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«Stiamo andando a iscriverti a scuola, non a un concorso per travestiti» dico a Paige mentre è ancora a mezza scala.
Indossa abiti abbastanza normali: jeans, una maglietta un po’ troppo aderente e un paio di vecchie, consunte Converse ai piedi, ma ha abbondato così tanto con il trucco che sembra stia andando a vendere la propria mercanzia sull’angolo della strada.
«Sei antipaticissima» sbotta, tornandosene di sopra con passo pesante.
Sarò pure antipatica, ma se non altro mi ha ascoltata e non dovrò presentarmi a scuola con una piccola lucciola.
In piedi nello spazio che infine sarà la cassa, sfoglio la rivista di articoli che mi ha lasciato Ruby. Cristalli, erbe, libri sul potenziamento delle capacità psichiche. Che barzelletta. Giro pagina.
Qualche minuto dopo torna Paige. È ancora truccata ma ha più l’aspetto di una Barbie Malibu che di una Barbie Battona, perciò posso dirmi contenta.
Peccato duri solo fino a metà del vialetto di accesso.
Gniii gniii gniii gniii. Giro la chiave nel blocco dell’accensione per la dodicesima volta ma il risultato non cambia. Il motore non si avvia.
Scambio un’occhiata con Paige, quindi apro il cofano e lei va a controllare il danno.
«Manca l’olio» grida. «Ma scommetto che si tratta della batteria. I cavi sono corrosi.»
«E ti pareva!» brontolo io. Scendo dal sedile di guida e mi guardo intorno. La casa non ha un garage attiguo in cui poterci trovare attrezzi o altro in grado di riparare un’auto. Lì di fianco c’è solo un viottolo per parcheggiare. Ma il nostro vicino ha un garage. Di sicuro avrà una lattina di olio in più.
Salgo di corsa i gradini e busso alla porta. Dal di fuori, la casa sembra quasi identica alla nostra. O meglio di Ruby.
La tenda della finestra accanto alla porta si muove appena, ma passa un minuto senza risposta. Busso di nuovo.
Niente.
«Non risponde nessuno» dico accigliata. Paige chiude il cofano con un colpo secco.
«E adesso?»
Afferro la borsa dal sedile anteriore. «Camminiamo.»
Sotto un cielo grigio e nebbioso ci avviamo verso il marciapiede.
«La vista non è un granché» dice Paige, con le braccia incrociate sul petto e il viso imbronciato.
«È presto. Prima o poi il sole dileguerà la nebbia.»
Un jogger in tuta grigia e maglia nera a maniche lunghe ci sorpassa correndo. Visto da dietro sembra giovane, con capelli cortissimi, spalle larghe, vita sottile e muscoli forti che si tendono a ogni falcata.
«E poi a me la vista piace» mormoro.
«Sei scandalosa» ribatte Paige, ma sorride e mi dà una leggera gomitata.
Camminiamo in silenzio per qualche minuto, allontanandoci dalla passeggiata e dirigendoci verso la parte più interna della cittadina, dove si trovano le scuole medie e superiori.
Le strade di Castle Cove sono ordinate e io non posso fare a meno di chiedermi chi viva dietro quei recinti ben tenuti e le caratteristiche case di mattoni. A occhio non ci sono molte persone in giro stamattina, ma è ancora presto. Una donna anziana sta innaffiando fiori e un vecchio seduto sulla veranda si dondola accanto a un cane dalle orecchie flosce. Nessuna di quelle proprietà sembra valere molto. Le case sono troppo vecchie, i fiori troppo scadenti.
Fisso il marciapiede davanti a me. Niente di tutto ciò importa.
«Non devo andarci per forza, sai?»
«E invece sì. Ne abbiamo già parlato, Paige.»
È una delle principali ragioni per cui siamo andate via, una delle più pressanti. Voglio dare a Paige una dimora sicura. Una vita normale. La possibilità di restare nella stessa scuola per più di qualche mese alla volta. Magari anche degli amici. Tutto quanto non ho mai avuto e lei non ha ancora avuto modo di conoscere.
