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Ci vollero varie telefonate per scoprire il nome del segretario di MacAuley, e venne fuori che in realtà era una lei, la signorina Grant. Era sorprendente che un uomo del livello di MacAuley avesse una donna come segretaria, ma i tempi stavano cambiando. Anche in Inghilterra tante donne avevano cominciato a occupare i posti degli uomini che erano stati mandati in trincea, e da quando era finita la guerra non sembrava che avessero fretta di tornare in cucina. Per me andava benissimo. Chiunque abbia passato del tempo in un ospedale da campo, con le cure delle infermiere, sarà felice di dirvi che una maggiore presenza femminile in un posto di lavoro è un’ottima cosa.

Avevo appuntamento con la signorina Grant al Writers’ Building alle quattro del pomeriggio. Era una camminata di cinque minuti, così ci andai a piedi, e fu un errore. Anche a quell’ora il caldo era piombo fuso sulle mie spalle, e arrivai in Dalhousie Square sudato come un cavallo. Se Calcutta aveva un cuore, si trattava di Dalhousie. Come Trafalgar a Londra, era una piazza troppo grande per essere elegante. Nessuno spazio pubblico ha bisogno di essere enorme. Al centro c’era una grande piscina rettangolare con acqua del colore delle foglie del banano. Digby mi aveva detto che in passato i nativi la usavano per lavarsi, per nuotare e per riti religiosi. Ma dopo l’ammutinamento del ’57 cose del genere non erano più tollerate. Ora la piscina era deserta e l’acqua verde bottiglia scintillava nel sole pomeridiano. I nativi, almeno quelli approvati da noi, camminavano a testa bassa verso riunioni e appuntamenti, in redingote, camicie abbottonate e colletti inamidati. Intorno alla piscina c’era una ringhiera in ferro e cartelli in inglese e in bengalese li avvertivano delle multe in cui sarebbero incorsi se avessero deciso di cedere ai loro bassi istinti e farsi un tuffo.

Ai lati della piazza sorgevano i palazzi chiave dell’amministrazione britannica: l’ufficio postale, quello del telefono e il massiccio Writers’ Building. Le vite di oltre cento milioni di indiani, dal Bihar fino al confine birmano, erano amministrate da lì, quindi sembrava logico che si trattasse dell’edificio più grande forse di tutto l’impero. Ma la parola grande non gli rendeva giustizia. Forse era meglio dire grandioso. Il suo scopo era impressionare chiunque lo vedesse, ma soprattutto i nativi. Ed era formidabile. Alto quattro piani, era lungo circa duecento metri, con plinti massicci ed enormi colonne sormontate da statue di dei. Non dei indiani, ovviamente, ma greci o forse romani, non ho mai capito la differenza.

Era una caratteristica di Calcutta: tutto ciò che avevamo costruito lì era in stile classico e più grande del necessario. Era come se i nostri uffici, le nostre ville e monumenti, gridassero: “Guardate cosa siamo capaci di fare! Siamo i veri eredi di Roma!”.

Era l’architettura dei dominatori, e sembrava un po’ assurda. I palazzi palladiani, con colonne e frontoni, le statue di uomini in toga morti da secoli, le iscrizioni latine ovunque, persino nei bagni pubblici... uno straniero avrebbe pensato che Calcutta fosse stata colonizzata dagli italiani, non dagli inglesi.

La piazza vibrava di attività. Tram e autobus vomitavano un flusso continuo di impiegati bianchi e nativi, in giacca e cravatta malgrado il caldo, che si univano alla folla di gente che entrava e usciva da sotto l’ampio portico del Writers’.

All’accettazione chiesi della signorina Grant e l’impiegato cercò il nome su un elenco. Poi suonò un campanello d’ottone che si trovava sul bancone di marmo. Apparve un fattorino in turbante e l’impiegato lo apostrofò in quel tono brusco che i burocrati di basso livello tendono a usare con i sottoposti. Il fattorino sorrise ossequioso e mi fece segno di seguirlo. Attraversammo l’atrio fino a un ascensore con la scritta RISERVATO. Aprì il cancelletto in ferro e mi fece entrare. Non c’erano bottoni. Estrasse una chiave di tasca, la inserì in una fessura d’ottone e la girò. L’ascensore partì con un sussulto. Sorrise. «Ascensore espresso, sahib

Con un altro sussulto, ci fermammo al quarto piano. L’indiano mi guidò lungo un corridoio rivestito di pannelli in quercia, con una moquette azzurra abbastanza folta da soffocare un cagnolino. Si fermò davanti a una delle molte porte identiche e senza numeri e sorrise. Da dentro proveniva il ticchettare di una macchina da scrivere. Lo ringraziai e lui unì i palmi nel gesto indiano del pranaam, poi si ritirò lungo il corridoio.

Bussai ed entrai. Una giovane donna era seduta a una scrivania troppo piccola per la macchina da scrivere, il telefono e le pile di documenti che ospitava. La donna continuò a scrivere, come se non avesse notato il mio ingresso.

«Signorina Grant?»

Alzò gli occhi un po’ arrossati e mi guardò, sconcertata.

