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CAPITOLO SEI

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«Hai rubato delle videocamere spia a mamma e papà?»

«Loro le avevano rubate per primi a quei tipi dell’FBI che ci seguivano dappertutto. Ho pensato che forse ci sarebbero servite. E ho avuto ragione. Magari sono un po’ sensitiva anch’io» replica, con una risatina al di sopra del computer.

«Insomma, fammi capire bene. Il tuo piano è installare microspie e scoprire i segreti di tutti i residenti di Castle Cove?»

«Non per ricattarli o chissà che, voglio solo darti del materiale e farti passare per una vera veggente. Come con la conversazione che hai origliato al ristorante. Potremmo usare quel tipo di informazioni per le previsioni.»

«Tu non piazzerai nessuna spia» dico. «E io non m’intrufolerò in casa della gente.»

«Non in casa loro, solo nei posti più frequentati. Scommetto che scopriremmo un sacco di cose.» Batte per un po’ sui tasti. «Qui sembra di essere in una comunità Amish. Non ci sono telecamere da nessuna parte. Ci hai fatto caso? È strano. Come vivere nel secolo scorso o che so io.»

Eccome se l’avevo notato. Persino il negozio di articoli vari usa solo quei grandi specchi di sorveglianza circolari. Non che stessi progettando una rapina o altro, ma scrutare posti in cerca di dispositivi di registrazione è un’abitudine radicata in noi.

Il problema è che non voglio questo stile di vita diventi un fatto naturale per Paige.

Con un sospiro, la raggiungo al computer. «Spostati.»

Alla scorta dei nostri genitori ha sottratto quattro videocamere. Tutte di tecnologia avanzata, senza fili e, una volta collegate a un indirizzo IP, capaci di trasmettere da qualsiasi posto in diretta streaming su computer. Sono provviste anche di collegamento satellitare, il che è una fortuna. Le controlliamo individualmente per assicurarci che funzionino ancora, quindi decidiamo i punti strategici in cui installarle.

Il resto della giornata lo trascorriamo a creare volantini sul computer di Ruby.

«Dovremmo pensare a un’inaugurazione» suggerisce Paige mentre decidiamo il testo per la pubblicità.

Annuisco lentamente, ancora poco convinta ma consapevole che non ci siano una miriade di opzioni.

«Ma non possiamo vendere la merce di Ruby» dico.

«Perché no? Non useremo quei soldi, li terremo da parte per lei. Noi due intascheremo solo il ricavato dalle tue previsioni. Così, se le lasciamo un gruzzolo per iniziare, magari non ci denuncerà, né verrà a cercarci. E poi sarebbe strano se nelle prossime settimane ricevessimo tutte quelle consegne senza vendere niente.»

L’intera faccenda continua a peggiorare, ma faccio cenno di sì. Ha senso.

«Dobbiamo aprire tra due settimane» dico. «Così avremo tempo per raccogliere informazioni. Ma non possiamo aspettare troppo. Non so fino a quando riusciremo a tirare avanti con i duecento dollari che abbiamo.»

Paige annuisce in accordo. «Possiamo farcela. Andrà tutto alla grande» dice con un sorriso.

Giro lo schermo per mostrarle il volantino finito. «Che ne pensi? Potrei offrire dei consulti di gruppo, tipo speed dating, dieci dollari per dieci minuti.

Ho trovato una fonte simile a quella dell’insegna di Ruby. Inaugurazione. Il foglio coloratissimo promette consulti divinatori e ripristino dei chakra... dietro compenso, naturalmente.

«Va bene» approva Paige con un largo sorriso, decisamente più entusiasta di me.

Il mattino dopo siamo pronte a mettere in pratica il nostro piano.

«Buongiorno, signor Bingel» dico forte al vicino mentre ci allontaniamo.

È fuori a potare la sua pianta di rose. Faceva altrettanto ieri quando ho provato di nuovo a parlargli, ma ancora non mi risponde. O meglio, non in maniera diretta.

Bofonchia qualcosa su come il nome Ruby sembri quello di una prostituta, quindi passa a borbottare di idioti, stupidità e ragazzine ridicole. Infine si alza e se ne torna in casa. Paige ride. «È troppo comico.»

