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CAPITOLO SETTE

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«Non posso lasciare Paige per troppo tempo» dico a Tabby per la tredicesima volta da quando siamo uscite di casa.

Non che a Paige importi. Mi ha assicurato che non ci sarebbero stati problemi, non è una bambina, anzi è quasi adulta.

E poi Tabby mi ha garantito che saremmo state via un paio d’ore al massimo. Castle Cove non è quel che si dice un posto invaso dalla criminalità – fatta eccezione per il molo l’altra sera – e con la porta chiusa a chiave, Paige è al sicuro quanto i gioielli della Corona. Dice lei. E noi saremo al Ben’s Tavern, a meno di un miglio di distanza.

Il bar è chiassoso e affollato. Nonostante l’opera di convincimento, persuasione e rassicurazione di Tabby e Paige, non sono ancora sicura di aver fatto bene ad accettare questo piccolo svago, ma è troppo tardi per fare retromarcia. Le mie emozioni sono ancora in subbuglio e la presenza esuberante di Tabby mi è di aiuto.

«Questo giro è mio» mi urla nell’orecchio al di sopra della gente che conversa e ride, quindi svanisce tra la folla di corpi, presumibilmente diretta verso il bar.

In questo minuscolo posto devono essersi ammassati tutti gli abitanti della cittadina. Adesso che Tabby è andata resto immobile come una catasta di legno contro ondate di corpi che mi si abbattono contro. Non conosco nessuno. E non mi va neanche di parlare. Finora non ho avuto troppa fortuna con i residenti.

Non ci sono posti a sedere; tavoli e séparé sono tutti occupati. Raggiungo a fatica la parete, mi ci appoggio con la spalla e osservo.

Ben’s Tavern è un’accozzaglia di oggetti strani e temi contrastanti. Il bancone del bar è in legno lucido ed è ben tenuto. Sulle pareti, accanto a foto in bianco e nero di vecchie rockstar, ci sono alcune maglie da giocatori. Da una parte un palco per un complesso, con un impianto karaoke ammucchiato in un angolo, e dall’altra gli affari strani che pendono dal soffitto sul bar e variano da fotografie e banconote a rane di plastica.

Ci sono alcuni tavoli da biliardo a nove biglie circondati per lo più da uomini, tra cui riconosco l’agente Reynolds – Troy – in abiti civili: maglia, jeans e cappello da baseball con la visiera quasi sugli occhi. Li guardo giocare per qualche minuto, prendendo nota mentale di tecniche e bravura. Mi piacerebbe osservare in maniera del tutto spassionata, ma alcune abitudini sono dure a morire. L’agente Reynolds non è male, ma neanche un granché. I suoi avversari sono migliori, ma non bravi quanto me. Quella dello squalo del biliardo è una delle truffe più facili, soprattutto se sei donna. Le donne sono eternamente sottovalutate.

Non passa troppo tempo che Tabby ricompare e mi spinge nella mano una sorta di cocktail.

«Manda subito giù» dice, quindi tracanna una lunga sorsata dal proprio bicchiere.

«Cosa? Perché?»

«Fallo e basta.» Chiude le dita intorno a un immaginario bicchiere e mi fa segno di sbrigarmi.

Porto il mio alle labbra ma lei lo solleva ulteriormente, accelerando la discesa del liquido freddo giù per la gola. Do un colpo di tosse e spingo il bicchiere da parte, sto per chiederle perché vuole che lo beva tutto d’un fiato, quando mi accorgo di un’altra presenza accanto a noi.

«Tabby, ti ho detto che non hai più il permesso di andare dietro il bancone del bar.» È un giovane. Alto e snello con capelli biondo rossicci e un’espressione incavolata. Credo sia lo stesso tipo con cui l’ho vista conversare al ferramenta.

«Non sono dietro il bancone del bar» ribatte lei.

«Più che dietro il bar, finirai dietro le sbarre se non paghi per i tuoi drink» insiste lui, ma in tono tutt’altro che acceso.

«Sì sì, proprio così, Ben.» Si getta i capelli all’indietro. «Sai che mio fratello non mi arresterebbe. Anzi, mi difenderebbe e probabilmente pagherebbe al mio posto. Non che debba. Sei tu, quello in debito con me.»

Il giovane sospira e scuote la testa, poi sembra accorgersi che a osservare il loro scambio ci sono anch’io.

«Ehi» dice, con un cenno di saluto.

«Questa è Ruby» interviene Tabby. «Ha appena acquistato il nuovo negozio sulla Norfolk. Ruby, ti presento Ben, il proprietario di questo bel posto e un gran rompiscatole.»

«Ah sì, ho visto l’insegna. Le previsioni di Ruby.» Ignora Tabby e mi tende la mano.

«Piacere.»

«Tu» dice, tornando a rivolgersi a Tabby e puntandole un dito contro «mi devi dieci dollari per quei drink.»

«Io non ti devo un bel niente. E poi, dieci dollari? Col cavolo. Non è mica il Bellagio, questo.»

