19

Il telefono squillò alle quattro del pomeriggio.

Lal Bazar era un forno, ma sempre preferibile all’esterno. Ero nel mio ufficio e leggevo il referto autoptico inviato dal dottor Lamb. Lo posai e alzai la cornetta. Era Banerjee, con il fiato grosso.

«Signore» disse. «Stanno uscendo!»

«La Sezione H?»

«Sì, signore. Due auto e un camion. Sono stati visti avvicinarsi all’Howrah Bridge cinque minuti fa.»

«I tuoi uomini possono raggiungerli?»

«Credo di sì, signore. C’è sempre un ingorgo all’ingresso del ponte. A quest’ora della giornata ci metteranno circa trenta minuti ad attraversarlo e a uscire dall’ingorgo all’altro capo. Un uomo in bicicletta può raggiungerli senza problemi.»

«Bene» dissi. «Di’ ai tuoi uomini di non perderli di vista e di venire a farti rapporto a Lal Bazar. Da’ loro tutte le istruzioni del caso, poi torna qui al più presto.»

La Sezione H era riuscita a trovare Benoy Sen molto prima di quanto credessi. Dovevano avere informatori dappertutto, il che significava che avevano a disposizione un budget notevole. Mi chiesi come mai allora non fossero riusciti a localizzarlo negli ultimi quattro anni. Ma era una domanda a cui non avevo tempo di pensare.

I minuti successivi trascorsero in fretta. Chiamai Digby, gli riferii il messaggio di Banerjee e gli dissi di prepararsi a uscire entro cinque minuti. Poi scrissi un biglietto a Lord Taggart. Ciò che volevo era troppo complicato da spiegare a un peon senza l’aiuto di un vocabolario e di un diagramma, così alla fine salii da Taggart di persona, facendo i gradini due alla volta. Entrai senza bussare nell’anticamera che era l’ufficio di Daniels, facendolo sobbalzare per la seconda volta in tre giorni. Stava diventando un’abitudine. Gli misi in mano il biglietto, con l’ordine di aspettare dieci minuti prima di darlo al suo capo, in modo che avessi il tempo di lasciare l’edificio. Una volta in strada, se Taggart avesse voluto fermarmi sarebbe stato troppo tardi.

Tornai al mio ufficio e controllai la mia Webley. Era pulita e carica. Mentre la infilavo nella fondina entrò Banerjee, ansimante.

«Novità, sergente?»

«Non ancora, signore.»

«Bene. Chiama il thana di Howrah e di’ ai tuoi uomini di inoltrare lì i loro messaggi. Passeremo a ritirarli una volta attraversato il fiume.»

«Sì, signore.»

«Hai una pistola?»

«No, signore. Ma so usare un fucile.»

«In tal caso, fatti dare un Lee-Enfield in armeria. Ci vediamo alla macchina.»

Pochi minuti dopo, Digby, Banerjee e io eravamo in auto, diretti alla massima velocità possibile verso l’Howrah Bridge. Il ponte era una strada in ferro poggiata su due dozzine di pontoni galleggianti. Le sezioni centrali si aprivano per lasciar passare le navi. Come previsto da Banerjee, il traffico su entrambe le vie d’accesso al ponte era intasatissimo.

«Scendiamo qui e attraversiamo a piedi» disse. «Dall’altro lato ci aspetta un’auto del thana di Howrah.»

Saltammo giù e corremmo verso il ponte. Davanti a noi si stendeva l’Hooghly, un affluente del Gange, anche se i nativi non facevano distinzioni tra i due fiumi. Per chi veniva da una piccola nazione, era difficile apprezzare le dimensioni dell’Hooghly. Anche lì, a centotrenta chilometri dal mare, il fiume era almeno dieci volte più ampio del Tamigi a Londra. Si stendeva fino all’orizzonte, una larga ferita marrone attraverso il paesaggio. Mentre correvamo lungo il ponte, sotto il sole spietato del Bengala, avevo l’impressione che non saremmo mai arrivati dall’altra parte. Quando fummo vicini alla sezione centrale, divenne chiaro il motivo dell’ingorgo: il traffico era stato fermato per permettere il passaggio di un piroscafo. Corsi dal funzionario che sembrava al comando e gli ordinai di fermare la manovra. Era un angloindiano in berretto con visiera e il distintivo della Calcutta Port Authority. Quando mi vide sbottonare la fondina ingoiò le sue rimostranze e gridò a un gruppo di coolie di chiudere il ponte. Loro lo fissarono, confusi, finché una raffica di imprecazioni li convinse a muoversi.