«Sono il capitano Wyndham.»

«Capitano» disse, scostando dal viso una ciocca di capelli castani. «Prego, si accomodi.»

Si alzò in piedi e rovesciò una pila di carte sul pavimento.

«Mi scusi» disse, chinandosi a raccoglierle. Cercai di non guardarle le gambe, ma non ci riuscii, perché erano proprio un bel paio di gambe. Lei se ne accorse, e per nascondere il mio imbarazzo mi inginocchiai, raccolsi alcuni fogli che erano atterrati vicino ai miei piedi e glieli passai. Le sue dita sfiorarono le mie e sentii l’aroma del suo profumo. Aromi di terra, più che floreali. Mi ringraziò con un sorriso. Un bel sorriso. La cosa più gradevole che avevo visto dal mio arrivo a Calcutta. I bottoni slacciati del colletto rivelavano una pelle liscia e abbronzata. Troppo abbronzata per un’inglese, troppo poco per un’indiana.

Immaginai che fosse angloindiana. Da qualche parte, tra i suoi antenati, doveva esserci sangue nativo. Era abbastanza per condannare quelli come lei a vivere in uno strano limbo, in cui non erano pienamente accettati dagli indiani, ma neppure dagli inglesi.

«La prego, si accomodi» disse, indicandomi una sedia. «Desidera qualcosa da bere? Magari una tazza di tè?»

Chiesi solo dell’acqua.

«Sul serio, capitano? Sa cosa dicono dell’acqua di qui. Non preferisce un gin tonic? È più sicuro.»

L’idea di un gin tonic con lei non era niente male, anche se eravamo in un ufficio per parlare dell’omicidio del suo datore di lavoro. Ma ero in servizio.

«Va bene l’acqua, grazie.»

Su una credenza c’erano una caraffa e alcune bottiglie. Lei riempì due bicchieri e me ne porse uno.

«Ho sentito la notizia in mattinata» disse, bevendo un sorso. «Un’amica nell’ufficio del vicegovernatore mi ha chiamata, dicendo che era stato trovato il corpo senza vita di MacAuley. È la verità?»

«Temo proprio di sì.»

Le salirono le lacrime agli occhi. Non volevo che piangesse, perché non so mai cosa dire nei momenti in cui le donne cedono all’emozione. Alla fine feci quello che faccio sempre in queste situazioni e le offrii una sigaretta, che accettò. Ne presi una anche per me e le accesi entrambe.

Aspirò una profonda boccata e si ricompose. «Come posso esserle d’aiuto?»

«Ho bisogno di farle alcune domande, signorina Grant.»

Lei annuì. «Mi chiami Annie.»

Il nome le stava bene.

«Cominci parlandomi un po’ di MacAuley. Da quanto tempo lo conosceva, qual era il suo ruolo qui, chi erano i suoi amici, quel tipo di cose.»

Lei ci pensò su, inalando un’altra boccata di fumo e facendo brillare la brace della sigaretta. Poi esalò, nervosa.

«Il signor MacAuley era il capo del dipartimento finanziario dell’Indian Civil Service in Bengala. Ma era anche qualcosa di più: faceva parte del circolo interno del vicegovernatore, lo consigliava sulle politiche da adottare. Poteva essere impegnato in molte cose diverse, da negoziare i salari per gli impiegati delle poste a fare in modo che i treni arrivassero in orario.» Recitò quel discorsetto come se lo avesse imparato a memoria.

«Lavoravo per lui da tre anni» proseguì. «Da quando il suo segretario precedente era morto in guerra verso la fine del ’16, in un deserto vicino a Baghdad.» Aspirò un’altra boccata. «Dicono che MacAuley fosse a Calcutta da più di un quarto di secolo. Era una presenza fissa a quasi tutte le serate del Bengal Club.» Guardò alle mie spalle, come parlando al muro. «Non aveva molti amici. Non era il tipo da coltivare amicizie.»

Lo capivo. Anch’io avevo pochi amici vivi.

«E che tipo era?»

«Per lui esistevi in base a ciò che potevi dargli. Se eri ricco, ti affascinava per farsi dare tutto ciò che voleva. Ai poveri non rivolgeva nemmeno la parola.» Fece una breve risata. «Il sistema comunque funzionava, visto che era in stretto contatto con uomini molto influenti.»

«Per esempio?»

«Be’, il vicegovernatore, naturalmente, ma quello era un rapporto di lavoro, non di amicizia. In nessun modo il vicegovernatore del Bengala, secondo solo al viceré delle Indie, socializzerebbe con un tipo come MacAuley, per quanto gli fosse utile.»

«Utile in che modo?»

Lei mi guardò come se considerasse stupida la domanda, o forse chi l’aveva posta. «MacAuley era il faccendiere del vicegovernatore, capitano. Proveniva dalle classi basse ed era in grado di risolvere i problemi in modo rapido e senza chiasso, senza preoccuparsi troppo di chi poteva farsi male. Una persona così può essere molto utile a un politico.»