Mi fa piacere che sia tornata finalmente di buon umore, ma che alla base del tanto sospirato entusiasmo ci siano delle attività illegali mi lascia perplessa.

«Tu occupati dei volantini, io piazzerò le cimici» dico intanto che camminiamo lungo la passeggiata.

«Bene» accetta lei, sapendo che non cambierò idea. Le permetterò di aiutarmi, ma solo entro certi limiti, ed è già tanto.

La via principale è un po’ più animata rispetto a qualche giorno fa grazie ai gruppetti di ragazzi che vi si riversano durante la vacanza primaverile.

Tra un’installazione e l’altra, affiggiamo manifesti su alcuni dei pali lungo la passeggiata.

Una volta finito, Paige insiste per andare in bagno prima d’incamminarci verso casa ed entra in quello di un ferramenta. Io aspetto fuori e intanto osservo una brunetta alla cassa che sembra distratta da un tipo spettinato, appoggiato al bancone e proteso verso di lei.

La gente è strana. I gesti dei due indicano attrazione reciproca – i corpi tesi in avanti, le braccia aperte – ma le occhiate furtive che si lanciano a vicenda dicono chiaramente che l’uno non vuole che l’altra lo sappia. Sono fortunati. Potessi viverla io, un’esperienza tanto innocua quanto un flirt. Magari il mio problema più grosso fosse piacere o meno a qualcuno.

Ho la schiena dolorante e la massaggio. Ieri notte sono stata costretta a dormire con Paige per via del materasso bagnato in camera mia, e lei non è una tranquilla. Mi ha mollato due pugni in faccia e almeno tre calci nelle reni.

L’altro giorno ho composto il numero internazionale che mi ha lasciato Ruby per dirle della perdita... e magari tastare il terreno e assicurarmi che si trovasse ancora in India e non stesse pensando di tornarne qui all’improvviso. Ho finito col lasciare un messaggio al tipo indiano del negozio a poche miglia dall’ashram. Parlava con accento marcatamente inglese e continuava a darmi dell’onorevolissima signora Charlotte.

Il commercialista di Ruby non l’ho ancora chiamato, anche se il mal di schiena potrebbe farmi cambiare idea. Ma se poi quello si presenta a compromettermi la copertura? Non possiamo rischiare.

Una mano mi tira la manica. «Vuole comprare un gattino?»

Abbasso lo sguardo. È un bimbetto coi capelli scuri e ribelli e il faccino striato di sporco. Ha non più di sei anni.

«Fai molti affari così conciato come sei?» gli chiedo.

I grandi occhi marroni si spalancano. «Cosa?»

Sospiro. Avrei potuto sceneggiarlo, quello stratagemma. Infatti, da bambina i miei genitori mi facevano giocare la carta della monella sudicia. È molto efficace. E i mici poi... Cosa c’è di meglio di frugoletti e gattini? Un tranello perfetto.

«Ehi, e questo chi è?» chiede Paige tornata dal ferramenta.

«Vende gattini» rispondo io.

Sul suo viso si apre un sorriso di pura gioia mentre, di sicuro, pensa ciò che sto pensando anch’io.

«Dovremmo dargli uno sguardo» dice, con una leggera gomitata.

O forse no.

«Niente animali» rispondo perentoria. Ho già infranto parecchie delle regole di Ruby, per non parlare poi dell’identità che le ho rubato.

«Non lo compriamo, gli diamo solo un’occhiata» insiste lei prima di rivolgersi al bambino. «Va bene?»

Il piccolo sorride facendo guizzare una fossetta sulla guancia destra, quindi urla “Vieni” e schizza via.

Paige lo segue e io non ho scelta se non accodarmi.

Alla fine del passeggio, quasi al limite con la strada, ci fermiamo. C’è uno scatolone floscio con un ragazzino seduto di fianco. È più piccolo di Paige, avrà nove o dieci anni.

«Ecco il gattino» dice il monello.