«Ruby» qualcun altro s’intromette nella conversazione, frapponendosi tra me e Tabby e circondandomi le spalle con un braccio.

«Agente Reynolds» dico io, un po’ rigida. Immagino l’eccesso di confidenza tra avventori in un bar sia normale, ma dubito di essere mai stata spontaneamente tanto vicina a un poliziotto.

«Sono fuori servizio, chiamami Troy, e vengo a salvarti da questi due sfigati e i loro interminabili litigi. All’inizio è simpatico ma dopo un po’ finisci col desiderare di bruciarti da solo le orecchie. Che ne dici di una partita a biliardo?»

«Non so giocare.» La risposta è automatica.

«Non voglio che giochi, devi solo guardare» replica lui con un sorrisino.

Lancio un’occhiata a Tabby, ma sta ancora litigando con Ben.

«Non se ne accorgerà neanche. Iniziano a discutere e poi vanno avanti per almeno un’ora prima di tornare al mondo reale. Fidati.»

A corto di scuse, cedo con un cenno di assenso e lo seguo fino al tavolo da biliardo. Troy mette via il mio bicchiere ormai vuoto e me ne porge un altro colmo di birra da una caraffa su uno sgabello lì vicino.

«Non bisogna essere sensitivi per sapere chi vincerà questa partita» dice, gonfiando il petto e puntandosi contro entrambi i pollici. «Io.»  

Non riesco a trattenere una risata.

Inizia a sistemare le biglie e guardandomi oltre la spalla chiede: «Scherzi a parte, sei davvero in grado di predire se vincerò? Voglio sapere se mi conviene puntare soldi.»

Do un’occhiata al suo avversario. All’altro capo del tavolo c’è un signore più grande che regge la stecca e parla con qualcun altro.

«Non so. Sembra abbastanza abile.»

L’uomo in questione sceglie quel momento per emettere un sonoro rutto.

«Già. Un vero squalo» ribatte Troy sarcastico. «Sicura di essere una sensitiva?»

«Te l’ho detto...»

«Lo so, non è una scienza esatta. Tranquilla, non ti stroncherò come il mio collega. Forse ti stuzzicherò un po’, ma» si stringe nella spalle «a volte accadono cose inspiegabili e io non escluderò mai nessuna ipotesi, che sia paranormale o no.»

«Sei un tipo di larghe vedute.»

«Sono un tipo abbastanza in gamba» risponde lui con un ampio sorriso. «Chiedi in giro.»

In quell’istante, dal lato opposto del bar arriva una cacofonia di urla. Troy entra immediatamente in modalità poliziotto, l’espressione giocosa subito rimpiazzata da una seria. Si dirige di gran carriera verso il parapiglia.

Da qui non riesco a vedere cosa succede, ma la folla si disperde in fretta e i livelli del suono tornano alla normalità con risate e tintinnio di bicchieri.

Pochi attimi e Troy è di nuovo con me.

«Tutto bene?»

«Sì.» Prende una stecca da una mensola lì vicino e passa il gesso sulla punta. «Un tipico venerdì sera a Castle Cove. Non sarebbe completo senza che i Newsome bisticcino.» Fa spallucce.

Non ho idea di chi i Newsome siano, ma c’è troppo rumore per chiederlo e Troy ha già spaccato le biglie.

Mi siedo e guardo la partita per un po’, tenendo d’occhio il resto del bar. Gran parte degli avventori è più grande di me. E troy. E Tabby. Infatti, direi che siamo i più giovani di almeno una ventina d’anni. Tabby non scherzava a proposito dell’età media. Parte la musica e persino i tizi del complesso hanno più di cinquant’anni.

Dopo un po’ di tempo, Tabby ricompare con un paio di bicchierini colmi nelle mani... e gli abiti leggermente più sgualciti di quanto ricordassi.

«Che ti è successo?» le chiedo.

«Niente» si affretta a rispondere.

Lancio un’occhiata al bar e vedo Ben emergere da un punto sul retro. I capelli più scompigliati, ma ad arte, di prima che lui e Tabby svanissero.

«Tu e Ben litigate molto, uh?» Riporto in maniera eloquente lo sguardo su Tabby.

«È un insopportabile stronzo.»

«Hai la camicia al rovescio.»

«Maledizione.» Mi passa uno degli shottini. «Tieni, bevi.»

La roba nel bicchiere ha un colore viola scuro. «E questo cos’è?»

«Non fare domande, donna. Bevi!» Tocca il mio bicchiere con il suo e manda giù il contenuto d’un fiato.

«Non posso bere troppo, tra un po’ devo tornare a casa da Paige.»

«Oh andiamo. Non è una neonata. È al sicuro. Più tardi ci mandiamo Troy per assicurarci che non abbia incendiato tutto e non ci siano orge in corso.»

«Orge?»

«Tranquilla, sto scherzando. Senti, Ruby, qui ci curiamo tutti gli uni degli altri. Non è stato facile per te con il trasloco e una sorella minore da allevare. Ti meriti una notte di riposo per rilassarti un po’. Fidati.»

