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L’odore di legna bruciata mi ricordava casa. Lo spesso fumo grigio che si solleva dai camini dei villaggi nelle serene notti invernali, ti riempie le narici, ti secca la gola e ti fa sentire il bisogno di un buon whisky per lavare via la fuliggine dal gargarozzo. Nella Città Nera, invece, nel calore della notte bengalese, l’odore non veniva dai camini, ma dalle centinaia di stufe sulle quali cucinavano i nativi.

La Città Nera sembrava rinascere, di sera. Proprio quando le strade della Città Bianca si svuotavano e i suoi abitanti andavano a chiudersi in casa o al club, gli abitanti della Città Nera uscivano e andavano ad affollare le bancarelle di tè sui marciapiedi, o si riunivano in veranda a fumare e a parlare di politica. Almeno, era ciò che facevano gli uomini.

Digby, Banerjee e io eravamo vestiti come nativi, in mufti e sandali, e camminavamo in silenzio in una stradina dietro il Bagbazar.

Ci eravamo visti prima a Lal Bazar, dove Banerjee mi aveva dato altre cattive notizie. Il manifesto di carico del treno postale dell’altra notte era scomparso. Una delle due copie era sul treno e probabilmente l’avevano presa i dacoit. L’altra doveva essere stata archiviata alla stazione di Sealdah ma nessuno era riuscito a trovarla. Gli avevano assicurato che a volte ci voleva qualche giorno prima che documenti di quel tipo venissero inseriti in archivio, e che il capostazione si sarebbe fatto in quattro per ritrovarlo.

Da Lal Bazar, Digby ci aveva condotti in macchina fino a Grey Street, a circa un chilometro di distanza. Non c’erano molte automobili in quella parte della città e proseguire oltre significava farsi notare troppo, perciò avevamo continuato a piedi lungo strade affollate e poco illuminate. Digby e io avevamo la testa coperta da rudimentali turbanti; per legarli ci aveva dato una mano un agente sikh a Lal Bazar, tra il divertimento dei colleghi. Sopra i turbanti avevamo dei mantelli con cappuccio. Il travestimento era necessario. La vista di due sahib a piedi nel Bagbazar a quell’ora di notte avrebbe attratto l’attenzione ancora più dell’automobile. Perciò ci spostavamo in modo furtivo, approfittando del favore del buio. O meglio, era ciò che facevamo Digby e io. Surrender-not, che non aveva bisogno di mascherare il suo aspetto, camminava tranquillo alcuni passi davanti a noi, controllando che la via fosse libera. Avrei giurato che provasse un piacere perverso a camminare in piena vista mentre i sahib inglesi erano costretti ad aggirarsi nell’ombra.

Svoltammo in un vicolo non molto diverso da quello in cui era stato trovato MacAuley. Alcuni cani randagi sonnecchiavano in mezzo alla strada. Uno di essi sbadigliò mentre Banerjee si sforzava di scavalcarli in silenzio. All’improvviso due biciclette svoltarono l’angolo ed entrarono nel vicolo. Distratto dai cani, Banerjee le notò troppo tardi e non ci avvertì in tempo. Digby si fece inquieto, vedendo avvicinarsi i due fanalini. Tra pochissimo ci sarebbero stati addosso.

«È vicina la casa sicura?»

«Troppo vicina per rischiare di essere visti. Dobbiamo annullare la missione.»

Era una possibilità di cui avevamo parlato in anticipo. Se fossimo stati visti e identificati come sahib nelle vicinanze della casa sicura, c’era il rischio che saltasse la copertura dell’informatore, un rischio che Digby non era disposto a correre. Era probabile che i due uomini ci sarebbero passati accanto senza prestarci attenzione, ma Digby aveva detto chiaramente che, per quanto riguardava i nativi, non si poteva mai presumere nulla né fidarsi di nessuno. Con l’aria che tirava, due inglesi nella parte sbagliata della città potevano rappresentare un obiettivo invitante per molte cose, dalla rapina al linciaggio. Perciò eravamo d’accordo che, se fossimo stati notati, saremmo tornati indietro. L’informatore sarebbe rimasto ad attenderci nella casa sicura per un’ora, poi sarebbe andato via. Quindi se avessimo annullato la missione ora, avremmo dovuto aspettare altre ventiquattr’ore, e io non avevo nessuna intenzione di sprecare un altro giorno. Mi guardai intorno in cerca di un riparo, ma non c’era nessun posto dove nascondersi.