Mi accovaccio accanto a Paige e scruto all’interno. Un gatto grosso, sporco e nero con un orecchio lacerato e una zampa mancante mi soffia contro.

«Quello non è un gattino» protesto io.

«Cosa gli è successo alla zampa?» chiede Paige in tono mortificato e decisamente troppo compassionevole.

Le lancio un’occhiataccia ma non la vede, impegnata com’è ad accarezzare con lo sguardo il gatto e i bambini.

Non pensarci neanche.

«È stata una terribile disgrazia» risponde il più grande.

Devono essere fratelli. Hanno la stessa chioma scura e ingovernabile e i nasini spruzzati di lentiggini. Indossano vestiti logori ma puliti e, a giudicare dal nero delle unghie, non si lavano da qualche giorno.

Non che sia un fatto particolarmente strano per i maschietti. Non penso proprio.

«Che tipo di disgrazia?» chiedo.

I due si scambiano un’occhiata. «È caduto in una trappola» risponde il più grande guardandomi solo a frase conclusa.

Non penso che stia mentendo, ma ho l’impressione che nasconda qualcosa.

«Come si chiama?» chiede Paige.

«Graffio» risponde il piccolino.

Le mie sopracciglia si inarcano. «Graffio?»

La testolina va energicamente su e giù. «Lo comprate, allora?»

Apro la bocca per rispondere un perentorio no, ma l’espressione di Paige mi blocca all’istante.

Abbiamo sempre desiderato un animale domestico. Una volta, Paige tornò a casa con un cane randagio e appena nostro padre lo scoprì lo portò via. Non chiedemmo mai cosa ne avesse fatto, preferivamo non sapere. Ma non provammo mai più a raccogliere un animale.

«Quanto?»

«Dieci dollari» risponde subito il piccolo.

«Venti» si affretta a correggerlo il più grande. «Vogliamo risparmiare dei soldi per delle bici nuove.»

Non dovrei. Ma Paige merita un po’ di normalità. Comportarsi come gli altri ragazzi. Fare qualcosa che non sia imbrogliare la gente. Sarà lo sguardo speranzoso negli occhi dei fratellini o il fatto che proprio non so dire di no quando si tratta di dare a Paige quello che desidera, ma le parole rotolano fuori da sole.

«Facciamo una cosa, perché non ci aiutate a portare il gatto a casa? I soldi sono lì.»

I due fanno cenno di sì con le teste prima ancora che abbia finito la frase e Paige mi getta le braccia al collo con un gridolino di gioia.

«Il gatto è responsabilità tua» dico.

«Lo so, me ne occuperò io, lo prometto.»

«Non abitiamo lontano.» Indico la direzione di casa. «Solo qualche isolato.»

Il più grande dei fratelli porta lo scatolone con dentro Graffio e ci avviamo tutti insieme, in silenzio.

«Come vi chiamate?» mi decido a chiedere dopo qualche minuto.

«Io sono Greg Sullivan e questo è mio fratello, Gary» risponde il maggiore dei due.

«Io sono Paige e questa è mia sorella, Ruby.» La bugia le è sfuggita dalle labbra che adesso mi sorridono.

«Ho sentito qualcuno che parlava di te» dice Gary, fissandomi con occhi spalancati e curiosi. «Sei una strega?»

«No che non lo sono.» Che la gente parli di me, però, mi preoccupa. Non mi ero accorta di essere stata notata, ma con la polizia davanti la porta di casa e tutto il resto era ovvio che iniziassero a circolare voci.

«Dicevano che leggi il futuro, e non è normale.»

Faccio spallucce. «Forse hanno ragione.»

«Puoi vedere il mio?» chiede con occhi enormi.

Arrivati alla strada ci fermiamo. Prendo la mano di Gary e faccio segno agli altri di lasciar passare la macchina in arrivo prima di attraversare.

«Sì, leggigli il futuro, Ruby.» Paige se la sta spassando alla grande.

«Sei troppo piccolo. Non è possibile predire il tuo futuro perché non hai ancora preso delle decisioni abbastanza importanti da lasciar prevedere chi sei e come reagirai nella vita.»