«Lo so» dice. «Ma abbiamo anche bisogno di soldi. Dovrei cercarmi un lavoro.»
«Sei troppo giovane.»
«Potrei fare... altri lavori.»
La blocco con una mano sul braccio. «Noi non faremo altri lavori. È per questo che ce ne siamo andate. Non saremo come loro. Più tardi andrò a cercare qualcosa sulla passeggiata. È pieno zeppo di negozi. Sono certa che qualcuno stia assumendo. Tanto l’affitto è coperto, ci serve giusto qualcosa per il cibo e altre necessità. Possiamo risparmiare per una casa nostra. Andrà tutto bene. Anzi no, andrà tutto benissimo.» Faccio un largo sorriso nonostante il “benissimo” mi convinca poco. Ma meglio di quello che ci siamo lasciate alle spalle. Per forza.
«Dovremo anche riparare la macchina» borbotta Paige.
La ignoro deliberatamente.
La scuola è chiusa per le vacanze di primavera. Stando all’avviso sulla porta, le lezioni riprenderanno lunedì prossimo.
«Siamo venute fin qui per niente» si lamenta lei, strisciando la scarpa contro una fessura sul marciapiede.
«No. Adesso sappiamo quando inizierai.»
«Già» risponde inespressiva.
«Di’ un po’, hai dormito con il popò scoperto?» E caspita! Possibile mai che ogni adolescente del pianeta emetta la forza negativa di un buco nero?
«Non è niente.» E inizia a camminare.
«Paige. Dovremmo essere felici» le urlo alle spalle.
«Io sono felice» risponde nel tono più infelice che le riesce.
Alzo il passo per raggiungerla. «Questa situazione dovrebbe essere eccitante. Un nuovo inizio. Senza più preoccuparci di...» non c’è bisogno di finire la frase. «Che c’è?»
«È solo che... non riesco... non lo so.» C’è frustrazione nella sua voce.
Continuiamo a camminare in silenzio. So che non devo forzarla. Prima o poi si sfogherà. Anni e anni a parlare di fuggire via dai nostri genitori, fino quasi a ubriacarci di entusiasmo. Da quando siamo partite, però, Paige si è mostrata tutt’altro che contenta.
Ci fermiamo al negozio di generi vari per un litro circa di olio ma è soltanto a casa che si decide a vuotare il sacco.
«E se gli altri non mi sopportassero?» dice mentre, lavorando sulla macchina, cerchiamo di fare un imbuto di carta stagnola. Non vi è altra maniera di versare l’olio senza sprecarlo, e il vicino finge ancora di non essere in casa.
«Cosa?» chiedo quasi dimentica della conversazione precedente.
«Che succede se in questa scuola sono antipatica a tutti? O mi considerano imbranata? Non la so fare, la tipa giusta. Non so essere niente di niente.»
Mi raddrizzo dalla posizione piegata sul motore. Paige è seduta sulla veranda, con la testa tra le mani e i capelli scuri che scintillano nel sole primaverile.
Il mio colore naturale è come il suo, di solito. I miei me lo facevano cambiare. Dicevano che le bionde erano più attraenti. Io non lo sono mai stata abbastanza. Ma con Paige ci somigliamo molto, anche se penso che lei sia più carina. A parte gli occhi azzurri, in contrasto con il castano dei miei, le labbra piene e il naso sbarazzino sono gli stessi.
«Nessuno ti detesterà, Paige. Sei fighissima. Non a caso siamo sorelle.»
«Tu non puoi capire. Non sei mai stata costretta a frequentare un branco di adolescenti con gli ormoni in subbuglio e... a rimanere te stessa. Quasi quasi è più facile quando hai una parte da recitare o sai che tanto non resterai lì per molto. Puoi fingere che non ti importi.»
Metto per terra la lattina dell’olio e mi siedo accanto a lei sul primo gradino della veranda.
«Hai ragione. Ho trascorso tutta l’adolescenza cambiando posto ogni mese, come pure nome e personalità. Ed è stato orrendo. Non questa volta, però.» Le circondo le spalle esili con un braccio. «Dobbiamo crederci.»
