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CAPITOLO CINQUE

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«Tua figlia è un’incapace» disse mia madre a mio padre in un giorno assolato di giugno.

Era così che si riferivano a me. “Tua figlia, come se nessuno dei due fosse disposto a riconoscermi quale frutto dei propri lombi. E come potevo? si lamentavano loro. Non gli somigliavo affatto.

Sì, avevo gli occhi marroni di mio padre e la bocca larga di mia madre, ma ero troppo mite. Troppo emotiva. Mi legavo troppo e troppo facilmente. Ero noiosa. Non gli importava molto di quanto facevo per aiutarli. Del fatto che praticamente avevo tirato su Paige da sola e al momento della sua nascita avevo appena otto anni.

«Falla uscire con uno dei figli. Potrà raccogliere informazioni sulla famiglia, così come ha fatto a Newbury. Se l’è cavata bene.»

Mamma rise, producendo un suono stridulo, di scherno.

Parlavano di me come se non fossi seduta proprio lì, all’ombra della palma a soli tre metri da loro, sdraiati su morbide sdraio a crogiolarsi al sole. La lussuosa residenza che affittavamo era provvista di una piscina in stile laguna con cascata funzionante. Un paradiso, per loro. Tutto ciò per cui avevano lavorato e meritavano, dicevano.

Un inferno per me. Ma tali consideravo più o meno tutti i posti in cui andavamo da quando ero diventata grande abbastanza da pensare con la mia testa. L’unico aspetto positivo della mia vita era mia sorella.

Sì, la piscina era un bel vedere, ma io non sapevo nuotare. E all’ombra ci volevo semplicemente leggere, non ascoltare i miei genitori che me la gettavano addosso.

«Nessuno di quei ragazzi la inviterà fuori» disse mamma. «Sono belli e popolarissimi. Due di loro sono calciatori e uno gioca a lacrosse. E poi, l’hai vista di recente?»

Il mio viso avvampò per la vergogna. Sedici anni e ne dimostravo tredici. Non che potessi farci qualcosa. Ero troppo magra, con curve pressoché inesistenti e una spolverata di brufoli che non mi faceva nessun favore.

«Comprale vestiti più provocanti.» Papà non aveva alcun ritegno a far prostituire la figlia maggiore. «Se la caverà. Ci sono tipi che preferiscono quell’aspetto da ragazzina, sai? Al loro padre di sicuro non dispiace. Magari è un fatto di geni.»

Ridevano, mentre io morivo d’imbarazzo.

«E Paige, invece?» suggerì mamma. «È più carina.»

Nonostante il sole caldo mi si gelò il sangue.

Dovevo portarla via prima che fosse troppo tardi. Avevo solo bisogno di racimolare più soldi; anche se era difficile nascondere qualcosa ai miei genitori, sospettavano già di tutto ed erano molto perspicaci.

Di fronte a quelle parole, però, non potevo restare muta. Parlare di me era una cosa, tirare in ballo Paige decisamente troppo. Mi alzai e andai da loro.

«Farò qualunque cosa vogliate ma Paige non si tocca.»

«Certo che sì.» Mamma si alzò a sua volta e con il viso a pochi millimetri dal mio disse: «Sai cos’altro potresti fare? Impara a nuotare!»

Mi spinse indietro con una risata così fragorosa che la sentii persino sotto l’acqua gelida della piscina, persino nel sonno.

~*~

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«Cazzo.» Mi siedo di scatto nel letto, affannata. Non era un sogno. O meglio, era un sogno, nel senso che non mi sto sbracciando in piscina, ma c’è acqua dappertutto e mi piove addosso.

Guardo in su e una goccia mi colpisce la fronte. Sul soffitto in precedenza bianco c’è una chiazza d’acqua che si sta già colorando di marrone.

Oh no. Non ci posso credere.

Ruby non ha lasciato nessuna istruzione in caso di soffitto gocciolante.

«No. No, no, no, no» borbotto, un’unica parola che diventa un mantra. Scendendo dal letto umido mi accorgo che la moquette è inzuppata. Mi premo i palmi sulla fronte. Non è possibile.

«Paige!»

Mi precipito dabbasso, afferro pentole, padelle e asciugamani e torno sconvolta di sopra; mi sto aggirando per tutto il piano in maglietta e mutandine alla ricerca di perdite quando, finalmente, vedo Paige emergere dalla sua stanza.

«Che sta succedendo?» Ha i capelli arruffati e gli occhi ancora gonfi di sonno.

«C’è una perdita d’acqua.» Le lancio un asciugamani.

Fuori piove ancora, ma al ritmo più lento di pioggerella. La perdita sembra essere limitata a camera da letto e corridoio. L’ufficio è al sicuro e asciutto.

Che fortuna.

Adesso che abbiamo finito di sistemare tegami e bacinelle e abbiamo assorbito quanta più acqua possibile, mi serve un drink.