Non ho idea di quello che dico, ma lo vedo annuire – forse poco convinto – e non devo inventarmi niente da raccontargli.

Arrivati a casa, Paige porta i fratellini e il gatto in soggiorno mentre io vado a prendere i venti dollari dal barattolo dei biscotti, dove l’altro giorno ho nascosto i soldi di Cassie.

«Ecco qui.»

Tendo la banconota a Greg che se la infila in tasca senza neanche incrociare il mio sguardo. «Grazie. Dobbiamo andare adesso. Nostro padre ci aspetta a casa.»

«Va bene.» Li accompagno alla porta, Paige è troppo impegnata con il gatto per occuparsene.

Prima di salutarmi, Gary mi abbraccia, stringendomi forte alla vita per qualche secondo, quindi si stacca. «Grazie per aver preso con te Graffio.»

La vocina mi sembra triste, ma non riesco a vedergli il viso perché si gira di scatto ed entrambi i fratelli corrono via sul prato antistante la casa e giù per la strada verso il passeggio.

Li guardo perplessa. Qualcosa non quadra. Ma non ho tempo di indugiare su quel pensiero, un lamento dal soggiorno cattura la mia attenzione.

Dopo qualche ora, una montagna di acqua e sapone e una dozzina di graffi, il gatto è più o meno pulito. E penso che mi odi. Paige non l’ha graffiata neanche una volta, accanendosi invece contro di me quando gli capitavo a tiro.

Dopo il bagno forzato, si è fiondato sotto il divano e non l’abbiamo più visto.

Paige mi sta aiutando a mettere della salvia sui tagli quando mi rendo conto che non abbiamo cibo per gatti.

«Vado a comprarlo io» si offre lei.

«Non ho intenzione di restare da sola con quel demonio di un gatto.»

«E se arrivasse qualcuno per un consulto?»

«Possono aspettare.»

Alla fine ci andiamo insieme.

«Grazie per il gatto.» Paige si ferma di scatto e mi abbraccia nel bel mezzo del marciapiede davanti alla casa del signor Bingel.

«Prego» dico io, godendo per qualche istante di quella manifestazione di affetto, ormai sempre più rara da quando Paige non è più bambina.

Quando infine si stacca, noto che sulla nostra veranda c’è qualcuno.

È una donna con capelli lunghi e scuri e indossa un paio di jeans e una maglia colorata. Da questa distanza non vedo altro.

«Ha bisogno di qualcosa?» chiedo ad alta voce mentre ci avviciniamo.

«Salve» risponde lei girandosi. «Sei Ruby?»

Ecco una domanda insidiosa.

Ha tratti delicati e qualche centimetro in meno del mio metro e sessantasette. Tra le mani una casseruola da forno e sul viso un sorriso cordiale. Deve avere la mia età, forse uno o due anni in più.

La riconosco. È la brunetta dietro la cassa del ferramenta in cui Paige ha piazzato una cimice. La giovane che flirtava col tipo dalla chioma spettinata.

«Io sono Paige» dice mia sorella di fronte al mio silenzio. «E questa è mia sorella, Ruby. È qui per un consulto?»

«Mi chiamo Tabby Reynolds» si presenta la giovane. «La mia è solo una visita di cortesia. Sarei venuta prima, ma non mi ero accorta che avevano finalmente venduto questa casa. Ci provavano da anni.»

Riconosco il cognome e faccio due più due. Per fortuna lei e Troy si somigliano moltissimo. «Sei la sorella dell’agente Reynolds?»

«Sì.» Un sorriso radioso e contagioso le illumina il viso. «Mi ha detto che eravate appena arrivate, così vi ho preparato uno stufato. Beh, in realtà è stata la signora Olsen.» Solleva piano il tegame. «Io vi ho solo risparmiato la sua compagnia» aggiunge sbuffando. Quel suono poco elegante da una figura tanto delicata come la sua è una sorpresa. «Andiamo, vi aiuto a portar dentro la roba.»

«S...sì.» Non che ci lasci scelta. Passo la busta con il cibo del gatto a Paige e apro la porta.

