«Per comprendere a fondo la dinamica di tutti gli avvenimenti di quel 14 febbraio 2004 a Rimini, devi vedere per intero il filmato girato dalla polizia nella stanza di Pantani: il video ufficiale dell’ispezione di quella notte al residence Le Rose.»
Con queste parole l’avvocato De Rensis mi invitava nel suo studio di Bologna.
Capivo dal tono della sua voce come quella richiesta rappresentasse in realtà un’apertura di credito e di fiducia importante nei miei confronti.
In precedenza avevo già visto parte di quel video, che era custodito nei nostri archivi di Mediaset. Alcune sequenze le avevamo anche mandate in onda, ma vedere l’intero filmato girato della polizia e avere accesso a tutte le immagini rappresentava qualcosa di completamente diverso. Mi avrebbe fornito una visione integrale della situazione e dell’accaduto. Alle ricostruzioni e alle teorie dell’avvocato De Rensis avrei potuto aggiungere le immagini di tutto ciò che era realmente avvenuto in quelle ore drammatiche.
Avrei potuto così arricchire di molti altri dettagli ciò che già sapevo e avevo visto fino a quel momento.
Il giorno dopo ero nello studio dell’avvocato De Rensis, alle porte di Bologna.
Era maggio, stava per iniziare il Giro d’Italia e di lì a poco anch’io sarei dovuto partire per seguire la corsa rosa.
Antonio si era trasferito da pochi giorni in quel palazzo e stava ultimando i lavori di ristrutturazione: i soffitti di legno bianco erano stati appena riverniciati e l’arredamento non era ancora completo. Nonostante ciò, l’ambiente appariva già accogliente: un’atmosfera moderna, senza gli eccessi e la pomposità di certi studi milanesi. Attorno a noi regnava uno stile sobrio che metteva a proprio agio e trasmetteva tranquillità. Bastava osservare Antonio anche solo un secondo per capire quanto fosse contento di quel suo nuovo luogo di lavoro.
Dopo un buon caffè preparato da Silvia, la sua compagna, ci sedemmo davanti allo schermo.
L’atmosfera mutò in un istante. Calò un silenzio carico di emozione e inquietudine.
Capivo benissimo che rivedere quelle immagini mi avrebbe provocato dolore, sapevo che avrei visto il cadavere di Marco e il solo pensiero mi metteva in agitazione.
Ma sentivo di essere obbligato a sottopormi a quella inevitabile tortura.
Dovevo farlo, se volevo scoprire la verità di quella notte.
Con noi c’era anche l’avvocato Emanuela Grandi, da anni preziosa collaboratrice di Antonio. Fu lei a preparare tutto con serietà e precisione, e poi a dare il via alla visione del filmato. Su tutto il girato era impresso l’orario, che scorreva sulla parte destra dello schermo, in basso, vicino alla data: 14 febbraio 2004. L’ora di inizio del video, se ben ricordo, segnava le 22.47, molto dopo l’arrivo della polizia sul luogo del ritrovamento.
Erano passati dieci anni da quella sera di San Valentino.
Attraverso quelle immagini stavamo entrando di nuovo nella stanza D5 del residence Le Rose.
La prima inquadratura mostrava il corridoio e la porta d’ingresso. La ripresa era instabile, ma si riusciva a scorgere abbastanza bene un particolare che mi lasciò di stucco.
Nel corso degli anni avevo sentito più volte parlare di Pantani “barricato” nella sua stanza. Avevo letto e ascoltato descrizioni di grossi mobili posizionati in modo da ostruire l’ingresso.
Bene.
Quello che vedevo ora di fronte all’entrata di quella porta era un semplice fornetto a microonde.
Non c’era nulla, né di pesante né di ingombrante, a sbarrare l’ingresso.
Solo un forno largo forse una quarantina di centimetri. Nel vederlo pensai che anche un ragazzino sarebbe stato capace di aprire quella porta senza troppa difficoltà. So che si sostiene che ci fosse anche il televisore lì davanti. Mi sembra che non sposti di molto la questione.
Se quella era la barricata che impediva l’ingresso nella stanza… cominciavamo bene!
Ma era solo il primo dettaglio di una lunga serie di immagini sorprendenti.
Dopo pochi minuti, infatti, ecco comparire diverse persone che giravano liberamente per la stanza: una in divisa che scendeva dal soppalco, le altre in borghese, senza alcuna protezione, né sui vestiti, né alle mani, né tantomeno sulle scarpe.
