Dubbi e perplessità continuavano a rimbalzarmi in testa e per quanto mi sforzassi di fermarli non c’era modo di placare quel loro vorticare ossessivo.

La settimana che mi ero lasciato alle spalle era stata impegnativa e piena di colpi di scena; in pochi giorni erano emerse con forza dirompente molte novità inattese: i particolari del lavandino misterioso, dell’orologio di Marco bloccato a un orario sospetto, delle posate rovesciate sul pavimento e della perlustrazione che aveva lasciato più dubbi che certezze. Infine l’esplosione del “caso Campiglio”, con la riapertura delle indagini, aveva aggiunto ulteriore risonanza a una vicenda già clamorosa.

Ero letteralmente stremato.

Nel mio computer in redazione erano archiviati ormai una trentina di pezzi diversi, realizzati in pochi giorni per tutti i nostri telegiornali e programmi di informazione.

Il mio ginocchio destro urlava chiedendo pietà, costretto a sopportare il peso e i sobbalzi del mio corpo dopo un incidente che mi aveva lacerato il legamento crociato anteriore.

Me l’ero rotto qualche giorno prima con una caduta che aveva prodotto quel suono inconfondibile che chiunque ci sia passato conosce bene. Quello schiocco che non ti lascia scampo e ti comunica che una parte del tuo corpo si è rotta. Crack!

Ma non avevo il tempo di fermarmi. Semplicemente non potevo.

Non ora.

Dovevo restare al mio posto, continuare a fare il mio lavoro e raccontare tutto ciò che stava accadendo. Come nel 1999 a Campiglio.

Lo dovevo a Marco e a me stesso.

L’avventura iniziata un anno prima con la promessa a Tonina era arrivata a un punto cruciale.

Non avrei ascoltato il dolore, ma solo la mia voglia di verità.

Non avevo alcuna tesi precostituita, nessun colpevole da accusare per forza. Avevo solo il desiderio di capire cosa fosse realmente accaduto. La voglia irrefrenabile di dare una risposta ai tanti, troppi perché ancora sospesi sulla storia di Pantani.

Avevo continuato a seguire gli indizi che mi indicavano la strada e, tappa dopo tappa, tante cose erano successe attorno a me. Tante tessere prima disperse nel convulso caos delle troppe menzogne stavano finalmente andando al loro posto.

Quel giorno Tonina venne a Milano. Io la aspettavo davanti ai nostri studi.

La situazione era la stessa di un anno prima: c’era un programma televisivo che la ospitava, l’avvocato De Rensis vicino a lei, e io che avevo preparato tutto affinché lei non subisse contraccolpi o sorprese sgradite. Volevo che fosse tranquilla.

Ci abbracciammo come sempre. Lei era sorridente e cercava di nascondere l’inevitabile tensione che la pervadeva.

Antonio, stremato anche lui da quelle giornate infernali, si mostrava più disinvolto, ma le occhiaie denunciavano le tante notti insonni e i ritmi terrificanti a cui si era sottoposto.

Era passato poco più di un anno dal nostro primo incontro in quegli stessi studi. Quante cose erano accadute da quel giorno! Dodici mesi e una storia completamente riscritta: quella di Marco.

Quando avevamo cominciato, sembrava un’utopia pensare a una riapertura delle indagini sulla tragica morte di Pantani, e invece la procura di Rimini aveva deciso di compiere quel passo. Il lavoro dell’avvocato De Rensis e del professor Avato era stato determinante.

Poco dopo, anche il procuratore capo di Forlì aveva seguito lo stesso percorso: “caso Campiglio” riaperto, con un’indagine giornalistica che aveva aiutato gli inquirenti nel loro percorso. Un’indagine giornalistica che si era trasformata in un’inchiesta giudiziaria.

Ero stanco, ma sentivo che la mia promessa era stata mantenuta. Avevo giurato a una mamma che aveva perso un figlio che l’avrei aiutata a scoprire la verità, che avrei utilizzato ogni goccia di energia per restituire dignità al suo ragazzo, scomparso in un modo così assurdo e privato della sua vittoria più bella: il Giro d’Italia.

Quel 5 giugno 1999 aveva fatto deragliare per sempre la vita di Pantani. Senza quel giorno non ci sarebbe mai stata la drammatica notte di San Valentino. Quel cambio di corsia aveva segnato per sempre l’esistenza di un uomo.

E mi tornava alla mente la sua richiesta d’aiuto di quell’ultima mattina: “Chiamate i carabinieri!”.