Tabby ci segue in cucina. «È già venuta a trovarvi parecchia gente del posto?»

«Non abbiamo ancora aperto» rispondo io con prudenza.

«Ma Troy diceva che hai già avuto una cliente, quella che è stata rapinata, e che le avevi predetto tutto.»

Paige prende una ciotola dalla credenza e la riempie con il cibo per il gatto.

«Lo sai anche tu?» chiedo.

«È una cittadina piccola. Difficile starnutire senza che tutti vedano il colore del tuo muco.»

Paige ride.

Magnifico. Non mi meraviglia che persino i bambini sapessero di me. E forse dovrei preoccuparmi. La vera Ruby ha trascorso qui solo qualche ora, ma se qualcuno l’avesse vista? O le avesse parlato? Come risponderei a eventuali domande?

«E comunque, come funziona questa faccenda della chiaroveggenza?» chiede Tabby.

«È difficile spiegarlo» rispondo elusiva, prendendole la casseruola dalle mani.

«Beh, come facevi a sapere ciò che sarebbe successo a quella ragazza?»

Mantenendo una certa coerenza, ripeto quello che avevo già raccontato a suo fratello. «Sentivo che sarebbe accaduto qualcosa di spiacevole, ma non sapevo esattamente cosa. A volte i dettagli mi sfuggono e avverto solo delle sensazioni generali.»

«Oh.» Sembra un po’ delusa dalla risposta.

«Altre volte i particolari sono più immediati. Dipende dai consulti.» Mi giro per mettere via la casseruola.

«Cos’è successo al vostro gatto?»

Tiro fuori la testa dal frigo e noto che Tabby è nell’area tra cucina e soggiorno, dove si direbbe stia curiosando.

«È stato soccorso» risponde Paige. «Lo abbiamo preso oggi» aggiunge, facendo poi dei versi per attirare quel selvaggio verso il cibo.

«Sembra schizzato» dice Tabby.

Non ha tutti i torti, penso ridendo forte. Persino da pulito, la zampa storpia e l’orecchio sbrindellato gli conferiscono un aspetto da creatura posseduta. Mi sorprende che Tabby sia così diretta con gente che conosce a malapena. Nella mia limitata esperienza, al primo incontro le cortesie si sprecano. La vera personalità di ciascuno si manifesta solo dopo.

«Bene, sarò sfacciata.» Tabby tira a sé una sedia e siede al piccolo tavolo di legno in cucina.

«Non lo stavi già facendo?»

Risponde con una risatina e continua a parlare. «Siete nuove del posto perciò, se non volete fare i conti con l’inquisizione, mi racconterete tutto di voi e io provvederò a spargere la voce. Fidatevi, è più semplice così» dice, annuendo con aria solenne.

Scambio un’occhiata con Paige.

«Non so...» inizio io.

«Tranquilla» dice perentoria Tabby, respingendo le mie preoccupazioni con un gesto della mano. «Faremo in fretta e sarò buona.» Apre la borsetta e tira fuori una penna e un taccuino, con una specie di elenco.

Rido per la sorpresa. «Non stai scherzando.»

«Magari. Di dove siete?» inizia, serissima.

Le propiniamo alcune delle risposte preconfezionate già date anche all’agente Reeves e le raccontiamo la storiella che abbiamo inventato sul perché sia io ad allevare Paige. Veniamo da New York, i nostri genitori sono morti, ecc.

Dopo le risposte fondamentali, Paige si stanca della nostra compagnia e preferisce trasferirsi davanti alla TV a spazzolare Graffio, che esprime la propria soddisfazione facendo le fusa e strofinando la testa contro di lei.

Con Paige fuori portata d’orecchio, le domande si fanno più strane.

«Sei single?» La penna picchia sul taccuino.

«Sì.»

«Hai figli? Nel senso di tuoi, a parte tua sorella?»

«Solo un gatto con tre zampe che si chiama Graffio.»

Tabby non sembra affatto turbata. «Benissimo. Sei gay?»

Do un colpetto di tosse. «Cosa?»

«Ma sì, preferisci gli uomini o le donne?»