Dovrò trovare la maniera di contattare Ruby perché qualcuno venga a riparare il guasto. Non è una cosa da niente. Magari il suo commercialista può aiutarmi a risolvere il casino. Nel frattempo, dovrò dormire con Paige. E Ruby avrà bisogno di una camera da letto nuova.

Ma se poi chiamo il tipo e quello vuole venire qui? C’è la possibilità che riveli la mia identità al poliziotto.

Provo a ragionare sul problema. Non c’è ancora bisogno di farsi prendere da un incontenibile attacco di panico, ma un colpo alla porta mi sottrae alle mie elucubrazioni.

Apro senza fermarmi a controllare dallo spioncino.

Sulla veranda c’è di nuovo quello stronzone di un agente.

Questa volta si è portato dietro un collega. Un paio d’anni più giovane. Con un’espressione più sincera e benevola, lineamenti fanciulleschi e il sorriso facile.

«Buongiorno, signora. Ci... ehm... scusiamo se l’abbiamo svegliata» dice con una risatina impacciata; i luminosi occhi azzurri scorrono le mie gambe nude e tornano velocemente al viso.

Guardo in basso e mi accorgo di essere ancora in mutandine e maglietta.

Al solito, l’espressione dell’agente Reeves è impenetrabile, ma a me non sfugge la fiamma che gli accende per un istante gli occhi mentre guizzano su e giù.

L’altro agente ha ancora il sorrisino sulle labbra.

«Oh, merrr...» Stringo con forza gli occhi, come se così facendo potessi far scomparire tutto quello che mi circonda. «Un attimo, per favore.» Mi giro e quasi corro di sopra, urlandomi alle spalle: «Entrate e accomodatevi.»

Sento una risatina, quasi sicuramente non si tratta dell’idiota. Non riesco a immaginare un qualcosa capace di far ridere quella faccia di marmo.

Di sopra, Paige è ancora in pigiama, i capelli tutti aggrovigliati. Carponi, assorbe acqua dal pavimento di legno nel corridoio. «Chi è?» bisbiglia.

«La polizia.»

«Oh cacchio.»

«Modera il linguaggio.»

«Sono venuti ad arrestarti?»

«Non credo. Resta qui.»

«Uh!» sbuffa e si ritira nella sua stanza.

Una volta in camera da letto, chiudo la porta e mi ci appoggio, ho bisogno di riprendere un po’ fiato e raccogliere i pensieri.

Adesso ho due agenti convinti che io sia Ruby. E in questo istante sono dabbasso. Cosa possono volere? C’è un solo modo per scoprirlo e non posso nascondermi in eterno.

Indosso il primo paio di pantaloncini asciutti che trovo.

Al piano di sotto, gli agenti sono ancora in soggiorno, a studiare gli articoli che abbiamo esposto nelle vetrine e sugli scaffali.

«Vedi questa?» Il più giovane solleva un oggetto, mostrandolo a Reeves. «Questa pietra qui aiuta a eliminare la negatività. Dovremmo piazzarne una decina nella tua auto di servizio. Magari anche infilartene una in...»

«Chiedo scusa» dico, entrando nella stanza.

Si girano entrambi a guardarmi.

«Nessun problema, signora» risponde il più giovane. Che strano sentirsi dare della signora quando lui avrà sì e no qualche anno più di me. «Sono l’agente Reynolds. Ma mi chiami pure Troy.» Tende la mano e gliela stringo.

«Posso offrirvi qualcosa da bere? Ho... uhm... dell’acqua?»

Niente soldi per altro. Anche se forse nel freezer c’è del concentrato di limone.

«Volentieri, grazie...»

«La nostra non è una visita di piacere» lo interrompe l’agente Reeves.

«Mi scuso per il mio collega. Ha passato una brutta nottata.»

«Mi dispiace» mormoro, incrociando le braccia sul petto. «Come posso aiutarvi?»

I due si scambiano un’occhiata, quindi l’agente Reynolds... Troy... parla per primo. «Come già sa, ieri ha avuto a che fare con una certa signorina Cassie Graham.»

Annuisco. Mi sorprende che Reeves lasci le redini a Troy. A giudicare dal suo atteggiamento e dalle parole che usa, è evidente – anche a qualcuno che ignori la loro professione – che il più anziano dei due sia lui. Chi detiene una posizione di potere non rinuncia facilmente al controllo. Inoltre, ancor più interessante è il fatto che quando sono entrata Troy lo stesse punzecchiando. Quale agente parlerebbe così al proprio superiore? E quale superiore lo consentirebbe? Soprattutto uno dall’aspetto tanto rigido e severo.

«Si direbbe lei le abbia consigliato di tenersi alla larga dalla passeggiata.» Troy si ferma e con le sopracciglia inarcate attende la mia conferma.

Faccio nuovamente cenno di sì, che male c’è ad ammettere la verità?