Dieci minuti dopo eravamo dall’altro lato del fiume, zuppi di sudore e ansimanti. Davanti a noi appariva la struttura squadrata della stazione di Howrah. Un’auto della polizia si precipitò verso di noi, fermandosi con uno stridio di gomme. Esausti, tutti e tre salimmo sul sedile posteriore e l’auto ripartì a sirene spiegate verso il thana di Howrah.

Se Calcutta era la bella del Bengala, Howrah era la sorella brutta. Una città di case in rovina e costruzioni addossate le une alle altre, che sembrava una stazione di smistamento. Superammo una quantità innumerevole di magazzini, prima di fermarci davanti a una piccola stazione di polizia. Banerjee scese e corse all’interno, tornando pochi secondi dopo con un foglietto in mano.

«Si sono fermati» annunciò, con il fiato grosso.

«Dove?»

«Kona. A circa otto chilometri da qui, sulla strada per Benares.»

«Andiamo.»

Salì a bordo e abbaiò una serie di ordini all’autista, il quale invertì la marcia e ripartì a tutta velocità. Ci lasciammo alle spalle Howrah, attraversammo vari quartieri di periferia prima di emergere in aperta campagna. Finalmente, pensai, avremmo potuto accelerare. Ma la strada divenne presto una pista sterrata, con pozzanghere abbastanza profonde da inghiottire un elefante. L’autista comunque sembrava non farci caso e andava avanti come posseduto. Per merito del suo sesto senso, o forse della divina provvidenza, riuscimmo ad arrivare a Kona senza ammazzarci.

Era buio quando raggiungemmo il villaggio. Non c’era nessun cartello a dirci che si trattava del posto giusto, ma non ce n’era bisogno, vista la quantità di gente che si era raccolta in strada. Degli uomini urlavano. Da qualche parte lì vicino si udiva un ruggito di motori. Ci dirigemmo verso il chiasso, mentre la folla si apriva davanti a noi. I fari illuminarono nuvole di polvere che si erano sollevate da poco. Da dietro un angolo spuntava un bagliore e ordinai all’autista di andare da quella parte. Lì, alla luce dei fari di un camion militare, c’era un’altra folla, molto agitata. Voci rabbiose si levavano contro un gruppo di sepoy impassibili, che con le baionette puntate impedivano a chiunque di avvicinarsi oltre. Quando arrivammo noi i soldati aprirono automaticamente un varco. Al buio, la vista di due sahib in divisa funzionò da lasciapassare.

Ci accostammo a due veicoli fermi. A pochi metri da noi, il colonnello Dawson parlava con un gruppo di ufficiali. Con la pipa in mano, indicava un edificio in lontananza. Mi voltai verso Banerjee.

«Va’ al telefono più vicino e lascia un messaggio per Lord Taggart» dissi. «Un rapporto sulla situazione e il posto in cui ci troviamo.»