Le biciclette erano quasi all’altezza di Banerjee. Appena prima che lo raggiungessero, lui ebbe un’idea: alzò un piede e pestò con forza la coda a un cane. L’animale lanciò un guaito di dolore e partì a razzo lungo il vicolo, finendo addosso a uno dei due ciclisti e facendolo volare a tre metri buoni dalla bicicletta. Gli altri cani, svegliati dai latrati del primo, corsero incontro ai ciclisti, circondandoli e abbaiando a tutto volume. Banerjee andò a dare una mano ai due poveretti, mentre Digby e io, approfittando del caos, passammo loro accanto senza farci notare. Ci fermammo poco più avanti ad aspettare il sergente. Digby si chinò, fingendo di allacciarsi un sandalo, io finsi di fare pipì in una fogna a cielo aperto. Finalmente Banerjee ci raggiunse, sogghignando.

«Ottima mossa, sergente» dissi.

«Grazie, signore. A volte stuzzicare il can che dorme è proprio la cosa giusta da fare.»

Pochi minuti dopo ci trovammo davanti a una casa fatiscente. Digby aprì in silenzio il lucchetto arrugginito che chiudeva le due ante del portone, ci fece entrare nell’interno buio e sprangò la porta con una sbarra di legno. Capii che conosceva il posto dalla rapidità con cui trovò la sbarra nell’oscurità. Prese una scatola di fiammiferi e ne accese uno. Dopo la fiammata, un bagliore fioco illuminò una stanza decrepita e piena di polvere, che puzzava di muffa. Digby non perse tempo e ci precedette verso il retro della casa, dove aprì un’altra porta, stavolta bloccata solo da un piccolo chiavistello. Dall’altro lato c’era un giardino chiuso, e lo attraversammo.

«Aspettate qui» disse, quando raggiungemmo il muro di cinta. Si allontanò un attimo, frugò tra le erbacce alte fino alla vita e tornò con una cassetta di legno. Ci salì sopra e scavalcò il muro, facendo cenno a noi due di seguirlo. Atterrammo in un altro giardino chiuso, in fondo al quale c’era una porta illuminata da una lampada antivento appesa a un chiodo. Digby andò a bussare. La porta si socchiuse di pochi centimetri e un occhio attento ci scrutò prima di aprirla di più, con un suono raschiante.

Il nostro contatto era un nativo di mezza età, un po’ calvo e con un paio d’occhi neri nella testa grassa, che sembravano macchie su una patata. Stava fumando un bidi, una foglia arrotolata con dentro del tabacco e legata da un nastrino. Il bidi era la sigaretta dei poveri.

«Siete in ritardo» borbottò. «Stavo per...»

Digby lo zittì con uno sguardo. «Abbiamo dovuto prendere delle precauzioni. O preferivi che arrivassimo seguiti da qualcuno del partito del congresso?»

L’uomo alzò le mani in un gesto di resa. «No, no. Certo che no!» Si passò una mano sulla testa, appiattendo ciocche di capelli neri sulla calvizie. «Da questa parte» disse, guidandoci giù da una rampa di scale in una cantina stretta che puzzava di canfora e sudore. Ci indicò delle stuoie di vimini intorno a un tavolino basso e da un mobiletto che aveva visto giorni migliori tirò fuori una bottiglia e alcuni bicchieri.

«Viceispettore, un bicchiere prima di parlare d’affari?»

«Va bene» disse Digby.

Lui riempì i bicchieri con un liquido marrone dorato.

«Cos’è?» chiesi.

«Arrak» rispose, con un sorriso. «Molto buon liquore, credi a me. Viene solo dal Sud.»