Non dissi nulla, nella speranza che aggiungesse qualcosa. Spesso la gente parla solo per riempire un vuoto. Ma lei non era il tipo. Lasciò estendersi il silenzio nell’aria.

«A chi altri era vicino, MacAuley?»

«James Buchan» rispose, come se il nome dovesse dirmi qualcosa. Notò la mia espressione e sorrise. «Lei dev’essere a Calcutta da poco, capitano. Il signor Buchan è uno dei vostri principi mercanti, uno degli uomini più ricchi di Calcutta. È un barone della iuta, scozzese come MacAuley. La sua famiglia commercia in iuta e gomma da più di un secolo, dai tempi della Compagnia delle Indie Orientali. Nella madrepatria avevano fabbriche tessili. Se scende al fiume, probabilmente vedrà delle chiatte con sopra scritto BUCHAN WORKS-DUNDEE. In passato spedivano la iuta a Calcutta dal Bengala orientale, poi da qui in Scozia. E realizzavano di tutto, da corde a teloni di copertura per carri o camion. L’idea geniale di Buchan è stata quella di spostare qui la produzione. Tutte le cose che faceva in Scozia ora le produce qui a un costo molto inferiore. Dicono che abbia triplicato i profitti di colpo. Ormai è multimilionario. Possiede alcune fabbriche a una quindicina di chilometri da qui, lungo il fiume, in un posto che si chiama Serampore. E ha una villa grande come il palazzo di un maharaja.»

«Lei ci è stata?»

Annuì. «Praticamente quella città la governa lui.»

«E come fa?»

«Con il denaro si può tutto, capitano. Buchan ha in tasca tutti i funzionari locali, e probabilmente anche la polizia. Non so come sia in Inghilterra, ma qui con il giusto prezzo puoi comprare chiunque. Quasi tutti, a Serampore, devono a lui la loro posizione, in un modo o nell’altro. Per gestire le sue attività ha spostato lì anche diverse centinaia dei suoi uomini dalla Scozia. Ormai la città è nota come Dundee sull’Hooghly. Faccia una passeggiata lungo Chowringhee una domenica pomeriggio, capitano. Tra le persone che incontrerà, una ogni due sarà un impiegato di Buchan che è venuto in gita nella grande città. A casa loro erano operai o poco più, qui hanno dei servitori e si danno arie da lord.»

«Chowringhee? La strada di fronte al parco?»

«Capitano, ma quando è arrivato?» mi stuzzicò. «Chowringhee è la nostra Piccadilly. È dove vanno le persone importanti per farsi vedere.» Fece un momento di pausa. «Mi piacerebbe mostrargliela, un giorno di questi.»

La prospettiva di andare in un posto qualsiasi con lei mi sembrò bellissima. Ma mi rimproverai subito quel pensiero. Ero ancora in lutto. Eppure, in Inghilterra non avevo mai incontrato una ragazza così diretta. Era anche vero che la signorina Grant non era inglese.

Mi sforzai di concentrarmi. «Che rapporto aveva Buchan con MacAuley?»

«Il signor MacAuley ripeteva sempre di essere l’unico di cui Buchan si fidava. C’entrava il fatto che erano della stessa città. Buchan non ha mai avuto problemi a socializzare con lui. Spesso si ubriacavano insieme. Dopo una serata con lui, MacAuley arrivava in ufficio alle dieci o alle undici del mattino. Quell’uomo sa come organizzare un party.»

«Quindi erano molto amici?»

Lei ci pensò un attimo. «Non ne sono sicura, capitano. MacAuley di sicuro aveva con lui un rapporto più stretto che con il vicegovernatore, ma Buchan non l’ha mai trattato come un suo pari. Avevo l’impressione che MacAuley fosse il suo uomo di fiducia. Gli sistemava le cose: un permesso qui, un cambio al regolamento lì... Buchan doveva ricompensarlo in modo generoso, ma ovviamente non ne ho alcuna prova.»

«Altre persone che MacAuley considerava amici?»

«Non mi sembra. Come ho detto, non era molto popolare. Tuttavia... c’era quel predicatore. Dunne, o Gunn, qualcosa del genere. MacAuley non è mai stato troppo religioso, ma circa sei mesi fa ha conosciuto quell’uomo, credo fosse a Calcutta da poco. Un tipo comune: appena sbarcato, era venuto per salvare le povere anime brune dai fuochi dell’inferno... Fanatici» disse, con disgusto. «In ogni modo, credo gestisca un orfanotrofio.» Schiacciò la sigaretta in un portacenere di stagno sulla scrivania. «MacAuley ogni tanto andava a dargli una mano, cosa che ha sorpreso parecchie persone qui, me compresa. Poi, due mesi fa, ha addirittura cominciato ad andare in chiesa. E a parlare sempre più spesso di peccato e redenzione. Sembrava cambiato, una persona diversa. È buffo» disse, con un leggero sorriso. «Un uomo passa la vita a fare porcherie, poi trova Dio giusto prima di morire. Tabula rasa, tutti i peccati perdonati. È giustizia questa, capitano?»

Avrei potuto ribattere che si poteva vedere una certa giustizia nel fatto che fosse stato trovato accoltellato a morte in un vicolo, ma mi limitai a farle delle altre domande.