Ma nessuno l’aveva fatto.

Nessuno li aveva chiamati.

Erano le 10.30, quando Pantani aveva chiesto aiuto. C’era tutto il tempo per salvarlo… Sarebbe bastato comporre quel semplice 112 sulla tastiera: i carabinieri sarebbero arrivati in pochi minuti e avrebbero cambiato completamente la parabola degli eventi.

Così come a Campiglio erano stati loro a scortarlo su quella scala, quel giorno di San Valentino a Rimini avrebbero potuto cambiare il suo destino. Avrebbero salvato Pantani.

Con quei pensieri in testa, accompagnai Tonina al suo posto nello studio: una bella poltrona bianca tutta per lei. Non potevo restituirle suo figlio, ma potevo farle sentire quanto affetto sincero ancora ci fosse per lui.

Antonio e io eravamo lì, avevamo lavorato insieme su due indagini importanti che improvvisamente si riaprivano nelle mani dei magistrati: la morte di Marco a Rimini e lo strano caso dell’ematocrito impazzito di Madonna di Campiglio.

Noi avevamo fatto il nostro lavoro, adesso toccava di nuovo alla magistratura dare un senso a tutte le prove che avevamo trovato.

Ci sarebbero state altre perizie, altre novità, altri retroscena, ma il fatto più importante era che in quei dodici mesi eravamo riusciti a convincere due procure a riaprire delle indagini già chiuse, sepolte sotto troppi elementi senza risposte.

Se due procuratori della Repubblica, in due città diverse, avevano preso questa decisione, voleva dire che probabilmente, tra i tanti, inevitabili, errori che potevamo aver commesso, qualcosa di buono forse c’era.

Mentre ragionavo così tra me e me guardavo Tonina seduta sulla poltrona bianca, in mezzo al pubblico, in attesa della sigla iniziale del programma: Domenica Live su Canale 5.

Le avevo detto che proprio in apertura ci sarebbe stato un bel servizio dedicato a suo figlio, uno di quelli scritti col cuore e con le parole che probabilmente avrebbe voluto pronunciare lei.

La colonna sonora di quel pezzo era un brano meraviglioso, E mi alzo sui pedali, cantato dagli Stadio e composto proprio per Marco.

Quelle note malinconiche accompagnavano le vittorie del Pirata mentre la mia voce, che spesso si sgranava per l’emozione, cominciava a raccontare le imprese del campione.

Le immagini ci riportavano indietro nel tempo, e tutte le persone in studio guardavano all’insù, con gli occhi fissi verso gli schermi.

Era come una magia pensare di vederlo lì, una volta ancora, insieme a noi. E almeno per due minuti volevo ingannare il mondo e me stesso. Volevo pensare a Marco come se fosse stato ancora vivo, sulla sua bici. Mai nessuno mi aveva regalato emozioni così intense e mai nessuno, dopo di lui, ci è più riuscito.

Quando il servizio terminò, improvvisamente tutto il pubblico all’unisono si alzò in piedi per rendergli omaggio. Un applauso fortissimo, struggente e interminabile cominciò a risuonare nello studio.

Quella musica, quelle parole, quelle immagini erano entrate nel cuore di tutti.

Nessuno voleva più sedersi.

Nessuno voleva più smettere di applaudire.

Quel momento prolungava la gioia dell’illusione di pensare che Marco fosse veramente ancora una volta lì con noi.

Tonina mi guardò. Adesso anche tutte quelle persone attorno a lei avevano capito chi fosse Marco Pantani.

Uscii dallo studio per non farle vedere come l’emozione stesse travolgendo anche me. E in un attimo ricomparvero davanti ai miei occhi le frasi che Marco aveva scritto sul suo passaporto…

«Sono stato umiliato per nulla… Quando la mia vita sportiva, soprattutto privata, è stata violata, ho perso molto… Il più difficile è di aver dato il cuore per uno sport, con incidenti e infortuni: e sempre sono ripartito.

[…]

Questo documento è verità, la mia speranza è che un uomo vero o una donna legga e si ponga in difesa di chi, come si deve dire al mondo, regole per sportivi uguali per tutti. E non sono un falso, mi sento ferito e tutti i ragazzi che mi credevano devono parlare.

Ciao, Marco.»

Mi sembrava di sentire la voce di Marco nel ripensare a quelle frasi, di scorgere il suo sguardo, come se fosse di nuovo qui, come se fosse tornato. Istintivamente cominciai a parlargli come se in qualche modo, da qualche parte, potesse ancora ascoltarmi.