Digby fece un cenno d’assenso e bevve un sorso. Io seguii il suo esempio. Era roba forte. Abbastanza da bruciarmi i peli del petto, se ne avessi lasciato cadere un po’.

«Per me no» disse Banerjee.

«Tu non piace liquore forte?» chiese l’uomo. «Indiani tutti dovrebbero bere liquore. E mangiare carne. Carne rossa, di manzo. Gli inglesi tutti» indicò me e Digby «bevono liquore e mangiano carne, anche le memsahib. Ecco perché sono forti. Noi indiani siamo astemi e vegetariani. Ecco perché siamo soggiogati.»

«Basta così» lo bloccò Digby. «Cos’hai per noi, Vikram?»

L’indiano fece un sorriso astuto. «Questa faccenda MacAuley. Molto preoccupati gli inglesi. Giornali inglesi la chiamano “scandalosa calamità” e chiedono di catturare assassini e fare esempio di loro.»

Capii dove voleva andare a parare. Aveva informazioni che noi volevamo e stava manovrando per alzare il prezzo. In questo non c’era differenza tra Londra e Calcutta: un informatore ragionava sempre allo stesso modo, e la legge della domanda e dell’offerta era universale.

«Sahib e memsahib» continuò Vikram «sono invero in uno stato di panico.»

«Arriva al punto, Vikram» disse Digby.

«Si parla molto, dalle parti di Cossipore. Molte voci, molte ipotesi. Il viceispettore sa quanto a noi sciocchi indiani piace parlare. Voi inglesi fatto leggi per farci smettere di parlare, ma noi insistiamo. E tutti parlano con il wallah che vende il paan. Sento cose...»

Digby lo interruppe di nuovo. «Non mi interessano le chiacchiere, Vikram. Se sai qualcosa, parla, non farmi perdere tempo.»

Fece il gesto di alzarsi in piedi.

«Aspetta!» esclamò l’indiano. «Voi sa che ho buone fonti. Valore di mie informazioni è alto!»

Digby lo fissò negli occhi, e lentamente tornò a sedere. «Allora dimmi quello che hai in mano.»

L’indiano esitò, riflettendo sulla prossima mossa. Vendere informazioni è come vendere sesso: devi provocare il cliente. Dire abbastanza da fargli venire l’acquolina, ma lasciare abbastanza all’immaginazione da spingerlo a comprare la merce.

«Due notti prima, quando è stato il decesso del burra sahib, in casa di Cossipore è stata una riunione proibita. Farabutti hanno detto tante cose sediziose a un gruppo di locali. Parole di fuoco e idea di mandare un messaggio agli inglesi. Ho tutte le informazioni su questa riunione. Penso che lei interessa, viceispettore.»

«Hai anche dei nomi?» chiese Digby.

«Un nome in particolare è stato ripetuto a me diverse volte.»

Era il turno di Digby di riflettere sulla mossa seguente.

«Va bene. Ti darò il solito. Ora sentiamo.»

L’informatore fece una risatina servile. «Prego, viceispettore, con queste informazioni può mettere furfanti dietro sbarre. Indagine grossa come questa, burra sahib daranno a lei promozione. Credi a me» sfregò insieme pollice e indice «che questo vale extra.»

L’espressione noncurante di Digby fu abbastanza credibile, ma sapevamo tutti che era un bluff. «Va bene» disse alla fine. «Venti extra.»

«Cinquanta» ribatté l’indiano.

Digby sbuffò. «Trenta e non ne parliamo più. Prendere o lasciare.»

Con un sorriso viscido, Vikram mosse la testa in quello strano modo degli indiani, che non capisci mai se è un sì, un no, o un rimandare la decisione a più tardi.

Digby prese il portafogli, contò ottanta rupie e spinse le banconote sul tavolo. Erano poco più di cinque sterline, non era un prezzo basso, ma ancora conveniente se le informazioni fossero state davvero buone.

«Avanti, ora, sentiamo. Punto per punto.»

Prima di parlare, Vikram intascò i soldi e prese la bottiglia. Riempì di nuovo i bicchieri e bevve alla nostra salute.