«E questo cosa c’entra?»

«Niente. Ma non preoccuparti. Non ti giudicherà nessuno. Te lo chiedo solo affinché le vecchie pettegole sappiano con chi combinarti appuntamenti.»

Scuoto la testa. «Non ho intenzione di uscire con nessuno.»

«Dicono tutti così» borbotta lei.

O Signore! «Ho bisogno di un drink.»

Tabby annuisce. «Buon’idea.»

Tiro fuori dal frigo una brocca di limonata.

«C’è vodka lì dentro?» chiede, fissando il vetro con diffidenza.

«No.»

«Tequila?»

«No.»

«Ma allora che senso ha?»

«Ci ho messo più o meno tre tazze di zucchero.» Prendo due bicchieri dalla credenza.

Tabby mi lancia uno sguardo indagatore e arriccia le labbra. «Sei strana tu, eh?»

Faccio spallucce, arrossendo un po’. È probabile che lo sia, la mia infanzia non è stata proprio normale, ma pensavo di averlo nascosto bene.

«Bene. Ci avevo visto giusto. Tra simili ci si riconosce.»

E cos’altro potrei fare se non ridere di fronte a quella risposta?

Qualche ora dopo abbiamo quasi finito la limonata e mangiato, con l’aiuto di Paige, metà dello stufato. Tabby è la persona più brutalmente onesta che abbia mai incontrato... non che ne abbia incontrate molte. È una situazione strana e aspetto di vedere come procederà. Che cosa vuole da me, di preciso? Non sono abituata ad avere intorno gente priva di secondi fini. Tranne Paige.

«Raccontami qualcosa sulla gente del posto» dico. Mi sembra giusto visto che ho passato il pomeriggio a rispondere alle sue domande. E poi, più ne so meglio è.

«Di chi vuoi sapere?»

«Chiunque. Tutti. Dimmi della cittadina.»

«Non c’è molto da raccontare» risponde lei. «Ci sono cresciuta. È piccola, noiosa e piena di vecchi. Le pettegole gestiscono l’intero posto e hanno l’ultima parola su tutto. Ci sono degli anziani che pensano di avere un qualche potere, ma la verità la conosciamo tutti.»

«Vedo... e tu?»

«Io cosa?»

«Famiglia?»

«Hai incontrato mio fratello, Troy.»

Annuisco e le riempio il bicchiere, osservandole il viso mentre verso la limonata. «Siete gemelli?» La struttura ossea è quasi identica.

«Sì. Beh, lui è tre minuti più grande. Ha iniziato a lavorare presso l’ufficio dello sceriffo l’autunno scorso. Siamo cresciuti entrambi qui. I nostri genitori sono andati in pensione un paio d’anni fa e hanno deciso di girare il Paese in camper, così mi sono presa il ferramenta. Era di papà e Troy non voleva occuparsene.»

«Ti piace?»

«Sì. Riparare guasti è una mia passione.»

«Ti occupi anche di tetti?»

Le sopracciglia di Tabby si inarcano. «Qualche perdita provocata dalla tempesta dell’altra sera?»

«Purtroppo.»

«Un bel casino» dice con una smorfia. «I danni idrici non sono uno scherzo.»

«Sai se il mio vicino ha qualche problema?»

«Chi, il signor Bingel?»

Faccio cenno di sì.

«Da quando gli è morta la moglie se ne sta per i fatti suoi. Saranno già... una decina d’anni, ormai. Era molto più socievole di lui. Di tanto in tanto però lo vedo in negozio.»

«Ti parla?»

«Non direi. Brontola, paga e se ne va. Ma è così da quando ero piccola. Anche prima che Martha morisse.»

«Oh.» Immagino di potermi considerare sollevata che il suo sdegno non sia riservato solo a me e a Paige.

«Credo che non sappia come passare il tempo. Avevano un figlio, più grande di me. Morì in Afghanistan e lui è rimasto solo.»

Povero signor Bingel. Per forza è sempre scorbutico. «E delle vecchie pettegole che gestiscono il posto? C’è qualcosa che dovrei sapere?»