«Bene» continua lui. «La signorina non le ha dato ascolto e ieri sera è stata vittima di un’aggressione con rapina.»

«L’hanno rapinata?» Lancio un’occhiata all’agente Reeves. Il solito Mister faccia di marmo. Dunque era questo che non aveva voluto dirmi ieri sera.

«Già.»

E perché raccontarmelo adesso? «Io che cosa c’entro, scusi? Non sono stata io, a rapinarla.»

«Di fatto lei non è sospetta» risponde Troy con una scrollatina di spalle. «Le ha consigliato di tenersi alla larga dalla scena del crimine, il che renderebbe difficile credere che ne sia implicata. Tuttavia, nel fare la propria deposizione, la vittima ha sottolineato con forza il rammarico di non averle dato ascolto e la convinzione della sua accuratezza nella previsione. Così, il nostro capo ci ha chiesto di venire qui a parlarle del caso.»

Guarda ancora una volta l’agente Reeves, quindi prosegue: «Vede, non abbiamo ancora alcun indizio.»

«Nessuno?» gli chiedo. «Cassie non ha visto il volto, dei segni particolari o che so io?»

«No. E il problema è proprio questo. Sembra che il rapitore l’abbia aggredita alle spalle coprendole la testa con una sacca prima di scappare via con la borsa.»

«Che strano» dico accigliata. «Niente testimoni?»

«No. Era buio e tardi. La signorina Graham era fuori dal ristorante, sola.»

Di nuovo qualche istante di silenzio durante il quale io rifletto su quelle informazioni e loro mi guardano speranzosi.

O meglio, Troy mi guarda speranzoso; Reeves è indecifrabile.

«La delinquenza non è diffusa a Castle Cove» aggiunge il primo, scuotendo la testa con espressione impacciata. «Non abbiamo casi irrisolti. Perciò, dopo il racconto di Cassie, e considerata l’assenza di indizi, il capo ha voluto che venissimo a chiederle di aiutarci con le indagini, o se per caso avesse delle... non so... sensazioni o altro.»

Scioccata fino al midollo, li fisso, non so come procedere.

«Non sarebbe la prima volta che le forze dell’ordine ricorrono all’ausilio di una sensitiva per le indagini» continua Troy. «Qualche tempo fa c’era un programma in TV, Psychic Detectives. Una volta la sensitiva aveva aiutato la polizia a catturare un killer e...»

«Può aiutarci, sì o no?» s’intromette l’agente Reeves.

Scuoto la testa, riflettendo più in fretta che posso.

Fingersi veggente con una studentessa per un’innocua truffetta è una cosa, fare altrettanto con una serie di esponenti delle forze dell’ordine è follia.

«Non posso.» E intanto cerco alla svelta potenziali scuse a mio sostegno. «Sto avviando un’attività, non posso permettermi di sottrarle tempo proprio adesso. E poi non parliamo di una scienza esatta. Non sempre vedo un quadro completo. Qualche volta ho visioni chiare e altre offuscate, le informazioni sono vaghe o del tutto inesistenti. Potrebbe rivelarsi uno spreco di tempo e risorse. E al momento... non avverto nessuna sensazione» aggiungo.

«Ma...» fa per dire Troy.

«Va bene così» lo interrompe l’agente Reeves con il suo intervento simultaneo. «Riferiremo al nostro responsabile la sua risposta» dice avviandosi verso la porta.

Troy lo segue a un passo più lento.

«Lo ringrazi per aver pensato a me» dico rivolta a quest’ultimo prima che varchi la soglia con il suo collega.

«Glielo dirò. E ne parlerò anche con mia sorella, le piacerebbe ricevere delle previsioni da una vera sensitiva. Magari le manderò qualche cliente.»

«Oh, che gentile» dico in tono fiacco.

Perché mai ho aperto questa boccaccia?

«Reynolds» abbaia l’agente Reeves dall’auto.

«Sarà meglio che vada; non vogliamo che l’orco perda le staffe.» Troy alza gli occhi al cielo e si dirige verso il vialetto di accesso.

«Ti ho sentito» urla l’altro.

«Lo scopo era proprio quello» ribatte Troy dandogli un buffetto.

Se possibile, Reeves gli rivolge un’occhiata ancor più gelida. «Non siamo all’asilo, Troy.»

«Da come hai piagnucolato tutta la mattinata avrei creduto di sì.»

La portiera si chiude con un colpo secco, fine della trasmissione. Incapace di trattenere un sorriso, sebbene con la morte in corpo, torno in casa.

«Hai intenzione di aiutarli?» chiede Paige, sbucando da dietro la porta.

«Ma sei pazza?»

«Magari ti pagherebbero.»

«Truffare i cittadini è già abbastanza vergognoso. Non mi va di correre rischi con la polizia.»

«Bene» risponde lei. Si stringe nelle spalle e fa un sorrisino. «Ho un’idea.»