«Aveva dei nemici? Qualcuno che avrebbe tratto beneficio dalla sua morte?»

Lei fece una breve risata. «La metà delle persone dentro questo palazzo lo odiavano, ma non ce li vedo a ucciderlo. A parte questo, deve esserci un mucchio di gente che ha rovinato per fare gli interessi dei suoi benefattori, ma non so chi siano.»

«E gli indiani? Aveva nemici tra loro?»

«Direi proprio di sì. Diversi proprietari terrieri nativi e agenti della iuta sono finiti in bancarotta a causa di ciò che ha fatto MacAuley in nome di Buchan. Per non parlare di quelli che sono stati colpiti dalla partizione del Bengala operata da Lord Curzon. Sul documento c’era il nome di Curzon, ma era stato MacAuley a scrivere i rapporti e a raccomandare quel corso d’azione. È successo quindici anni fa, ma molti bengalesi non hanno dimenticato. E neppure perdonato.»

Poteva essere un movente valido? All’epoca avevo letto sui giornali delle proteste a Calcutta dopo l’annuncio della partizione. Il viceré a quei tempi era Lord Curzon, il quale aveva preso la decisione di dividere in due la presidenza del Bengala, giustificandola con il fatto che si trattava di un territorio troppo grande per essere governato in modo efficace. In questo c’era una parte di verità: la provincia era più grande della Francia e aveva quasi il doppio della popolazione, ma i nativi lo avevano visto come un’applicazione del divide et impera. E avevano reagito con furia. Ma perché qualcuno avrebbe dovuto aspettare quindici anni, prima di vendicarsi? I nostri cugini orientali avevano la memoria lunga, o così si diceva, ma se davvero uno di loro avesse atteso tanto tempo per la sua vendetta, mi sarei aspettato qualcosa di più elaborato di un accoltellamento in un vicolo.

La mia mente divagava. Ormai riconoscevo i segni. Tra poche ore sarebbero iniziati i sudori freddi. Dovevo concentrarmi.

«MacAuley aveva amicizie femminili?» chiesi. «Magari una compagna?»

«Non che io sappia. Non era un uomo attraente.»

Quello era vero. Soprattutto con gli occhi beccati dai corvi.

«A quanto dicono tutti, era uno scapolo convinto» proseguì lei. «E con me non ha mai parlato di nessuna compagna. Mi sono occupata della sua agenda per tre anni e non ricordo neppure una volta in cui mi abbia chiesto di riservare un tavolo per una cena o di acquistare fiori per qualcuno.»

Le mostrai la foto che avevo trovato nel portafogli di MacAuley. «Riconosce questa donna?»

Lei scosse la testa. «Non mi sembra. È importante?»

«Non lo so ancora. Potrebbe esserlo. MacAuley aveva qualche appuntamento, ieri?»

Aprì un cassetto della scrivania, estrasse una grossa agenda dai bordi dorati e si mise a sfogliarla.

«Alle dieci del mattino con il vicegovernatore. Ultimamente si vedevano spesso. È sempre così, in questo periodo dell’anno. Ci sono tante cose da organizzare, prima della partenza del vicegovernatore per il Darjeeling, con tutto il suo seguito. Più tardi ha pranzato al Great Eastern con Sir Godfrey Soames della Landowners’ Association, l’organizzazione dei proprietari terrieri. È tornato qui verso le quattro, piuttosto alterato, ed è andato via poco dopo. Immagino sia andato a casa a dormire per farsi passare la sbornia. In serata» continuò a leggere «doveva essere al Bengal Club alle nove. Una delle festicciole del signor Buchan, credo.»

«Queste feste si tengono spesso?»

«Sì» disse lei, riprendendo in mano la matita dalla scrivania. «Una volta o due al mese. Credo abbia a che fare con il clima e con il temperamento scozzese. Appena il termometro tocca i trenta gradi, vanno fuori di testa, si mettono a bere e fanno un pandemonio.»

Non mi sembrava una brutta vita. Il fatto che la sera prima MacAuley fosse andato a un party di Buchan spiegava il modo in cui era vestito, ma non cosa ci faceva nella Città Nera, a chilometri di distanza dal Bengal Club.

«Ha qualche idea sul motivo della sua presenza a Cossipore, ieri notte?»

La segretaria scosse la testa. «Nessuna idea, mi dispiace. Posso dirle solo che non si sarebbe mai avventurato in un quartiere di nativi senza un motivo valido. L’unico posto che visitava in quelle zone era l’orfanotrofio di quel predicatore, ma si trova a Dum Dum, non a Cossipore.»

«Dum Dum?» Il nome mi ricordava qualcosa.

«È un quartiere periferico vicino al nuovo aerodromo, a una quindicina di chilometri da qui. C’è una fabbrica di munizioni, dove fanno le pallottole dumdum. Immagino che ne abbia sentito parlare.»