«Allora... la signora Olsen» inizia Tabby.

«La tipa della casseruola.»

«Già. A volte la chiamiamo nonna ma è più che altro un titolo onorifico. Si prende cura di me e di Troy e ci rimpinza di cibo sin da quando i nostri genitori sono andati in pensione e si sono trasferiti. È anche la sensale del posto. O così pensa lei. Sempre alla ricerca di soggetti da accoppiare che, di solito, finiscono con qualcun altro di completamente diverso da quella che lei credeva fosse la persona giusta. C’è da ridere» dice con una smorfia. «A meno che non sia tu, la persona che vuole accoppiare, perché in quel caso è terrificante. La riconoscerai immediatamente, indossa sempre abiti con gatti.»

«Gatti?»

«Già. Enormi. Non ho idea di dove la trovi, roba così. Ha almeno un centinaio di camicie con gatti; non le ho mai visto indossare la stessa più di una volta. Poi c’è la signorina Viola. Sorda come una campana, ma sapessi che ridere guardarla conversare con la signora Olsen. Prima o poi le incontrerai tutte.»

Restiamo sedute tranquillamente in silenzio per qualche attimo. «E l’agente Reeves?» chiedo poi, sforzandomi di apparire disinvolta.

Anzi, lo sono. Quello che più mi preme è stare alla larga dai guai. Qualsiasi guaio. Lo sguardo penetrante e quello schianto di sedere non c’entrano un bel niente.

«Jared è cresciuto qui, come tutti noi. Si è laureato un paio d’anni prima di Troy. Dopo le superiori si è trasferito e ha frequentato l’università dall’altra parte del Paese... dove ha deciso di diventare agente. È tornato qui solo qualche anno fa, quando i suoi genitori... Insomma, è dovuto tornare.»

Interessante. «Cos’è accaduto ai suoi genitori?»

«Sono morti. Incidente d’auto.»

«Che peccato» dico con una smorfia.

«Già. Da allora è cambiato. Un tempo era un ragazzaccio. Per lo scherzo dei maturandi, portò via dei maiali alla Farmer Barney e li lasciò liberi di vagare per la scuola. Ne aveva presi solo tre, ma su ciascuno aveva dipinto i numeri uno, due e quattro» racconta, ridendo. «Si dice che gli insegnanti trascorsero ore a cercare il porco numero tre che, però, non esisteva. La gente ne parla ancora.»

«Molto astuto.» Cerco di conciliare l’immagine di un ragazzo capace di un simile scherzo con quella dell’uomo che mi guarda come se avessi permesso al mio cane di fare i bisogni sul suo prato. «Non si direbbe lo stesso Jared che ho incontrato io.»

«No» concorda subito l’altra. «Neanche un po’.»

Beviamo entrambe un sorso di limonata, quindi lei dice: «Sono contenta tu ti sia trasferita qui.»

«Davvero?»

«In questo posto non ci sono molte donne che non siano sposate e al di sotto dei cinquanta. La maggior parte della gente si trasferisce altrove dopo le superiori visto che non abbiamo università nei paraggi e neanche un’infinità di offerte di lavoro per chi vuole perseguire una carriera.»

Ai miei genitori piacerebbe molto. Gli anziani sono spesso oggetto di truffe, così facili da manipolare: annoiati, creduloni, soli, esposti a disabilità mentali... e pensionati. Tendono ad accumulare più soldi rispetto ai giovani e offrono guadagni facili se gli proponi di investire i risparmi in qualcosa che possa rendere più eccitante la loro vecchiaia o accrescere l’eredità da lasciare ai parenti. Con un gesto interiore, spingo da parte quei pensieri. Non è per questo che sono qui.

Sto per domandarle chi le resta da frequentare, quando un fracasso e un grido di profondo dolore riempiono l’aria.

Seguiti dall’inconfondibile suono della voce di Paige. «Ops.»

«Cos’è stato?» chiede Tabby.

Un profondo sospiro. «Graffio» mi limito a rispondere prima di correre con una smorfia verso la fonte del fragore.

Più mi avvicino più il mugolio cresce.