Fece il saluto e partì in direzione di alcuni pali del telefono. Digby e io ci avvicinammo a Dawson. All’improvviso, dal buio volò una bottiglia, che andò a spaccarsi ai piedi di un soldato. Alcune schegge gli si piantarono nella gamba e urlò di dolore. Il suo superiore, un subedar con bianchi baffi a manubrio, avanzò verso la folla con uno sguardo duro. Se aveva sperato che bastasse la sua presenza a calmare le acque, fu costretto a cambiare idea quando prima una pietra, poi un mattone, quindi una pioggia di oggetti vari furono lanciati verso di loro. I sepoy indietreggiarono di qualche passo. Il subedar trasalì e si voltò verso Dawson, il quale, con la pipa tra i denti, fece un breve cenno d’assenso. Il subedar cominciò a urlare una serie di ordini, sia alla folla, sia ai suoi uomini, anche se probabilmente nel chiasso generale nessuno li udiva. Ma tutti udirono lo scatto ritmico dei fucili che si preparavano a sparare. Un altro ordine urlato. I sepoy puntarono i fucili sulla folla. Cadde un silenzio improvviso, seguito da un gemito collettivo simile a quello di una bestia ferita. La gente si rese conto di ciò che stava per succedere e quelli nelle prime file si affannarono per tornare indietro.

«Fuoco!» gridò il subedar.

Il tuonare degli spari fu seguito da urla di terrore. Uomini e donne si calpestarono a vicenda nel tentativo di fuggire. Pochi minuti dopo la strada era deserta, e c’era un silenzio di tomba. Mi aspettavo di vedere sul terreno almeno una dozzina tra morti e feriti, ma a parte i calpestati che si rialzavano a fatica non sembrava ci fossero vittime. I sepoy dovevano aver sollevato i fucili all’ultimo istante, sparando in aria.

L’odore acre di cordite riempiva l’aria. All’improvviso fui di nuovo nel 1915, con il rumore dell’artiglieria che mi rimbombava nelle orecchie. Chiusi gli occhi per difendermi dalla valanga di fango che mi sarebbe piovuta addosso da un momento all’altro, ma non accadde nulla. Intorno a me si diffuse l’aroma di tabacco da pipa.

«Sono felice che sia qui, capitano.»

Aprii gli occhi e vidi avvicinarsi il colonnello Dawson. Se era sorpreso di vederci, lo nascondeva bene.

«Assembramento illegale» disse. «Secondo la legge avremmo potuto sparargli, ma abbiamo altro di cui occuparci.»

Mi ricomposi. «Sen?»

Dawson annuì. «L’abbiamo trovato.»

Significava che non l’avevano ancora arrestato. “Trovato” era meglio di “catturato” e molto meglio di “ucciso”.

«Dove?»

«È nascosto lì dentro» rispose, indicando una casa vicina.

Alla luce della luna, vidi che era a un piano solo, squadrata e con il tetto piatto, circondata su tre lati da un basso muro di cinta. Il quarto lato sembrava affacciare direttamente su un canale. Da dentro non filtravano luci, la porta era sprangata e le finestre chiuse.

«Siete certi che sia lì?»

«Quasi certi. Il nostro uomo l’ha visto entrare e non ha ancora visto uscire nessuno. Esiste sempre la possibilità che sia fuggito da un’altra via prima del nostro arrivo in forze, ma è improbabile. Ora la casa è circondata.» Indicò i vari punti in cui i soldati avevano preso posizione. «Tutte le uscite sono sorvegliate.»

«C’è qualcuno con lui?»

«Due, forse tre complici.»

«Armati?»

«Senza dubbio.»

«I suoi uomini sono pronti?»

Ne indicò con la pipa uno che stava prendendo posizione in quel momento. «Quello è l’ultimo. Stavamo per lanciare un ultimatum, quando siete arrivati voi.»

«Ci sono civili, dentro la casa?»

«Qual è la sua definizione di “civili”, capitano? Per quanto riguarda me, gli abitanti di quella casa sono complici di un terrorista.»

«E se ci sono donne e bambini?» chiesi. «Se Benoy Sen decide di ignorare l’ultimatum, dovremmo offrire un salvacondotto agli altri. Tra l’altro, potremmo sapere da loro delle informazioni utili sulla disposizione della casa e assicurarci che Sen sia davvero lì.»

Dawson mi fissò, tenendo il viso inespressivo mentre pesava le opzioni.

«Va bene» disse alla fine. «Faremo a modo suo.»