«Certo» risposi, ricordando una dimostrazione a cui avevo assistito al poligono di Scotland Yard. I dumdum erano tra i primi proiettili al mondo a punta morbida, progettati per espandersi in un torso umano in modo da provocare il massimo danno possibile. In pratica, più che colpire il bersaglio, lo cancellavano. Prima della guerra, noi li usavamo spesso per spegnere i tumulti tribali in Africa. Poi erano stati banditi da una convenzione internazionale, una cosa che alcuni tra i nostri generali avevano trovato sconveniente.

«In ogni modo» riprese Annie Grant «non aveva nessun motivo per recarsi all’orfanotrofio ieri notte.»

E anche se l’avesse avuto, pensai, non ci sarebbe andato incravattato e in abito da sera.

«Cosa aveva in agenda per oggi?»

«Un incontro a quattr’occhi con il vicegovernatore alle nove, per parlare delle previsioni di spesa per i prossimi mesi. A pranzo doveva vedere il direttore di una banca locale. Nient’altro.»

«Quando non si è presentato all’incontro delle nove, qualcuno dall’ufficio del vicegovernatore ha chiamato per chiedere dove fosse?»

Lei ci pensò un attimo, poi scosse la testa. «No. Sono qui dalle otto e la prima telefonata dall’ufficio del vicegovernatore è stata quella della mia amica verso le undici, quando ho saputo che MacAuley era morto.»

«Per caso sa dirmi se MacAuley aveva a che fare con i servizi segreti militari?»

Lei spalancò gli occhi. «Non che io sappia, capitano. Se aveva dei rapporti con loro li teneva nascosti.»

Avevo terminato le domande utili. Pensai di farne alcune inutili, ma con una bella donna è sempre meglio non esagerare. Più le ronzi intorno, più le tue intenzioni diventano trasparenti. La ringraziai della collaborazione e mi alzai in piedi. Lei mi accompagnò alla porta.

«Capitano» disse. «Se posso essere d’aiuto in qualche modo, me lo faccia sapere.»

La ringraziai, gettai un’altra occhiata furtiva a quelle gambe lisce e abbronzate, poi dissi senza riflettere: «Se l’offerta di mostrarmi Chowringhee è ancora valida, mi piacerebbe approfittarne».

Sorrise. «Ma certo, capitano. Molto volentieri.»

Sui gradini dell’edificio mi accesi una sigaretta e guardai in lontananza. Il sole a ovest era diventato un disco rosso e la temperatura stava scendendo. Il che non significava che facesse fresco, solo meno caldo. L’opinione comune era che il tramonto fosse il momento migliore della giornata, da quelle parti. Ma non durava a lungo. Ai tropici la notte cade come una pietra. Dalla luce piena al buio in meno di un’ora.

Uno stormo di uccelli atterrò sulla vasca al centro della piazza. Attraversai, mi appoggiai alla ringhiera fissando l’acqua e mi misi a riflettere su ciò che avevo saputo dalla bella signorina Grant. Alexander MacAuley era uno scozzese di qualche posto vicino a Dundee, residente in India da venticinque anni, con pochi amici e niente famiglia. Faccendiere per conto di uomini potenti, doveva essersi fatto molti nemici. Un uomo duro, considerato un bastardo dalla sua stessa segretaria. Poi all’improvviso trova Dio e in pochi mesi diventa una persona diversa.

Comunque, riguardo a chi poteva volerlo morto, ne sapevo quanto prima. Gettai nell’acqua il mozzicone della sigaretta, che si spense con un sibilo. Avevo scoperto il legame tra MacAuley e Buchan e il motivo per cui era morto in frac, ma a parte questo non avevo fatto altri progressi. O meglio, avevo conosciuto Annie Grant. In un certo senso era il progresso più grande da quando avevo lasciato Londra.

Si stavano accendendo i lampioni, con una luce prima arancione, poi di un bianco brillante. Gli uffici del governo e dei mercanti stavano chiudendo. Dagli edifici uscivano gruppi di burocrati e boxwallah. M’incamminai verso Lal Bazar lungo marciapiedi affollati d’impiegati, che si spingevano nella mezza luce nel tentativo di assicurarsi un posto sui tram che li avrebbero riportati a casa.

A Lal Bazar le luci erano accese, e strisce di luce gialla filtravano dalle persiane chiuse. Sulla scrivania trovai un biglietto di Surrender-not. Telefonai alla fossa e chiesi al sergente di turno di mandarmi Banerjee. Pochi minuti dopo lui bussò alla porta, entrò, fece il saluto e scattò sull’attenti, come un soldatino di piombo a grandezza naturale.

«Questa non è una parata» dissi.

«Signore?»

«Riposo, sergente. Non c’è bisogno di fare il saluto ogni volta che entri in questo ufficio.»

Aggrottò la fronte. «No, signore. Mi scusi. Vorrei aggiornarla sulla situazione. Ho mandato un piantone all’obitorio, come mi aveva ordinato. Il corpo è accessibile solo alle persone autorizzate.»

«Bene. L’autopsia?»