«Quella riunione a Cossipore» disse «è in casa di un certo Amarnath Dutta, estremista convinto. Prima è editore di giornale bengalese “New Dawn”. Gli inglesi chiudono giornale, ma Dutta continua sua “lotta per la libertà”.» Fece un gesto con la mano. «Tutte sciocchezze, naturalmente. Ma alla riunione ci sono quindici uomini, abbastanza importanti: commercianti, ingegneri, avvocati. Dutta fa discorso, ma loro sono venuti per ascoltare un altro: Benoy Sen.»

«Sen?» disse Digby, improvvisamente animato. «È tornato a Calcutta, quindi?»

Vikram annuì, compiaciuto. «Oh, sì, credi a me! Sen fa discorso sul bisogno di azioni forti per reagire a aggressione inglese. Dice che bisogna mandare messaggio che gli inglesi non possono ignorare. Tutti sono molto contenti di sue parole infuocate! Poi Dutta dice a tutti di ascoltare appello di Sen alla lotta dura. Poi riunione finisce.»

«E cosa è successo dopo?» chiesi.

Vikram sorrise. «Questo è aspetto più intrigante, sahib ispettore! Quando il corpo viene trovato il giorno dopo, tutti dicono che deve essere stato Sen.»

«Perché non uno degli altri partecipanti alla riunione?» chiesi.

L’informatore scosse la testa. «Non è possibile, sahib. Questi uomini sono avvocati e contabili, quelli che voi inglesi chiamate “rivoluzionari da salotto”.»

«Cosa ne pensi?» chiesi a Digby.

«Sono d’accordo con Vikram» replicò. «Calcutta è piena di tipi così, abbaiano ma non mordono. La loro idea di azione dura è scrivere una lettera al viceré. Non avrebbero mai ucciso nessuno. No, deve essere stato Sen.» Si rivolse a Vikram. «Dov’è, ora?»

L’indiano fece una faccia desolata. «Purtroppo, sahib, questo io non so. Posso provare a scoprirlo, ma informazioni come queste costano. È più facile se ho in mano un anticipo per coprire spese.»

Digby mise sul tavolo un’altra banconota da dieci. Vikram sorrise e la intascò.

Uscimmo, scavalcammo di nuovo il muro e tornammo sui nostri passi fino all’automobile in Grey Street.

Era tardi, ma Digby faceva fatica a contenersi. Tutti sentivamo nell’aria la soluzione del caso, ma lui era il più eccitato. In un gesto di cordialità si offrì di accompagnarmi alla mia pensione, e fu persino così gentile da lasciare Banerjee a una fermata di risciò lungo la strada.

«Parlami di Benoy Sen» dissi, quando il sergente fu sceso.

«È il leader di fatto del Jugantor» rispose. «Uno degli innumerevoli gruppi rivoluzionari che vogliono scacciarci dall’India. Brutta gente, hanno assassinato parecchi poliziotti. Durante la guerra, avevano un piano per importare armi acquistate dai tedeschi, nel tentativo di scatenare un’insurrezione armata, appoggiata da un ammutinamento delle truppe indiane. Era un piano sofisticato e avrebbe provocato centinaia di morti, se la Sezione H non l’avesse scoperto. Quando sono arrivate le armi, noi eravamo lì ad attendere la nave e abbiamo colto di sorpresa i capi del Jugantor. Quasi tutti sono stati arrestati o uccisi mentre tentavano la fuga. Sen è l’unico che è riuscito a fuggire. Si è sparsa la voce che fosse andato a nascondersi da qualche parte tra le colline intorno a Chittagong. Se ha corso il rischio di tornare qui, significa che stanno progettando qualcosa di grosso.»

Quando Digby mi lasciò davanti al Belvedere, mi chiesi se non fossi stato ingiusto nei suoi confronti. Ero impressionato dall’aplomb che aveva mostrato con l’informatore. E per essere sinceri, ogni passo avanti che avevamo fatto nell’indagine era dovuto a lui: l’identificazione del cadavere, la tesi dell’omicidio politico e ora anche il nome del principale indiziato. Sotto la millanteria e gli atteggiamenti colonialisti, era un bravo poliziotto. Mi chiesi come mai fosse ancora soltanto viceispettore.

