Due uomini uniti da un unico scopo: la ricerca della verità.
Dalla volontà di riaprire un caso archiviato troppo in fretta, come fosse un suicidio, una morte accidentale.
Due uomini fermamente convinti che anche Madonna di Campiglio non avesse ancora svelato tutti i suoi misteri.
Un enigma da risolvere.
Un impegno da affrontare con tutta la forza che avevamo.
C’era forse un collegamento tra quei due luoghi?
C’era qualcosa che sfuggiva alla nostra comprensione?
Tanti dubbi uniti da un sentimento comune, da un dolore profondo: impossibile non sentire quella fitta nel pensare di averlo perso così. Senza la sua verità e senza una spiegazione certa della sua fine: in una stanza d’albergo che nasconde ancora oggi troppi punti di domanda senza risposta.
Lungo il cammino di questa nostra ricerca, durata più di un anno, Antonio e io abbiamo smesso di essere soltanto un giornalista e un avvocato.
Siamo diventati amici, confidenti. Siamo diventati una squadra.
Abbiamo imparato a fidarci l’uno dell’altro, a stimarci, a sostenerci vicendevolmente.
Sempre e comunque.
I momenti di gioia, i periodi di tensione e le situazioni di stress profondo hanno scandito i capitoli di un intero anno di lavoro vissuto e affrontato insieme.
E vi assicuro che di giorni difficili ce ne sono stati tanti.
Antonio non ha mai conosciuto personalmente Pantani.
Da avvocato esperto ha affrontato subito, con grande coraggio e spirito di sacrificio, il compito affidatogli da Tonina; ma negli anni magici delle vittorie al Giro e al Tour il Pirata era per il giovane avvocato De Rensis solo un personaggio famoso da seguire alla tv.
Ciò che Antonio sapeva di Marco lo aveva letto sui giornali o appreso dalle cronache televisive del tempo, e così nei nostri incontri non perdevo mai l’occasione per parlargli del Panta: riversavo continuamente su di lui i fiumi di affetto, amicizia e ammirazione che provavo per Marco. Era il modo più semplice e diretto per fargli conoscere, attraverso le mie parole e i miei ricordi, la persona dolce e generosa che si celava dietro il mito del grande campione.
Volevo che Antonio sapesse chi era l’uomo che lui adesso stava difendendo.
Il Pirata non c’era più, eppure giorno dopo giorno ci accompagnava in quell’avventura.
Dopo quasi dodici mesi di racconti, sono sicuro che Antonio sentisse ormai dentro di sé il ricordo vivo di Pantani, proprio come se lo avesse conosciuto anche lui personalmente.
Antonio è una persona molto particolare e c’è un aspetto di lui che mi ha sempre colpito: ha una tale passione per il proprio lavoro che a volte si trasforma.
È veramente una cosa incredibile! Tu gli parli di Pantani, di un particolare che magari non hai colto chiaramente, di un risvolto che vuoi approfondire, e lui all’improvviso assume un’altra espressione, si infervora e all’istante cambiano anche i tratti del suo volto.
I lineamenti mutano come se diventasse un altro.
Il suo sorriso, sempre spontaneo e pacioso, d’un tratto scompare per lasciare il posto a uno sguardo serio, tagliente e concentrato, come quello di un centometrista ai blocchi di partenza prima di una gara olimpica… O di un avvocato prima della sua arringa più importante.
Concentrazione e passione insieme.
Fame di verità e ardore.
Antonio è così.
Con il passare del tempo le nostre telefonate sono diventate un appuntamento quotidiano.
La fiducia è cresciuta, come la forza del nostro rapporto che giorno dopo giorno si faceva più forte e solido. Certo, non sono mancati gli attriti, le divergenze, le discussioni. Anche molto accese!
A ogni passo in avanti nella nostra ricerca ognuno di noi voleva rivelare un pezzo della verità. Spesso era un’esigenza difficile da rimandare.
Non sempre però i nostri tempi collimavano. I ritmi processuali e quelli giornalistici viaggiano a velocità diverse: a volte ciò che vorrebbe fare uno rischia di rovinare il lavoro dell’altro, perciò è indispensabile confrontarsi, in modo anche tempestoso.
I nostri caratteri sono forti, la dialettica di sicuro non manca: ovvio che ne scaturissero veri e propri incontri e scontri, risolti solo dopo ore interminabili di telefonate infuocate.
Ma la fiducia reciproca ci è sempre venuta in soccorso e ci ha sempre aiutato a prendere la decisione più giusta.
Tra noi non c’era mai un vincitore o uno sconfitto, perché la nostra strada e le nostre battaglie erano le stesse.
In un anno di lavoro insieme ci siamo ritrovati uniti. Siamo diventati consapevoli che non ci stavamo occupando solo dello “stesso caso”.
L’impatto e la violenza delle nostre scoperte poco per volta ci hanno travolti.
Ho sentito Antonio piangere, disperarsi, avere paura e soffrire.
Nessuno può immaginare veramente cosa si nasconda tra le pieghe di un lavoro difficile come il suo. Come il nostro.
Antonio si era buttato anima e corpo in quell’indagine così intricata, controversa e cattiva. E io con lui.
Passione e ossessione.
Ragione e anima.
Un anno di ricerche, di rivelazioni sconcertanti che di colpo aprivano orizzonti inattesi, mostravano concatenazioni di fatti, come le tessere di un domino che si abbattono una dopo l’altra in un crescendo continuo di curve, tornanti, salite e colpi di scena.
A volte ci sembrava di entrare in un vicolo cieco e buio che poi inaspettatamente si apriva, si illuminava. Ed entrambi coltivavamo la certezza che ognuna di quelle tessere abbattute fosse una piccola ma preziosa spinta in avanti sulla strada della verità.