Quel che stavo guardando era quanto di più lontano ci potesse essere da ciò che ci si immagina comunemente in una situazione del genere. Lasciamo perdere le serie televisive di R.I.S. o di CSI, dove si vedono gli agenti completamente protetti da tute bianche per non contaminare la scena.
Ok, questa era la realtà, ma di tute bianche e di protezioni, in quella inquadratura, non c’era nemmeno l’ombra.
Agenti in borghese parlavano, si confrontavano e camminavano per la stanza lasciando le loro impronte in giro per l’appartamento.
La cosa mi stupì moltissimo.
Avevo sempre sentito parlare della necessità di filmare o fotografare l’ambiente senza interventi per così dire “esterni”, in modo da conservare la scena del crimine com’era esattamente al momento del ritrovamento del cadavere. Senza contaminazioni.
Be’, ciò che stavo vedendo erano almeno quattro persone presenti contemporaneamente in quel soggiorno, e una quinta sulle scale. E si trovavano in quel luogo già prima che l’operatore iniziasse le riprese.
Ero disorientato. Pensai che forse le indagini scientifiche e quelle tradizionali si stavano svolgendo contemporaneamente.
La scena seguente mostrava tutto lo stravolgimento nella disposizione degli oggetti e dei mobili: il tavolo rovesciato (stranamente incastrato tra due sedie rimaste in piedi. Sic!), i materassi in giro, le sedie, le scarpe, il televisore e il famoso fornetto a microonde, sempre posizionato davanti alla porta. Rivederlo mi provocava una sgradevole sensazione di farsa, di grottesco. Ripensavo di continuo alle tante ricostruzioni che raccontavano di un Pantani barricato in camera e dell’ingresso ostruito da mobili invalicabili.
Quante fesserie!
Il filmato proseguiva e io mi imponevo di digerirlo poco per volta, perché ogni fotogramma mi suscitava reazioni emotive piuttosto forti.
Una veloce panoramica del bagno mostrava il locale tutto sottosopra.
Poi la telecamera cominciò a salire i gradini verso il piano superiore…
Mi colpì un’immagine riflessa in uno specchio: era Marco, riverso a terra.
Il riflesso lo mostrava di spalle.
Vidi la sua testa, inconfondibile, e cominciai a scorgere il sangue.
Sentii come un pugno all’addome.
Lo specchio era in cima alle scale e, subito di fianco, ecco comparire dei giubbotti. Uno appeso al muro e altri due nell’armadio.
Ma se Marco era arrivato senza bagagli, chi aveva portato quei giubbotti?
Non ebbi neanche il tempo di riprendere fiato. Di nuovo davanti ai miei occhi c’era Marco.
Senza vita.
Mi sentii stringere il cuore da una morsa lancinante e insopportabile.
Quell’artiglio che conoscevo bene era tornato ad affondare nel mio petto.
Avrei voluto fermare tutto.
Avrei voluto chiudere gli occhi e volare via a migliaia di chilometri.
Quante volte mi ero raccontato che Marco non poteva essere morto, che probabilmente era andato ad allenarsi, come faceva spesso, e che lo avrei rivisto alla prima gara, alla prima occasione buona.
Era un piccolo trucco per ingannare il dolore, quel senso di sconfitta, quella malinconia infinita al pensiero che ormai non c’era più.
Ma quel trucco non poteva più funzionare davanti a ciò che stavo osservando.
Marco era lì.
Senza vita.
Di fronte ai miei occhi.
Era steso a terra, a faccia in giù, in mezzo a una pozza di sangue ormai secco che si allargava per almeno una cinquantina di centimetri davanti alla sua testa.
La sua posizione era strana: era sdraiato di fianco al letto, quasi infilato in uno spazio angusto, con il capo e il corpo nella direzione opposta rispetto al cuscino.
Le braccia erano rannicchiate sotto al torace e un lenzuolo era arrotolato intorno a una gamba.
Il medico legale lo osservò, lo toccò e provò a girarlo senza riuscirci, tanto che ci volle l’intervento di un agente per completare quel movimento e riportare Marco in posizione supina.
A faccia in su.
E fu in quel preciso istante che mi ritrovai a guardare il suo volto, ormai dipinto dal sangue e dai colori della morte.
Mi accasciai sulla sedia.
Le mani sulla testa, il cuore che mi scoppiava e le gambe che tremavano senza controllo.
Volevo piangere.
Volevo urlare.
Volevo scappare via.
Ma non riuscivo nemmeno a respirare dall’angoscia.
L’eroe di tante mie giornate, l’uomo dei sogni, era lì, indifeso e senza vita, in un fermo immagine infinito e crudele che arrestava il tempo.