Tabby mi segue a ruota. Arrivata nella zona adibita a negozio mi fermo di scatto e lei mi finisce contro. Alla vista del gran pasticcio griderei più forte del dannato gatto, ma riesco a limitarmi a un lamento angoscioso.

«Cos’è successo?» chiede Tabby dietro di me. È troppo bassa per vedere lo scempio causato dal gatto, che ha buttato giù un intero scaffale espositivo. Uno di quelli su cui avevamo disposto alcuni dei prodotti ricevuti prima, naturalmente. Merce fragile. Articoli di vetro ormai ridotti a schegge sparse su tutto il pavimento.

Lo spigolo si è conficcato nel pavimento di legno e Paige sta affannosamente cercando di liberare il gatto rimasto intrappolato.

L’istinto di uccidere la bestiaccia e Paige, o lasciarli al loro destino, è forte, invece mi faccio strada tra quel disastro e l’aiuto a sollevare lo scaffale ormai distrutto. Il gatto deve aver percepito l’imminente pericolo di vita, perché si fionda fuori dalla porta e scompare nel corridoio buio. Ma Paige non è altrettanto svelta.

«Mi dispiace Ch... ehm Ruby» dice, trasalendo per il lapsus.

«Va bene» rispondo io.

«Graffio cercava di saltare sullo scaffale, ho provato a fermarlo ma non sono riuscita ad afferrarlo in tempo.»

«Non è colpa tua. Perché non vai a dargli un’occhiata? Pulisco io.»

Paige fa cenno di sì e si allontana, ancora un po’ abbattuta.

Mi inginocchio sul pavimento e prendo a raccogliere pezzi di vetro e legno.

Perché succede sempre così? Adesso dovremo anche ricomprare questa roba. Un’altra spesa da aggiungere all’interminabile elenco che inizia a soffocarmi come una valanga di fango.

«Ehi.» Tabby mi s’inginocchia accanto. «Ti farai male. È tutto in frantumi. Non puoi rimediare.»

Ha ragione, ma non voglio che sia così.

Le sue parole mi colpiscono con una certa violenza. Non puoi rimediare.

Ma devo. Sono costretta.

D’un tratto ho la sensazione di non poterci fare nulla, di non poter fare nulla per Paige. O per me stessa.

E il punto è stato questo sin dall’inizio, no? Anche se si direbbe che l’artefice di questo pasticcio sia stata io.

Forse il problema sono proprio io.

Forse quando frequenti gente sbagliata resti per sempre una di loro.

Forse Paige se la caverebbe meglio senza i nostri genitori... e senza di me.

Smetto di raccogliere frantumi e mi siedo, a fissare le schegge di vetro sparse per il pavimento come sogni infranti.

«Tutto bene?» mi chiede Tabby in tono sommesso, come se percepisse il crollo nervoso ormai prossimo.

«Sì. Solo che...» la mia mano si apre e i pezzi raccolti cadono picchiettando sul pavimento. «Non posso farcela.»

«Ma sì, bastano una scopa e una paletta e...»

«No, non hai capito. Non posso farcela. Non posso fare niente di tutto questo.» Indico con un gesto l’intero negozio. «Non so perché ci stia provando. Sono un fallimento, e non ho ancora neanche iniziato.»

«Tu non sei un fallimento.» La sua voce è pacata e seria anche se, probabilmente, dovrebbe chiedermi di chiudere il becco. «Si fallisce solo quando si smette di provare.»

Tabby, una donna incontrata solo alcune ore fa, è accovacciata accanto a me, la mano sul mio braccio, a darmi più conforto di quanto ne abbia mai ricevuto da altri in tutta la vita, a parte Paige. Questa estranea mi sta trattando meglio di quanto abbiano mai fatto i miei stessi genitori.

Non so davvero cosa rispondere.

«Forza» dice, abbassando la mano. «Diamoci da fare.»

In silenzio, ripuliamo il pasticcio. Tabby regge la paletta mentre io spazzo con cura i frammenti della mia vita tra i rifiuti.

Poi mi dà una pacca sulla spalla.

«Andiamo a bere.»