Le luci in salotto erano ancora accese. La cena era già finita da un paio d’ore ma sembrava che la signora Tebbit e alcuni ospiti fossero ancora in piedi. Immaginai che aspettassero me. Dovevano aver letto lo “Statesman” e volevano delle informazioni dall’interno. Chiusi la porta di strada senza far rumore e attraversai il corridoio in punta di piedi, sperando di arrivare non visto fino alla mia stanza, come un collegiale che tornava in camerata dopo l’ora consentita. Ero arrivato fino alle scale, quando si aprì la porta del salotto e sulla soglia si stagliò in controluce la sagoma inconfondibile della signora Tebbit. Anche soltanto l’ombra di quella donna era formidabile.

«Capitano Wyndham, è tornato!» strillò, come salutando il secondo avvento di Cristo. «Pensavo che avrebbe lavorato fino a tardi, e le ho tenuto da parte una cena fredda. Sarà affamato.»

«Molto gentile da parte sua, signora Tebbit,» risposi «ma sto bene così, grazie.»

«Oh, avanti, capitano, deve mantenersi in forze. Dipendiamo da lei per essere protetti da questi nativi efferati, in tempi così incerti.»

Lei mi sembrava perfettamente in grado di proteggersi da sola dai nativi, efferati o meno. Anzi, probabilmente erano più i nativi a doversi proteggere da lei. Comunque, a meno di voler essere scortese, capii che non potevo evitare né il cibo, né le domande. Quindi mi arresi. Almeno, ero addestrato a gestire le domande. Sorrisi, la seguii in sala da pranzo e mi sedetti a tavola, mentre lei mi versava un bicchiere di vino e portava un piatto di pasticcio freddo di carne e alcune fette di pane e burro. Era un piatto semplice, quindi forse c’erano meno possibilità che fosse mal cucinato. Mentre tagliavo il pasticcio, entrarono Byrne e Peters, con l’aria di volermi fare compagnia. La signora Tebbit versò anche a loro un bicchiere di vino ciascuno, prendendo per sé un bicchierino di sherry.

«Un fatto abominevole, questo di MacAuley» disse Peters, aprendo le danze.

«Spaventoso» gli fece eco la signora Tebbit. «Viene da chiedersi se siamo davvero al sicuro, nei nostri letti.»

Avrei potuto puntualizzare che MacAuley non era stato ucciso nel suo letto, ma ben lontano da casa, in un vicolo dietro un bordello. Sospettavo tuttavia che non fosse quello che volevano sentire, perciò mi concentrai sul mio pasticcio di carne.

«È una vera disgrazia, signora Tebbit, ecco cos’è» continuò Peters. «Hanno avuto l’ardire di uccidere un rappresentante del re imperatore, a sangue freddo, nella seconda città dell’impero. Non so dove prendano tanto coraggio.»

Continuò così per alcuni minuti, mentre la padrona di casa annuiva e conveniva con lui.

Alla fine la signora Tebbit si rivolse direttamente a me. «Lei non potrebbe rassicurarci un po’, capitano?»

Partii con la solita tiritera. Stiamo facendo tutto il possibile, abbiamo messo in questa indagine tutte le nostre risorse, non lasciamo nulla di intentato, e così via. Ma non sembrava abbastanza, così conclusi dicendo: «Non avete nulla di cui preoccuparvi».

«Sì, certo, capitano» ribatté lei. «Ma se questo fosse l’inizio di una campagna ben concertata? Se va avanti così, gli europei avranno paura di uscire di casa dopo il tramonto.»

«Non succederà» dissi. «Devo dire che lei mi sorprende, signora Tebbit. Una donna come lei, un’inglese purosangue. Dovrebbe essere l’ultima persona a lasciarsi intimidire dalle azioni di un gruppo di nativi malcontenti. Tiri fuori la grinta!»

Era quello che ci voleva. Ho notato che quando difetta la logica, un appello al patriottismo spesso sortisce l’effetto desiderato.