Il medico di fronte a lui lo esaminava, gli tagliava i pantaloni con le forbici per poterlo vedere meglio e infine lo spogliava.
Marco era nudo, sporco di sangue e senza più anima.
Quelle immagini mi avevano scaraventato in pochi minuti in una realtà tremenda. Non era un film. Era ciò che realmente era accaduto quella notte. E quel corpo era quello di Marco.
Mi ha sempre fatto molta impressione osservare i cadaveri, e quello che stavo guardando in quel momento era ciò che restava di un mio amico, di una persona a cui avevo voluto bene.
Un uomo che in tempi non lontani aveva sfidato il mondo in sella alla sua bici e che ora giaceva solo, inanimato, in quella squallida stanza d’albergo, in mano a perfetti sconosciuti.
Nel vedermi in quelle condizioni, Antonio interruppe la riproduzione del video.
«Fermiamoci un attimo. Facciamo un pausa, beviamo un bicchiere d’acqua e poi magari riprendiamo.»
Dopo una decina di minuti decidemmo di riprendere la visione. De Rensis mi guardò dritto negli occhi e mi chiese: «Sei pronto?».
Sentivo che qualcosa di grave stava per accadere e che la sua voce cupa, il giorno prima, quando mi aveva chiamato per esortarmi a raggiungerlo nel suo studio, aveva una ragione precisa. C’era qualcosa di molto serio che non poteva comunicarmi al telefono.
E ora quel mio grave presentimento stava per ricevere conferma.
Antonio schiacciò il tasto start e fece ripartire il filmato.
Io stavo cercando di riprendermi, prima di tornare a osservare immagini che sapevo mi avrebbero tormentato per molto tempo.
Ciò che stavo per vedere e ascoltare era terribile!
La telecamera era ancora al piano di sopra, sul soppalco, e inquadrava il dottor Francesco Toni chino sul corpo di Marco e intento a esaminarlo.
All’improvviso si sentì un fracasso proveniente dal piano di sotto, dove poco prima si era visto un agente di polizia che armeggiava attorno a un tavolo.
Era il rumore inconfondibile di una cascata di posate che rovinavano sul pavimento. Un vero e proprio scroscio di metallo sonante che rimbombava nella stanza, durato diversi secondi.
Non era il tintinnio di due o tre forchette cadute, ma lo sconquasso improvviso di un cassetto intero che veniva rivoltato e svuotato per terra.
Stranamente, malgrado quel frastuono inatteso, il medico (inquadrato dalla telecamera) non fece una piega, come se nulla fosse accaduto; e la stessa reazione accompagnò anche l’altra persona vicino a lui, come se ad attraversare la stanza fosse stata l’eco di un semplice sussurro.
Il medico legale e un agente erano rimasti impassibili.
Incredibile!
Sul momento pensai a un incidente, a una manovra maldestra dell’agente di polizia, che aveva impugnato e tirato con troppa veemenza il cassetto.
Mi aspettavo quindi di ascoltare qualche imprecazione, un lamento, o magari una spiegazione; mi sembrava il minimo, in una situazione del genere!
Invece nulla. Il silenzio più totale. Ognuno continuava, imperterrito e noncurante, a fare quel che stava facendo prima.
Ma cosa stavo guardando? Che linee guida stavano seguendo quegli agenti di polizia?
Anche l’autore del filmato non aveva fatto una piega: nemmeno un sussulto, come invece era successo a me, che istintivamente ero sobbalzato sulla sedia nell’udire quello scroscio improvviso. Nessuna reazione. Men che meno la volontà o l’istinto di girarsi e registrare ciò che stava avvenendo a due passi da lui.
Eppure stava filmando un sopralluogo ufficiale, oltretutto in una situazione molto delicata, e sulla scena di un possibile omicidio.
Se c’era stato un piccolo incidente, forse era il caso di documentarlo.
Invece tutto continuò esattamente come prima. Come se niente fosse successo.
Come se tutto fosse assolutamente tranquillo e regolare.
Sconcertante!
Un fatto del genere, e nessuno si era stupito.
Chiesi all’avvocato De Rensis di tornare indietro, per farmi riascoltare quel suono. Per capire se per caso avessi sentito male io o se realmente il contenuto di un cassetto era stato rovesciato per terra durante l’ispezione.
Antonio riportò il filmato al punto iniziale, con calma e sicurezza, come se già avesse previsto la mia reazione e la conseguente richiesta; e la cascata di posate ricominciò a echeggiare, come qualche istante prima, nella stanza del residence e nelle nostre orecchie.
Ma cosa stavo guardando? Un sopralluogo o una perquisizione?
O tutte e due le cose contemporaneamente?
