Era la primavera del 1998, l’anno d’oro di Pantani.

Le biciclette appoggiate ai muretti brillavano in quelle prime ore del mattino mentre Davide Cassani, sceso presto nella hall dell’hotel, controllava che tutto fosse a posto.

C’era un’atmosfera particolare, quel giorno. L’aria era fresca, elettrica, e i corridori, stretti nelle loro colorate tutine nuove, apparivano emozionati come se si dovesse partire per un Campionato del mondo.

Ci trovavamo a Cervia e i corridori, una cinquantina, erano semplici cicloamatori.

Ero stato coinvolto in quell’avventura da due cari amici: il primo era per l’appunto Davide Cassani, il secondo era Gigi Cifarelli.

Cifarelli: musicista e compositore straordinario nonché chitarrista inarrivabile, la cui vita era cadenzata da due grandi passioni. La musica e la bici. Non necessariamente in questo ordine.

Il “Cifa”, così lo chiamano i suoi amici, era il protagonista di tante gare amatoriali in bici, croce e delizia della sua vita sportiva. E ne vinceva parecchie. Non so quanti contratti strepitosi con gli artisti più conosciuti (e non solo in Italia) Gigi avesse rifiutato, nella sua carriera di musicista, pur di perseguire quella sua incredibile passione per il ciclismo.

Avevo commesso l’errore di confidare a Gigi che probabilmente Pantani avrebbe concesso un’ora del suo prezioso tempo per un’amichevole uscita in bicicletta con alcuni cicloamatori in Romagna. Cassani aveva creato una scuola di ciclismo e il Panta aveva promesso di farci un salto appena possibile.

A quella notizia, Cifarelli cominciò a martellarmi i timpani come Phil Collins durante un assolo di batteria: «Dobbiamo andare assolutamente! Ma ti rendi conto? Pedalare al fianco di Pantani! È il sogno di una vita! Il più grande scalatore del mondo… Davide, ti prego, andiamo».

Gigi era come un fratello per me e gli volevo troppo bene per non accontentarlo.

Così partimmo per Cervia.

Quella mattina, a sorpresa, anche Arrigo Sacchi si unì al nostro agguerrito gruppetto. Il richiamo di quella pedalata romagnola e del probabile arrivo di Pantani avevano incuriosito anche lui, da sempre grande appassionato di ciclismo e tifoso del Pirata.

Cassani diede il segnale e tutto il gruppo finalmente partì, con la speranza di incrociare lungo il cammino il grande Pantani.

La giornata era splendida e l’umore dei ciclisti si rifletteva nelle pedalate veloci che accompagnavano i primi chilometri di quel viaggio.

Poi successe.

Fu come un lampo. Come un miraggio che poco per volta cominciava prendere forma davanti ai nostri occhi.

Un’inconfondibile sagoma gialla si stava avvicinando a noi da lontano.

Alle mie spalle, un vociare incontrollato caricò di decibel l’atmosfera.

Quella pedalata unica al mondo si stava velocemente facendo incontro al nostro gruppo, che scalpitava emozionato.

Il sogno di tutti quei ciclisti stava per realizzarsi. Sembrava impossibile, eppure stava accadendo sul serio: Pantani stava arrivando!

E noi eravamo il suo traguardo!

Tutti i corridori del gruppo si fermarono e gli si fecero intorno con deferenza e ammirazione.

Con quel suo sorriso bello e spontaneo, con qualche battuta in romagnolo, il Panta stemperò in un attimo la tensione, annullò le distanze, creò subito un’atmosfera cordiale e gioiosa.

Non era una superstar che ci concedeva magnanimamente la sua prestigiosa presenza. Al contrario, ascoltava tutti con la sua sana allegria e con la voglia naturale di scambiare un sorriso, un abbraccio o una stretta di mano da ricordare per tutta la vita.

Il Cifa, quarantatré anni suonati (in tutti i sensi), era emozionato come un bambino che incontra finalmente il suo idolo. Se solo glielo avesse chiesto, avrebbe seguito Pantani anche sull’Everest.

Quindi il Panta si unì a noi. Diventò immediatamente e con semplicità uno del gruppo.

Con lui e Cassani alla guida di quel piccolo plotone colorato, riprendemmo la nostra corsa.

Eravamo in Romagna, ma per tutti era come essere sulle strade del Tour.

Quel giorno c’erano anche Siboni, Fontanelli e Conti, i compagni di squadra di Marco, a pedalare allegri prima di iniziare l’allenamento – quello vero – previsto per quel giorno.

Purtroppo la mia Pinarello azzurra era rimasta dal meccanico per un piccolo inconveniente e così per l’occasione avevo riesumato una vecchia Masi rossa. Un po’ datata forse, ma pur sempre carica di grande fascino. Il Panta se ne accorse subito e avvicinandosi mi disse: «Ehi… La pedalata mi sembra buona, ma i manettini del cambio sul telaio forse è il caso di toglierli! Se vieni più tardi da me te li sostituisco in un attimo, lo sai che sono un bravo meccanico. Ci montiamo sopra un paio delle mie leve sul manubrio e la aggiorniamo un po’… Che dici?» e giù una bella risata condita da una sana pacca sulla spalla.

Marco era allegro e quella sgambata gli faceva piacere.

Tutti cercavano di affiancarlo e lui aveva una risposta per ognuno: un consiglio, un aiuto, un racconto.

Dopo circa un’ora, la salita fece la sua inesorabile comparsa all’orizzonte.

Sarebbe stato bello arrivare su quella cima insieme a Pantani.

Ma era impossibile.

Capimmo tutti che la bella avventura, il sogno di pedalare al fianco di un grande campione, stava volgendo al termine. Noi dovevamo continuare il nostro giro, mentre Pantani iniziava l’allenamento serio. Ma ci sentivamo emozionati e orgogliosi per aver condiviso in bicicletta un tratto di strada con quel campione umile e meraviglioso. Mi girai verso il Cifa. Era raggiante.

Un attimo dopo, la strada cominciò a inclinarsi sotto le nostre ruote e la forza di gravità a farsi sentire.

Leggero come un soffio di vento, con quel suo stile unico al mondo, il Panta si alzò sui pedali.

Ci salutò e volò via, scomparendo veloce davanti ai nostri occhi.

Il talento puro che scorreva in lui disegnava la differenza tra il campione e i semplici mortali.

Su di lui la forza di gravità non aveva effetto.

Il Cifa, carico come una molla, si lanciò nella folle impresa di inseguire Pantani in salita. Schizzò fuori dal gruppo a tutta velocità con una di quelle azioni fulminee e potenti che di solito metteva in atto nelle sue garette amatoriali.

Cassani lo guardò sorridendo: «Ma dove va il Cifa? È matto?».

Lo ritrovammo poco più tardi, con la lingua di fuori, sul ciglio della strada.

«Ragazzi, scusate, non ce l’ho fatta a trattenermi. L’ho seguito per due tornanti e poi l’ho visto sparire davanti a me. Pedalava in un’altra dimensione. Volava. Sembrava galleggiare. Meraviglioso!»

Questo era Pantani.