Chiamò un sepoy con un megafono, acquattato dietro un muro, il quale corse subito da lui, piegato in due. Dawson gli parlò nella sua lingua. Il sepoy fece il saluto e tornò in posizione.

«Si comincia» disse Dawson.

Il soldato si rivolse agli occupanti della casa. Il megafono dava alla sua voce un tono metallico. Non successe nulla. Un minuto più tardi ripeté il messaggio. Stavolta dall’interno della casa ci fu uno sparo, e un proiettile si piantò nel muro a poca distanza dal sepoy, distruggendo un mattone in una nuvola di schegge.

«Ecco la sua risposta» disse Dawson.

Chiamò il subedar e diede l’ordine di aprire il fuoco. Immediatamente dai soldati appostati intorno alla costruzione partì una salva di proiettili, che fece saltare schegge di legno e intonaco. Gli occupanti risposero al fuoco e i proiettili rimbalzarono tra i muri e i veicoli fermi.

A un cenno di Dawson, i sepoy andarono alla carica. Qualsiasi veterano di guerra avrebbe potuto dire loro che era un errore: bisognava sfinire il nemico, prima di tentare un assalto frontale. Ma Dawson non era un veterano e i suoi uomini erano spavaldi. Pochi secondi dopo, due sepoy erano sul terreno, uno morto, l’altro che urlava di dolore. Il resto si ritirò al riparo del muro di cinta.

«Non finirà finché lì dentro non saranno tutti morti» disse Dawson, con un sospiro.

«Speriamo che finiscano le munizioni, allora» replicai.

Lui fece una risata secca. «In tal caso, useranno gli ultimi proiettili per suicidarsi.»

Banerjee tornò e si acquattò accanto a me. Aveva fatto la telefonata a Lord Taggart. La sparatoria era finita. I terroristi risparmiavano le risorse, limitandosi a rispondere al fuoco. Le urla del sepoy ferito cambiarono tono. Non capivo la lingua, ma non ce n’era bisogno: un uomo mortalmente ferito invoca sempre Dio o sua madre. I suoi compagni tentarono di raggiungerlo ma furono respinti dal fuoco nemico. Poi il soldato tacque. Sapevo che la sua morte segnava un punto di non ritorno. I suoi commilitoni avrebbero cercato la vendetta, e non avrebbero fatto prigionieri. Se volevo Sen vivo, dovevo prendere in mano di persona la situazione.

Lasciai Dawson, presi con me Digby e Banerjee e ispezionai il perimetro. Le truppe di Dawson erano intorno al muro di cinta su tre lati della casa. Dal lato del canale c’erano due finestre, sprangate, da cui non era venuto nessuno sparo. Dawson aveva messo alcuni uomini sull’altra riva, per evitare un tentativo di fuga da quella parte. Gli uomini erano stesi nell’erba, i fucili puntati contro le finestre chiuse.

Mi gettai a terra, strisciando verso la riva del canale, seguito da Digby e Banerjee. L’acqua aveva un odore disgustoso. Un soldato sull’altra riva ci vide e alzò il fucile, poi si rese conto che eravamo due sahib in divisa e l’abbassò di nuovo. Noi tre scivolammo nell’acqua calda e stagnante e passammo sull’altra riva. Indicai ai miei colleghi di prendere posizione accanto ai soldati e chiesi a Banerjee di darmi la sua baionetta. Quindi tornai in acqua e nuotai fino ad arrivare sotto una delle finestre.

Una specie di cengia che correva sotto l’argine mi permetteva di stare in piedi con la testa fuori dall’acqua. Era un momento di stasi. Probabilmente Dawson stava facendo il punto della situazione. Pochi minuti dopo, gli spari sul davanti della casa ricominciarono. Sembrava che i sepoy si preparassero a un altro assalto. Alzai lo sguardo. La finestra era a circa due metri e mezzo sopra di me. Da dentro udii alcune frasi in lingua straniera, un grido smorzato e poi altre grida, frenetiche. Il cuore mi balzò in gola: adesso o mai più.