«Certo che non mi lascio intimidire!» ribatté lei. «Non intendevo...»

«Il capitano ha ragione» intervenne Byrne. «Lo sa anche lei, signora Tebbit, abbiamo già visto cose di questo tipo. E se vuole la mia opinione, il problema non sono i violenti. Il vero problema sono quelli che predicano la nonviolenza. Anche se la chiamano “non collaborazione pacifica”, in realtà è una guerra economica. Il boicottaggio dei tessuti inglesi sta danneggiando fortemente il commercio. Io ho ricevuto il trenta per cento di ordini in meno dell’anno scorso, in alcuni posti il cinquanta per cento. Se continua così, entro l’estate non avrò più un lavoro.

«E non succede solo in Bengala, Cristo onnipotente, ma in tutto il paese. E non possiamo farci nulla, questa è la cosa peggiore. Voglio dire, non è che puoi mettere in galera le persone perché non comprano tessuti.»

Dopo quelle parole a tavola scese un umore cupo. La signora Tebbit aveva una faccia come se le fosse crollato il mondo addosso. Peters fumava di rabbia. Li capivo. Erano convinti che gli inglesi avessero reso grande l’India, e ora tutto ciò che avevano costruito era minacciato. Era un’impudenza che non riuscivano a comprendere. Dopo tutto ciò che avevano fatto, come potevano i nativi avere la faccia tosta di volerli rispedire a casa? E sotto sotto, il loro timore era un altro. La signora Tebbit e quelli come lei potevano definirsi inglesi, ma l’unica vita che conoscevano era in India; una vita di feste in giardino e cocktail al club. Erano fiori trapiantati in India e così ben acclimatati che se fossero tornati in Inghilterra sarebbero appassiti.

Finii il mio piatto e la signora Tebbit lo portò via.

«Si è fatto tardi» disse Peters. «Io vado a dormire.» Si alzò e ci augurò la buonanotte, poi i suoi passi stanchi echeggiarono sulle scale. La signora Tebbit, comprendendo che non avrei fornito altre informazioni, si ritirò a sua volta. Restammo io e Byrne, e mezza bottiglia di vino rosso. Lui tirò fuori le sigarette e me ne offrì una. Accettai e l’accesi.

«Lei è coinvolto di persona nel caso MacAuley, capitano?» chiese, senza particolare interesse. Mi sembrava volesse solo riempire il silenzio.

«Sì» replicai. «Ma non sono libero di parlarne.»

«Capisco.» Annuì. «È solo che, dal punto di vista della sicurezza, sembrava che le cose stessero migliorando. Speravo che, con la fine della guerra, fossero finite anche tutte queste storie sull’indipendenza.»

«Non simpatizza con la loro causa? Avrei pensato che molti suoi compatrioti avessero un’opinione diversa.»

«Come rappresentante di tessuti, non ho alcuna simpatia per loro. Come irlandese...» sorrise. «È un altro paio di maniche.»

Alzò il bicchiere in un gesto di brindisi e bevve.

«Il fatto è» proseguì «che i terroristi indiani, o almeno quelli del Bengala, sono incompetenti. Passano la maggior parte del tempo a combattersi tra loro, e quando non lo fanno spesso riescono a far esplodere solo se stessi senza causare altre vittime. Quando, di tanto in tanto, riescono a far fuori qualcuno, spesso e volentieri si tratta di passanti innocenti, e non della vittima designata. E non passa molto tempo prima che siano catturati o che decidano di suicidarsi. Stia tranquillo, capitano, possono continuare così per altri cent’anni senza produrre neppure un’ammaccatura nella struttura del Raj. Quello che sto cercando di dire è che il classico rivoluzionario bengalese è un dilettante. Li guardi, sono tutti gente di casta e classe sociale superiore, impegnati in quella che sembra loro una causa romantica. E questo va benissimo in un’aula universitaria. Ma per troncare più di un secolo di dominazione britannica ci vogliono uomini duri. Gente della classe lavoratrice, persone che non arretrano. Non un mucchio di intellettuali effeminati che non distinguono il calcio di una Mauser dalla canna.»