Paige annuisce.
«E adesso tornatene a lavorare sulla macchina» dico passandole la carta stagnola tutta increspata «io vado alla passeggiata a vedere se qualcuno sta assumendo. Magari riesco a recuperare un lavoro in quell’azienda dolciaria che abbiamo visto quando siamo arrivate e tu puoi avere liquirizia a cena tre volte a settimana.»
Mi fa una roteata d’occhi, poi sorride piano e si alza. «Ci sto!»
~*~
Impiego meno di cinque minuti a raggiungere la passeggiata. È ancora abbastanza presto, appena le nove e mezzo, per cui non ci sono molte persone in giro. Solo qualche turista e dei ragazzi in età universitaria con postumi da sbornia.
I primi tre negozi a cui chiedo non stanno assumendo. E neanche i tre successivi, o i cinque dopo quelli.
L’ultima chance è il ristorante. Ignoro il brutto presentimento ed entro. Posso trovare lavoro altrove, immagino, ma sarebbe bello averne uno poco distante da casa visto che la macchina è un punto interrogativo.
L’assistente all’ingresso mi risponde picche, così esco, mi dirigo verso il retro del ristorante e fisso l’acqua, lasciando che la brezza marina spazzi via le mie preoccupazioni.
La passeggiata è situata quasi all’inizio della baia. Seguendo la curva a sinistra subito dopo, ci sono alcune case e qualche grosso edificio tra pezzetti di spiaggia. Oltre quelli, altri lembi di sabbia e in distanza, appena prima che l’arco di terra si interrompa, una collinetta erbosa e i resti di una struttura in pietra. Dev’essere il castello da cui Castle Cove prende il nome.
Non ho avuto modo di fare molte ricerche sulla cittadina prima che ci trasferissimo qui. Una volta letto alloggio gratuito e poco meno di tremila abitanti, ho subito pensato che finalmente avevamo un posto in cui andare. Se credessi in questo genere di cose, direi che è stato come se l’universo ci avesse indicato la direzione.
Castle Cove si trova nell’Oregon meridionale, sulla costa. A quanta più distanza sono riuscita a mettere tra noi e i nostri genitori senza dover vivere sott’acqua. Paige adora il mare, ma io... mi spaventa a morte. Proprio non so nuotare.
Sto osservando i gabbiani, chiedendomi quanto facile sia catturarli e poi convincere Paige che si tratta di pollo, quando sento delle persone discutere.
«George, questo prodotto è scaduto» si lamenta una voce.
«Non è scaduto» ribatte quello. «I ragazzi l’hanno pescato ieri.»
Io non vedo loro e loro non vedono me, ma nella parte isolata della passeggiata le voci rimbombano raggiungendomi chiarissime.
«Stronzate. La puzza arriva fin qui. Non posso usarlo.»
Silenzio, poi: «Siamo in pausa primaverile. Ho prenotazioni per tutta la settimana. Come faccio a servire pesce andato a male?»
Storco la bocca. Che schifo.
«Beh, posso mandare di nuovo fuori i ragazzi e portarne dell’altro, ma...»
«Non se ne parla. Passerebbero altri tre giorni e io non posso permettermi di perdere clienti. Qualcuno ha rubato una scatola dall’ultima consegna. E non ti pago neanche il prezzo intero. Portamela nel...» Le voci si smorzano mentre i due entrano nell’edificio.
Nota personale: non mangiare sul molo questa settimana.
Non che possa permetterlo, comunque.
Continuo a camminare sulla banchina, lasciandomi ristorante e voci alle spalle.
Verso la fine della passeggiata, prima che i negozi si esauriscano e l’acqua si estenda fino all’orizzonte, c’è la facciata di un negozio sbarrata con delle assi. Da quanto resta della sbiadita insegna era Il miglior emporio di calze al mondo.
Peccato sia chiuso.