Alzai la baionetta di Banerjee e la piantai con forza nel muro sopra la mia testa. La lama solida penetrò nell’intonaco, infilandosi tra i mattoni. La usai come sostegno con una mano, mentre con l’altra trovai un appiglio e mi tirai su. Poi ripetei la sequenza, piantando la baionetta più in alto sul muro e afferrandomi con l’altra mano al davanzale della finestra. In quel momento una delle persiane si aprì, e alla luce lunare vidi uno scintillio di metallo. Mi appiattii contro il muro. Una donna si affacciò a guardare, mi vide e puntò il fucile verso di me. Chiusi gli occhi, visto che non potevo fare altro. Ci fu uno sparo.

Dicono che quando stai per morire ti passa la vita davanti agli occhi, una serie di momenti importanti ti attraversano la mente. Io non vidi assolutamente nulla, nemmeno un’immagine sfuggente del viso di Sarah. Mi aspettavo la fine, e ne ero quasi contento, ma non fu così. Fu la donna a emettere un gemito e ad accasciarsi. La mano che sporgeva dal davanzale era senza vita.

Mi tirai su e solo allora mi accorsi che la finestra era protetta da sbarre di ferro, che con le persiane chiuse non erano visibili. La donna era accasciata contro di esse. Maledissi la mia stupidità. Ero sicuro di trovare una normale finestra. Restai un attimo immobile, pensando a cosa fare. L’unica opzione possibile era salire ancora. Sopra la finestra c’era una mensola di cemento, che forse serviva da protezione contro le piogge monsoniche. L’afferrai con le mani, mi tirai su e ci salii sopra. Ora il tetto era a meno di due metri di distanza. Continuai l’arrampicata, usando come appigli la baionetta e le crepe nell’intonaco. Finalmente riuscii a inerpicarmi oltre il tetto a terrazzo.

Recuperai la baionetta dal muro e mi fermai un attimo per orientarmi e riprendere fiato. Lo scontro a fuoco si era fatto più intenso. Di fronte a me distinsi il contorno di una porta, che doveva aprirsi su una scalinata che portava all’interno della casa. A poca distanza dalla porta c’era un cadavere accasciato contro il muro.

Estrassi la Webley dalla fondina, corsi alla porta e l’aprii, tirandomi subito indietro. Non ci furono spari. Mi sporsi a guardare sulle scale, ma tutto era buio. Scesi senza far rumore fino a un corridoio, che da un lato conduceva nel retro della casa, e dall’altro nel lato anteriore, attraverso due porte, entrambe aperte. Nella penombra distinsi due uomini. Uno a terra, forse ferito, che si muoveva appena, l’altro che sparava dalla finestra. Le grida all’esterno erano più forti. Sembrava che gli uomini di Dawson si preparassero all’attacco finale.

Irruppi nella stanza, gridando all’uomo di gettare l’arma. Lui si voltò di scatto. Forse si trattava di Sen, e non avevo corso tutti quei rischi per uccidere il mio indiziato principale. Mirai a una gamba e premetti il grilletto. La pistola s’inceppò, probabilmente a causa dell’acqua del canale. Il terrorista esitò un attimo, poi fece fuoco. Mi tuffai a terra, mentre un dolore bruciante mi attraversava il braccio sinistro.

L’uomo si mise a ricaricare, con gesti frenetici. Il tempo sembrò rallentare. I soldati sfondarono la porta e udii un rumore di scarponi nell’ingresso. Non sarebbero arrivati in tempo. Il terrorista finì di ricaricare e alzò il fucile. Presi la baionetta di Banerjee con la destra e gliela lanciai contro. La deviò con la canna del fucile, senza molto sforzo. Ero riuscito a guadagnare solo un paio di secondi, ma furono abbastanza. Un soldato entrò e fece fuoco. L’uomo cadde all’indietro con un buco nel petto. Il soldato si girò e mirò a quello steso a faccia in giù sul pavimento.

«Aspetta!» gridai.

Lui ruotò su se stesso, il fucile puntato.