«Sarà domani pomeriggio. C’è un solo patologo e sembra che abbia cadaveri in lista d’attesa da settimane. Ma gli ho fatto capire l’urgenza e la delicatezza del caso e ho richiesto con fermezza che gli desse la priorità. Non è stato molto contento, ma alla fine ha acconsentito a fare un’eccezione ed effettuerà l’autopsia domani.»

«Devi essere stato molto convincente.»

«Ho fatto diverse volte il nome del capo della polizia. È possibile che sia servito.»

«Certamente» dissi, impressionato. «Dimenticavo che voi due ora vi chiamate per nome. C’è altro?»

«L’ha cercata il viceispettore Digby, signore. L’ho informato che lei era al Writers’ per parlare con la segretaria di MacAuley, e ha risposto che avrebbe atteso domani.»

«Sai cosa voleva?»

«Credo che abbia una pista.»

Fu un piccolo shock. Quando un collega trovava una pista, io tendevo ad avere una reazione ambivalente: l’eccitazione per un possibile progresso, macchiata dal risentimento per non essere stato io a trovarla. Dipendeva dalla mia naturale competitività. E anche da una certa insicurezza.

«Se si tratta di una pista, avrebbe dovuto aspettarmi e spiegarmi tutto stasera stessa, o almeno lasciarmi un messaggio. Dov’è ora?»

Il sergente fece spallucce. «Non lo so, signore.»

«Va bene. Parlerò con lui domattina presto. Surrender-not, domani abbiamo tutta una lista di cose da fare. Voglio fare una chiacchierata con James Buchan. Vedi se riesci a scoprire dov’è e ad avere un appuntamento. Voglio parlare anche con i servitori e i colleghi di MacAuley. Trovami nomi e indirizzi. Come ultima cosa, rintraccia un pastore cristiano. Si chiama Gunn o Dunne o qualcosa di simile. Gestisce un orfanotrofio su a Dum Dum.»

Banerjee estrasse taccuino e matita dal taschino sul petto e prese appunti. «Signorsì» disse. «Me ne occupo immediatamente.»

Era un’altra serata afosa. L’umidità era così forte che l’aria stessa sembrava bagnata. Ciò nonostante, decisi di farmi a piedi un chilometro e mezzo fino al mio alloggio, piuttosto che prendere un risciò. Non ero contrario ai risciò, anche se a Calcutta c’erano solo quelli trainati da un uomo a piedi. Per me non era un problema, non vedevo nulla di disonorevole nel trainare un risciò. Ogni lavoro è onorevole, se permette a un uomo di portare il pane a casa. Mi avviai a piedi perché, come può confermare ogni poliziotto di pattuglia, l’unico modo di conoscere davvero una città è percorrerne a piedi ogni singolo metro quadrato.

Scelsi un itinerario tortuoso. Prima lungo Bow Bazaar, poi a sinistra su College Street, una strada con centinaia di minuscole librerie. Superai i portici bianchi del Medical College Hospital e risalii verso Machua Bazaar Street. Quelli erano i luoghi dell’università di Calcutta. Un cartello all’esterno proclamava: FONDATA NEL 1857. LA PIÙ ANTICA UNIVERSITÀ DELL’ASIA. Probabilmente era vero, se non contavi le università indiane, alcune delle quali risalivano a qualche migliaio di anni prima.

Il Royal Belvedere era una pensione in Marcus Square, che aveva l’atmosfera di una pensione marina inglese. Le usanze di Bournemouth esportate nel calore del Bengala. Malgrado il nome non era un posto da re, ma era pulita e comoda per raggiungere l’ufficio. E soprattutto era economica. Uno dei tuttofare di Lord Taggart aveva affittato una stanza per me per un mese. Speravo fosse un tempo sufficiente per trovare una sistemazione più stabile.

La padrona era la signora Tebbit, una nave da guerra. Lei e il marito, un colonnello in pensione dell’esercito delle Indie, gestivano la pensione con disciplina militare. La colazione era servita tra le sei e trenta e le sette. Il cibo faceva sembrare le razioni dell’esercito una cena al Savoy Grill e pesava sullo stomaco come un sacco di pietre. Il portone era sprangato alle dieci di sera precise. Tuttavia, a causa del mio passato in guerra e della mia posizione nella polizia imperiale, a me era stato concesso l’onore di avere una chiave.

Salii subito nella mia stanza, che era piccola e spartana, come una cella monacale ma senza la vicinanza a Dio. Letto, armadio, lavandino in un angolo, sedia e scrivania. Una stampa di una scena bucolica inglese appesa al muro, e una finestra con vista sulla casa accanto. I miei effetti personali erano di poco ingombro, ed entravano tutti nel baule Pukka che Sarah aveva acquistato per me da Harrods prima che partissi per la Francia. Era un baule grande e pieno di compartimenti per tutto ciò di cui un uomo poteva aver bisogno, in un viaggio oltremare. Ed era anche robusto. Se fosse stato colpito da una cannonata dei crucchi, i vestiti all’interno non si sarebbero neppure sgualciti.

Sganciai cintura e fondina, appendendole allo schienale della sedia, e andai al lavandino. Aprii il rubinetto e mi sciacquai la faccia con l’acqua tiepida.