Do una sbirciata attraverso il vetro macchiato di grigio, ma è troppo sporco per vedere all’interno. Girando attorno allo stabile, trovo una porta con una maniglia e quando la spingo si apre. Normale che l’abbiano chiuso. Persino con la sola luce che filtra dall’esterno attraverso la finestra incrostata di sporcizia è chiaro che lo spazio è inutilizzabile. C’è odore di muffa e putredine, e in alcuni punti il legno è marcio.
Dietro una sorta di scaffale, vecchio e cadente, la punta di una scarpetta rossa spicca sola e incredibilmente sgargiante tra tutto il disordine nell’edificio buio e sporco, rendendo l’ambiente circostante un po’ surreale.
Una risata infantile scoppietta attraverso una delle pareti e immediatamente mi si rizzano i capelli.
Non può essere vero. Dev’essere arrivata da fuori, ma un’occhiata veloce alle mie spalle rivela una passeggiata vuota.
«C’è qualcuno?» grido.
Silenzio. Muovo qualche altro passo in avanti, quindi mi fermo e ascolto.
Niente, a parte il suono del mio respiro, il lieve rumore delle onde e l’occasionale strido di un gabbiano.
Il legno si sposta sotto i miei piedi, scricchiolando come se qualcuno stesse camminando sulle assi consumate, ma qui dentro ci sono solo io e non mi sto muovendo.
«Non dovrebbe essere qui.» Una voce stentorea mi fa trasalire strappandomi un urlo breve e acuto. Do un balzo indietro, con lo stomaco che quasi tocca i piedi.
Nell’ingresso c’è un uomo. Non uno qualunque. È il jogger che ci ha superate stamattina, con indosso ancora la tuta grigia e la maglia nera. Mister bel sedere. Visto di fronte è anche meglio, penso con il cuore che batte forte.
Per quanto fuori luogo possa sembrare, ne studio i lineamenti. Il naso è forse un po’ troppo grande per il suo viso e le labbra piuttosto sottili, ma ha una salda mascella quadrata e l’intelligenza negli occhi troppo vicini non mi consente di staccare lo sguardo. Nel complesso, è sorprendentemente affascinante.
All’improvviso mi accorgo che lo sto fissando mentre a sua volta lui fissa me e con tutta probabilità aspetta una qualche risposta.
«C’è una scarpetta rossa» dico con la bocca secca.
«Cosa?»
«Uhm.» Non riesco più a guardarlo.
La sua espressione dice chiaramente che si sta chiedendo se non sia un po’ svitata e forse lo sono davvero. Sposto l’attenzione sulla parete e mi mordo il labbro.
Perché gliel’ho detto?
«Pensavo di aver sentito qualcosa.» Ecco, così va un tantino meglio.
Infine sollevo gli occhi sui suoi.
«Non è sicuro qui dentro» dice. «Qualcuno deve aver rimosso il cartello con su scritto vietato l’accesso.» Lo sguardo assottigliato insinua apertamente che sia stata io.
«Non sto facendo niente di male» replico, difendendo le mie azioni anche se sono semplicemente entrata in uno stabile vuoto. Ma quegli occhi mi scrutano come se fossero in grado di vedere ciascuna delle malefatte compiute in tutta la mia vita. E magari anche i mutandoni rosa sbiadito che porto oggi.
Il calore si diffonde su per il collo.
«A parte violare una proprietà privata» si decide a rispondere lui.
«Non lo sapevo.»
«L’ignoranza non rende l’atto meno illegale.»
Le mie difese si innalzano. Ma questo qui cosa cerca? Figurati se la primissima persona a rivolgermi la parola non era un gran cretino. «È forse poliziotto, lei?»
«Questo edificio è inagibile. Non è sicuro. Verrà abbattuto il mese prossimo.»
«Ma io pensavo di aver sentito...»
«Non posso trascorrere il resto della giornata a discutere con lei.» Fa un passo indietro e con un gesto mi invita a uscire. Sebbene detesti dover obbedire a un comando tanto aggressivo seppur tacito, lo seguo fuori nella luce del sole che si fa strada tra la nebbia del primo mattino.
Mi giro a guardalo ma ha già ripreso a correre.