«Quest’uomo è in arresto» dissi, indicando il terrorista ferito. Il sepoy non abbassò l’arma, finché all’improvviso la stanza si riempì di soldati. Digby era con loro.

«Tutto bene, vecchio mio?» chiese, inginocchiandosi accanto a me.

«Questo è Sen?» chiesi a mia volta, indicando l’uomo steso a terra.

«Una luce!» gridò Digby e un sepoy si avvicinò di corsa con una lampada antivento.

Digby si chinò a esaminare il ferito. Era sudato, con il viso contorto dal dolore, e aveva gli occhi chiusi dietro un paio di occhiali dalla montatura in metallo.

«Può essere lui. Corrisponde alla descrizione.»

Tirai fuori un paio di manette e ammanettai il mio polso a un polso dell’indiano ferito. Non avrei permesso che la Sezione H se ne impadronisse, dopo quello che avevo passato.

Entrarono degli infermieri e si occuparono di lui. Respirava a fatica e aveva perso molto sangue sul pavimento. Un altro infermiere mi bendò il braccio. Mi disse che avevo avuto fortuna, il proiettile aveva solo attraversato la carne. In ogni modo mi faceva un male d’inferno. Ero riuscito a superare tre anni di guerra in Francia senza essere ferito, e a Calcutta non ero durato tre settimane.

Sempre ammanettato a me, l’uomo fu caricato su una barella e portato verso un’ambulanza in attesa. Fuori dovevano esserci un centinaio di persone, quasi tutti militari. Accanto a Dawson scorsi Lord Taggart, e sospirai di sollievo. Se volevo tenermi il mio prigioniero, avevo bisogno del suo appoggio.

Entrambi mi videro allo stesso tempo e si avvicinarono.

«Signore» dissi a Taggart. «Quest’uomo è in arresto. Ha avuto un ruolo nell’omicidio di Alexander MacAuley e nell’assalto al treno postale del Darjeeling. Intendo interrogarlo non appena possibile.»

Taggart si voltò verso Dawson. «Si tratta di Sen?»

Il colonnello si chinò a guardarlo da vicino e annuì.

«Grazie a Dio» disse Taggart. «Ottimo lavoro, capitano. Sembra che abbia preso...»

«Mi scusi, Lord Taggart» lo interruppe Dawson. «Saremo noi a prendere in custodia il prigioniero, per interrogarlo su un bel numero di attentati.»

Taggart lasciò calare un silenzio prima di rispondere. «Colonnello» disse poi. «Quest’uomo è stato arrestato da uno dei miei ufficiali in relazione a un caso che il vicegovernatore ha definito della massima priorità. Resterà sotto la nostra custodia a meno che lei mi presenti un ordine scritto che sancisca il contrario. Naturalmente, io e i miei uomini la ringraziamo dell’aiuto e condivideremo con lei tutte le informazioni ottenute dall’interrogatorio dell’indiziato.»

Dawson gli rivolse uno sguardo di fuoco, poi annuì bruscamente, si voltò e si allontanò.

«Grazie, Sam» mi disse Taggart. «Era tanto tempo che desideravo farlo. Ora accompagna Sen in ospedale e mettilo sotto la sorveglianza della polizia. Bisogna interrogarlo appena possibile. Non so per quanto tempo riuscirò a tenere lontani Dawson e i suoi superiori.»

«Sì, signore» risposi. Gli infermieri sollevarono la barella e una fitta di dolore mi attraversò il braccio.

«E fatti vedere quel braccio» concluse Taggart. Si voltò e si diresse verso un’automobile. L’autista fece il saluto e aprì la portiera posteriore.

Si avvicinarono Digby e Banerjee, tutti e due bagnati fradici.

«Eccoci qui tutti e tre» disse Digby con un ampio sorriso. «Gli eroi del momento.»

«Come i tre moschettieri» replicai.

Digby fece una risata. «Sì, mi piace. Athos, Porthos e Banerjee. Suona bene, no, sergente?»

Surrender-not non disse nulla.