Mi tolsi anche la divisa e mi stesi sul letto a pancia in su. Mi tremavano le mani. La crisi d’astinenza si stava facendo più forte, e non mi restava molto tempo, al massimo qualche ora. Mi voltai a faccia in giù, con le mani sotto il cuscino, e mi chiesi, non per la prima volta, che diavolo ci facevo lì.

Nulla, a parte forse la guerra, può prepararti a Calcutta. Non gli orrori raccontati dagli inglesi di ritorno dall’India, i cosiddetti India-man, nelle sale piene di fumo di Pall Mall. Non gli scritti di giornalisti e romanzieri, e neppure un viaggio per mare di cinquemila miglia con tappe ad Alessandria e Aden. Calcutta è più aliena di qualsiasi cosa la mente di un inglese possa immaginare. Lord Robert Clive, detto Clive d’India, l’aveva definita il posto più perfido dell’universo, e la sua era una delle definizioni più benevole.

Non si trattava solo del caldo o di quell’umidità assurda. Cominciavo a sospettare che c’entrasse la gente. Nell’inglese di Calcutta si trova un’arroganza speciale che è assente in altri avamposti dell’impero. Forse dipende dalla familiarità, dal fatto che gli inglesi dominano il Bengala da circa centocinquant’anni e tendono a considerare i nativi, specialmente i bengalesi, una razza inferiore. Il colonnello Tebbit ne aveva parlato a cena la sera prima: «Di tutte le razze dell’impero, i bengalesi sono i peggiori. Nessuna lealtà. Non come i guerrieri del Punjab, che corrono senza esitazione incontro alla morte, se il loro sahib glielo ordina. Il bengalese medio è un pesce molto diverso. Troppo intelligente per il suo stesso bene. Sempre intento a progettare, a complottare... e a parlare. Perché limitarsi a una parola quando si può usare un intero paragrafo? Questo è il modo del Bengala».

Sui punjabi aveva ragione. Erano davvero disposti a correre incontro alla morte per seguire un ordine. Li avevo visti con i miei occhi. Tuttavia, indipendentemente dal colore della pelle, era deprimente vedere degli uomini sacrificarsi per un capriccio dei loro superiori. Se i bengalesi non erano disposti al sacrificio, per me facevano bene. Inoltre, da poliziotto, mi piaceva l’idea di un popolo che preferiva parlare, invece che combattere.

In ogni modo, se il colonnello era degno di fede, il Raj doveva temere più dieci bengalesi con un torchio da stampa che dieci reggimenti armati di sikh e pathan. Io non sottovalutavo la capacità della parola scritta di infiammare le passioni. Avevo visto abbastanza propaganda ai miei tempi, e sapevo che funzionava. Ciò nonostante, il fatto che anche ora, in Inghilterra, i censori si facessero in quattro per bandire i libri della Fratellanza Feniana e mutilare i giornali, non mi piaceva. Ma l’India non era l’Irlanda, e forse qui dovevamo essere più duri. Dopotutto, il biglietto trovato in bocca a MacAuley era una metafora, per quanto poco sottile, del potere delle parole.

Il profumo del pesce fritto che saliva dalla sala da pranzo mi distrasse dai miei pensieri. Il mio orologio segnava le otto e venti. Pensai di saltare la cena, magari sostituendola con un paio di bicchieri di whisky. Sul pavimento accanto al letto c’era una bottiglia di Talisker ancora quasi piena. Ma il whisky mi rendeva sentimentale, e inoltre non c’era nessuna garanzia che mi sarei fermato dopo due bicchieri.

Perciò mi alzai, indossai una camicia, mi ricomposi e scesi a cena. Alcuni ospiti erano ancora seduti a tavola, con il colonnello a capotavola che teneva banco. Mi scusai per il ritardo.

«Non si preoccupi, capitano Wyndham» disse la signora Tebbit, alzandosi per servirmi. «E comunque è rimasto abbastanza per lei.» Le piaceva viziarmi. Dopotutto, non tutte le pensioni potevano vantare un ufficiale di polizia tra i residenti. Di solito era la classica processione di commessi viaggiatori e piccoli commercianti. Mi servì una porzione di pesce grigio con verdure ancora più grigie. La ringraziai e cercai di decidere come affrontare il piatto.

Di fronte a me sedeva un irlandese dai capelli rosso fiamma di nome Byrne, che avevo conosciuto la sera prima. Faceva il venditore per un’azienda tessile di Manchester e trascorreva la maggior parte del tempo viaggiando in tutto il paese per vendere la sua merce ai negozianti al dettaglio. Le due settimane a Calcutta per lui erano il clou dell’anno. Alla mia destra sedeva un uomo irritabile di nome Peters, un avvocato di Patna, che era in città per un caso presso l’alta corte. Tutti e due mi rivolsero un cenno di saluto e ripresero la conversazione interrotta.