«Se sono così incompetenti,» ribattei «come mai l’omicidio di MacAuley ha spaventato tutti?»

Prima di rispondere, Byrne rifletté e bevve un sorso di vino. «Sa quanti inglesi ci sono in India, capitano?»

«Mezzo milione?» tirai a indovinare.

«Centocinquantamila. Questo è tutto. E sa quanti sono gli indiani? Glielo dico io: trecento milioni. Ora, come immagina che centocinquantamila inglesi possano controllare trecento milioni di indiani?»

Non dissi nulla.

«Superiorità morale» disse lui. «Se i pochi vogliono governare i molti, devono proiettare un’aura di superiorità, non solo fisica o militare, ma morale. E i loro sudditi devono credere di essere inferiori, di aver bisogno di essere governati per il loro bene.

«Dopo la battaglia di Plassey, non abbiamo fatto altro che questo: convincere i nativi che hanno bisogno della nostra guida, della nostra istruzione. Dobbiamo presentare la loro cultura come barbara, fondata su falsi dei. Persino la loro architettura deve apparire chiaramente inferiore alla nostra. Per quale altro motivo avremmo dovuto costruire una mostruosità in marmo bianco come il Victoria Memorial, e farlo più grande del Taj Mahal?

«Cristo, non lasciamo che nemmeno i fatti possano danneggiare l’immagine che vogliamo mantenere. Guardi gli atlanti che danno ai bambini a scuola. India e Inghilterra sono l’una accanto all’altra, e ciascuna occupa un’intera pagina. Non le mostriamo in scala, per non far capire a quei bambinetti scuri di pelle quanto l’Inghilterra sia minuscola, in confronto all’India!

«Il problema, capitano, è che negli ultimi duecento anni abbiamo cominciato anche noi a credere alla nostra propaganda. E ogni minaccia contro quell’idea illusoria è una minaccia contro l’intero edificio. Per questo l’omicidio di MacAuley ha causato tanta agitazione. È un’aggressione su due livelli. Primo, ci mette davanti agli occhi il fatto che alcuni indiani non si considerano più inferiori, tanto da far fuori un membro di alto profilo del governo coloniale. Secondo, distrugge ai nostri stessi occhi l’idea illusoria di essere superiori.»

Vuotò il bicchiere.

«Lei quindi non crede alla superiorità dell’uomo bianco?» chiesi.

«Sono qui da quindici anni, e devo ancora vederne le prove. Capitano, io sono irlandese. Tanti suoi compatrioti, a Londra, direbbero “uno stupido irlandese”. Ora, se io non accetto questo giudizio per me, come posso pensare di essere a mia volta superiore a un’altra razza? I tempi stanno cambiando, capitano. Il vecchio ordine sta crollando. Basta dare un’occhiata alla mappa dell’Europa per capirlo. Polonia, Cecoslovacchia, e tante altre nuove nazioni indipendenti. Se crediamo che loro abbiano il diritto all’autodeterminazione, perché il caso dell’India dovrebbe essere diverso?»

Mi accesi una sigaretta, e lui ne approfittò per bere ciò che restava nella bottiglia.

«Si è fatto davvero tardi» disse poi. «Meglio che vada a letto.»

Si alzò e mi diede la buonanotte.

«Dobbiamo anche salutarci, se non sbaglio» dissi. «Lei domani parte, giusto? Per i giardini del tè dell’Assam.»

«Ah, già.» Sorrise. «No, c’è stato un cambio di piani. Sono bloccato in città ancora per qualche giorno.»

Ricambiai la buonanotte e restai seduto da solo a fumare. Byrne aveva sollevato un punto interessante. Anche se avrei potuto assicurargli che qualunque mia idea di superiorità britannica era morta nelle Fiandre, insieme ai miei amici. Ma questo non cambiava nulla. La mia preoccupazione non era né l’autodeterminazione, né la superiorità morale. Un uomo era stato ucciso e il mio compito era scoprire chi era stato. La politica la lasciavo agli altri.