Come potevo dare una spiegazione a quella contaminazione della scena del crimine?
Le immagini ricominciarono a scorrere davanti a me assieme ai dubbi che vorticavano sempre più angosciosi e pressanti.
Vedevo Pantani steso a terra senza vita, in un lago di sangue ormai rappreso, nelle mani di un perfetto sconosciuto che frugava il suo corpo con la freddezza che solo chi sceglie quel mestiere impara a possedere.
Ma quel suono, quel maledetto suono che proveniva dal piano di sotto, cos’era?
E soprattutto perché nessuno degli investigatori si era mosso? Perché nessuno si era sentito in dovere di segnalare quell’anomalia? Di avvertire che c’era stato un incidente, un imprevisto?
Passarono pochi minuti e la spiegazione a quelle domande arrivò da sola.
L’operatore si girò e cominciò a inquadrare, come in soggettiva, la scala che portava al piano di sotto.
La telecamera metteva a fuoco i gradini, uno dopo l’altro, fino ad arrivare giù, al termine della rampa.
Il movimento era deciso, l’inquadratura sicura nello scandagliare il pavimento… E all’improvviso eccole lì, chiare, lucide, distinte, davanti ai miei occhi: le posate del cassetto che poco prima avevano generato quel frastuono erano tutte sparse per terra attorno a un tavolo.
Nessuno le aveva raccolte.
L’operatore continuò nel suo lavoro inquadrando quella massa di forchette, coltelli e cucchiai. Li filmò come se fossero parte integrante della scena del crimine. Come se Pantani, nel suo teorico delirio psicotico, avesse lanciato nella stanza il contenuto di quel cassetto insieme a tutto il resto.
Ma non era stato lui a farlo!
Era stato uno degli agenti incaricati del sopralluogo a rovesciare le posate per terra.
Magari per sbaglio.
Eppure l’operatore pareva non essersene accorto o non curarsene minimamente e restituiva le immagini di quelle posate che si aggiungevano al caos, già molto sospetto, di quella stanza.
Rimasi impietrito, senza parole.
Il disgusto per ciò che stavo vedendo mi fece venire un conato di vomito.
Lo trattenni, ma non riuscii a fare lo stesso con le lacrime, che mi colarono sulle guance.
Ma in che modo avevano condotto quelle indagini?
Avevo visto agenti delle forze dell’ordine girare liberamente per la stanza senza guanti e senza alcuna protezione sulle scarpe e sui vestiti, altri toccare o spostare oggetti a mani nude e poi li avevo addirittura sentiti svuotare per terra un cassetto!
Quella immortalata nel filmato non era solo un’evidente deviazione rispetto alla normale procedura che disciplina i sopralluoghi: rappresentava anche una palese contaminazione della scena del crimine.
Che fosse involontaria o frutto di poca professionalità, in quel preciso momento poco importava. Quello che importava era il fatto che ciò che avevo visto rivelava un’indagine, nella migliore delle ipotesi, deficitaria. Approssimativa.
La mia fiducia nell’operato di quella squadra di investigatori stava crollando. Mi voltai verso l’avvocato De Rensis in cerca di conforto.
Ci fu un lungo minuto di silenzio in cui nessuno riuscì ad aprir bocca.
Dopo la visione di quel filmato eravamo come inceneriti e senza energia.
Ero letteralmente scioccato dalle sequenze che avevo appena visto. Il tremolio alle gambe si stava lentamente attenuando, ma la fitta al petto non voleva saperne di andar via. E il dolore era amplificato dall’impatto emotivo di aver visto il corpo di Marco spostato e rigirato da mani estranee come fosse stato uno dei tanti oggetti fuori posto di quella stanza.
Anche se lo schermo del computer era ormai nero, quell’immagine continuava a rimanere fissa nei miei occhi e a provocarmi angoscia.
Ero stremato e mi sentivo avvolto tra le spire di una ragnatela sporca e appiccicosa.
Anche l’avvocato De Rensis, che conosceva a memoria ogni secondo di quel girato, era rimasto male nel vedermi soffrire così. L’avvocato Emanuela Grandi, con cui in quel momento non avevo ancora confidenza, osservava seria il suo tavolo evitando pietosamente di incrociare il suo sguardo con il mio, annegato tra le lacrime e perso nel vuoto.
Antonio fu il primo a rompere il silenzio: «Lo so che è stata dura per te guardare questo filmato. Ti ho visto. Ma era importante che ti rendessi conto di quello che è avvenuto in quella stanza durante il sopralluogo. Era importante che vedessi tutto. Perché questo filmato parla. Parla molto. E parla chiaro».