«Dovrebbe davvero visitarle» disse Byrne, in tono energico. «Chilometri e chilometri di piantagioni di tè. Fin dove arriva l’occhio.» Si girò verso di me. «Capitano Wyndham, stavo giusto dicendo al signor Peters che questo venerdì parto per i giardini del tè in Assam. Sono piantagioni molto diverse da quelle che abbiamo in Darjeeling. Quelle dell’Assam sono in basso, sulle rive del Brahmaputra, non sopra le colline.» Si voltò verso Peters, che era occupato a nascondere un pezzo di pesce sotto alcune verdure. «E c’è un’altra cosa che la sorprenderà» sogghignò. «Il tempo!» Guardò l’orologio con gesto teatrale. «A Calcutta ora sono le otto e mezzo. E anche a Bombay, a Karachi, a Delhi. E anche nelle città dell’Assam. Ma non nelle piantagioni di tè. Nossignore! Sa che ora è, lì?»

Dalla faccia, a Peters non importava saperlo.

«Le nove e mezzo!» esclamò Byrne. «Proprio così. Un’ora più tardi che nel resto del paese! La chiamano “l’ora dei giardini”.»

«E come mai, signor Byrne?» chiese la signora Tebbit, alzandosi per mettere un altro pezzo di pesce nel piatto di Peters. Si considerava una padrona di casa impeccabile, alla pari con le migliori di Londra, e sentiva che era una sua responsabilità stimolare la discussione tra gli ospiti paganti.

«Ah, vede, signora Tebbit» replicò l’irlandese. «È una questione di luce solare. Come sa, i raccoglitori di tè sono nei campi dall’alba al tramonto. Ma l’Assam è così a est che il sole sorge alle quattro, quando a Calcutta è ancora buio, e tramonta verso le quattro e mezzo del pomeriggio. Ora, ai proprietari delle piantagioni questo non sta bene. Non vogliono che i loro operai si alzino in quello che ufficialmente è il cuore della notte. Perciò hanno messo gli orologi avanti di un’ora.»

La signora Tebbit si rivolse a me. «Cosa ne dice, capitano?»

Sinceramente, non poteva fregarmene di meno di che ora fosse in Assam, ma una risposta sincera come quella sarebbe stata considerata scortese. Così inghiottii il boccone e scelsi una risposta gradevole, di sicuro più gradevole del pesce che avevo nel piatto.

«Mi sembra una soluzione sensata.»

«Per niente!» sbottò il colonnello all’altro capo del tavolo. «Mio caro ragazzo, non è affatto sensata. È troppo tenera, ecco cos’è. Ai miei tempi, noi ci saremmo alzati alle tre del mattino senza pensarci due volte, se ci fosse stato ordinato. Il problema adesso è proprio questo: la mancanza di disciplina. Il paese sta andando in malora!»

A tavola calò il silenzio. Byrne e Peters annuirono, forse perché erano d’accordo, forse solo per far tacere quel vecchio brontolone. Mi sembrò una buona strategia.

Dopo cena, i Tebbit si ritirarono nelle loro stanze, mentre Byrne e Peters mi invitarono in salotto a fumare. Io declinai con una scusa. La verità è che dopo la guerra non sono di buona compagnia nemmeno quando sto bene, figuriamoci quando sono in astinenza da morfina. Salii in camera mia, chiusi la porta a chiave e accesi il ventilatore sul soffitto. Calciai via le scarpe e mi stesi sul letto con le mani intrecciate dietro la testa e gli occhi aperti a fissare i lenti giri del ventilatore. Il sonno era lontano dai miei pensieri. Era una notte opprimente ed ero tesissimo. Guardai l’orologio per la centesima volta. Mancava almeno un’ora al momento in cui tutti gli occupanti della casa sarebbero andati a letto.

Il tempo passava lentissimo. Corpo e mente urlavano il loro bisogno di una dose. Senza morfina avevo gli incubi, anzi l’incubo, sempre lo stesso. La trincea, sotto un infinito sbarramento di artiglieria. Le urla dei feriti. Un colpo d’obice mi cade vicinissimo e mi getta a terra. All’improvviso sono a pancia in su in fondo alla trincea e mi sento annegare, coperto da un’acqua nera e melmosa. Tento di risalire in superficie, di rimettermi in piedi, ma è impossibile. Il fango mi blocca e affondo sempre più, cerco di trovare un appiglio con le unghie, con i piedi, un punto solido, ma c’è solo fango putrido e scivoloso. Cominciano a mancarmi le forze. I polmoni stanno per esplodere. Sento la morte stringermi alla gola. So che morirò, annegato in quella melma infernale in fondo alla trincea. La visione si fa confusa, diventa tutto nero. Smetto di lottare. Sono rassegnato, o meglio, riconciliato. La morte sarà una liberazione. Non riesco più a trattenere il fiato, sto per aprire la bocca e farla finita, quando mani forti mi afferrano. Mi tirano su. Emergo in superficie, mezzo soffocato ma vivo. Le granate cadono tutto intorno. I miei salvatori mi appoggiano senza tante cerimonie contro la parete della trincea. Non riesco a vederli in faccia. Accanto a me c’è un cadavere con il volto coperto di terra. Con una stretta di paura, mi avvicino e con gesti disperati tolgo la terra dal viso. Sarah mi fissa con occhi freddi, spenti.