale nave pirata che era la squadra di Marco.

Tra loro due c’erano fiducia, confidenza, amicizia. Tutti lo sapevano e spesso i giornalisti andavano proprio da lui per avere informazioni fresche sul più grande scalatore del mondo.

Dopo la tragedia di Campiglio, con l’inizio della parabola discendente di Pantani, le loro strade si erano separate. Si diceva in giro che alcune confidenze emerse all’esterno della squadra arrivassero proprio da qualche soffiata di Pregnolato. Probabilmente non era vero, ma certo quel suo carattere così aperto e gioviale lo esponeva a quel tipo di sospetti.

Più volte era stato intervistato sul “giorno maledetto”, ma le sue dichiarazioni erano sempre risultate piuttosto evasive. Raccontava quel che già si sapeva, parlava senza aggiungere o svelare nulla di nuovo.

Eppure, se c’era al mondo una persona in grado di custodire il segreto più profondo su quanto era accaduto a Campiglio, questa era proprio Pregnolato.

Se c’era qualcuno che aveva visto e vissuto i drammatici accadimenti di quel giorno vicino a Pantani, questo qualcuno era proprio lui.

I tempi erano maturi perché la sua verità finalmente emergesse.

Lo incontrai quella stessa sera all’hotel Leonardo Da Vinci, mentre il ricevimento in onore di Marco era in pieno svolgimento. L’atmosfera era commossa, i ricordi dei vari ospiti si susseguivano con calore, sentimento, riconoscenza.

Fu a quel punto che vidi in un angolo l’uomo che con Pantani aveva condiviso, gomito a gomito, tutte quelle giornate gloriose. Non ci fu bisogno di tanto tempo o di tante parole. Gli chiesi solamente: «Roberto, hai voglia di raccontarmi cosa hai visto quel giorno? Ho già parlato con il dottor Rempi. Mi ha detto tutto di Pantani, del suo controllo la sera prima e di quel 48 di ematocrito. Il tempo dei segreti è finito!».

Con la sua voce rauca così caratteristica e l’espressione da rockstar, Pregnolato brontolò senza pensarci troppo: «Dai, prendi pure la telecamera, ti racconto tutta la verità su quello che è successo a Campiglio».

Quella che segue è la conversazione che ebbi con lui.

«La sera prima di Campiglio sei andato nella stanza di Marco: cosa è accaduto e cosa hai visto?»

Pregnolato: «Io nella stanza di Marco ci andavo mattina, sera e pomeriggio… Quella sera, come tutte le sere, si stava insieme, due chiacchiere, e poi sapevamo che il giorno dopo ci sarebbe stato il controllo, perché è normale, fisiologico. Marco quella sera ha fatto quello che doveva fare: tutto regolare, non c’era nessun problema. Non c’era il problema del giorno dopo… 52-53, non ricordo… Lui era su una media di 48, sereno, non c’era problema».

«Spiegati meglio, perché magari non tutti capiscono quando dici: “Ha fatto quello che doveva fare”. Cosa ha fatto? Si è controllato? E tu eri lì con lui?»

«Io ero lì di fianco a lui.»

«Come avveniva quel tipo di controllo e com’era questa famosa centrifuga, questa famosa macchinetta?»

«Era una macchinettina rettangolare bianca, praticamente una centrifuga: si chiamava così, o in gergo il suo nome era lavatrice. Mettevi una fialetta del tuo sangue e lei ti misurava l’ematocrito. Era una cosa semplicissima. Pantani, la sera di Campiglio, era molto sotto quello che poteva essere il limite.»

«Tu hai visto quando lui ha fatto il controllo, hai visto il valore che aveva?»

«Certamente che l’ho visto!»

«Che valore aveva?»

«Ti posso confermare che lui aveva 48 e qualcosa, 48.1… 48, insomma. Ti posso garantire che era così, questo lo garantisco, lo scrivo: è così!»

Pregnolato era molto serio e determinato, mentre pronunciava queste frasi. Bastava guardarlo in faccia per avvertire il dolore e la rabbia che ancora gli ribollivano dentro a distanza di anni. Aveva assistito inerme alla distruzione di un campione. Il senso di ingiustizia che provava non poteva essere placato da nulla, men che meno dalla spessa coltre di menzogne che negli anni si era accumulata su quella tragica storia.

Ma il suo racconto non era ancora finito.

La sua mente lo riportava vorticosamente indietro nel tempo, e lui non si opponeva, immergendosi in pieno, una volta ancora, tra le onde acide di quei ricordi dolorosi.

Con il viso contratto e la bocca che si piegava di lato per la tensione, riprese il suo racconto.

«C’è un altro aspetto strano di quella mattina. Nessuno poteva conoscere il numero di stanza di Pantani. Era un piccolo accorgimento che utilizzavamo per evitare le fastidiose incursioni dei tifosi. Solo io, il direttore sportivo e i compagni di squadra sapevamo come individuare il Panta. Eppure, stranamente, quella mattina mi ritrovai gli ispettori del controllo davanti alla stanza giusta. Quella di Pantani.»

A quel punto della conversazione, gli occhi di Pregnolato cominciarono a scandagliare il vuoto alla ricerca di un punto fermo, di un approdo, o forse soltanto di una spiegazione. Mentre il suo sguardo vorticava nervosamente, continuò con un altro episodio di quel Giro d’Italia.

«Ti ricordi quando abbiamo fatto tappa a Cesenatico? Ti ricordi che casino?»

«E certo che mi ricordo!»

«Eravamo a metà Giro e Marco era andato a dormire a casa sua. Apriti cielo! La mattina gli ispettori erano imbufaliti, manco avesse rapinato una banca! Forse il Panta ritardò qualche minuto, puoi immaginare… Eravamo nella sua città… Chissà quanta gente lo avrà fermato. Be’, fatto sta che il Panta arriva all’hotel della squadra. Saluta tutti con calma. Fa tranquillamente il suo controllo del sangue, come previsto, e se ne va a prepararsi per la tappa. Non fa in tempo a completare i suoi primi passi che uno degli ispettori del controllo gli urla secco in faccia: “Questo ritardo te lo faremo pagare”. Mi fece molta impressione perché non era una battuta scherzosa. Erano tutti maledettamente seri.»