Le mie sopracciglia si inarcano. Non la conosco neanche. E a parte Paige non mi sono mai fidata di nessuno.

Per tutta risposta lei alza gli occhi al cielo. «Troy!» urla al di sopra del rumore.

«Eh!» strilla lui di rimando.

«Di’ a Ruby che può bere e sua sorella sarà al sicuro.»

«Bevi, tua sorella sarà al sicuro» l’accontenta lui, accigliandosi subito dopo. «Hai una sorella?»

«Davvero, Ruby» insiste Tabby, ignorando la domanda di Troy. «Farò in modo che non ti ubriachi troppo e possa tornare sana e salva da Paige. Parola di scout.» Solleva tre dita in segno di saluto.

«Promesso?»

«Giurin giurello.» Tende il dito e io gli do una scrollata.

«Solo un drink.» E lo mando giù di colpo.

Tabby batte le mani e mi stringe le spalle con un braccio. «Adesso si balla!»

Il tempo passa. Resto con lei sulla pista, circondata da estranei, per lo più anziani, finché i nostri visi non sono entrambi sudati e gioiosi.

Il complessino finisce di suonare e parte della folla si disperde con la musica. Ci sono dei posti liberi adesso, così Tabby mi trascina verso il bar.

«Garçon» chiama, picchiando sul bancone. «Dammi uno shot di qualcosa.»

«Penso che dovrei toglierti il saluto» borbotta Ben, pur mettendo due bicchierini sul bancone e riempiendoli di un liquido chiaro.

«Andiamo, non fare il guastafeste» risponde Tabby, poi svuota il bicchiere in un sol colpo e lo posa di nuovo sul bancone, con una smorfia.

«Era... acqua?»

Una risata scuote le spalle di Ben.

Tabby si arrampica sul bancone per afferrarlo, ma lui si ritrae con le mani in alto. «Non è il caso di usare la violenza. E scendi dal mio bancone.» Il tono è perentorio, lui però si limita a darle un colpetto di canovaccio e corre nella direzione opposta.

Un potente urlo seguito da un fracasso proveniente da qualche parte sull’altra estremità del bancone mi distrae dalle pagliacciate di Tabby. Ci sono troppe teste per poter vedere cosa sta accadendo, ma una folla nei pressi dei tavoli da biliardo si muove facendosi più chiassosa. Un voce maschile strilla: «Se tocchi mia moglie, ti ammazzo!»

«Ex moglie!» urla a sua volta un’altra voce, femminile e altrettanto sonora.

Ben scavalca il bancone. Troy si apre a fatica un varco tra la gente per separare i litiganti.

«Di nuovo i Newsome» dice Tabby dall’altro capo del bar. Dev’esserci arrivata mentre io cercavo di vedere cosa succedeva.

«Chi sono i Newsome?» Allungo il collo per un’occhiata di sfuggita alla famigerata coppia. Poi la folla si divide e riesco a intravederli. Non sono entusiasmanti come mi aspettavo, probabilmente entrambi sulla sessantina. Il signor Newsome è spennacchiato con quel che resta quasi tutto grigio e la ex signora Newsome ha una tinta rossa con tanto di ricrescita e il rossetto sui denti.

Tabby mi mette davanti un drink, riconquistando la mia attenzione. Gli lancio un’occhiata cauta. È verde limetta.

«Sono separati da anni, ma fanno sempre così. Almeno una volta al mese vengono qui quando sanno che ci sarà anche l’altra parte e scatenano un putiferio.» Fa un gesto noncurante. «Nessun problema. Troy li dividerà.» Altro fracasso e un urlo indistinto. Si stringe nelle spalle. «Forse.»

Dal mio sgabello al bar la folla sembra ancora un po’ agitata, finché le porte non si aprono e l’agente Reeves fa il suo ingresso.

È in divisa, ma anche senza distintivo il suo portamento è tale che la gente si divide, facendosi da parte mentre fende la calca.

Nel vederlo Tabby ride. «Ci penserà Jared. Aggiusta sempre tutto, lui, in questa cittadina. Pronta? Sta’ a guardare. O ad ascoltare.» Solleva le dita e inizia il conto alla rovescia. «Tre, due...»

Come fosse lei la sensitiva, la mischia si sparpaglia e torna il normale brusio.»

«Visto? Adesso da brava ragazza bevi.» Spinge il bicchiere verso di me ma scuoto la testa.

«Direi che per stasera può bastare.»

Lei alza gli occhi al cielo. «D’accordo.»

«Tabby. Non dovresti essere dietro il bancone.»

La voce di Jared al mio fianco mi provoca un brivido lungo la schiena. Non so se di pura attrazione sessuale o di paura e ansia.

«Et tu, Jared?» replica Tabby con espressione ferita.

Lui sospira. «Va bene, ma al ritorno fatti dare un passaggio.»

«Ti sembro forse idiota?»

«Penso che farei meglio a non rispondere.»

Tabby ride. «La mia amica e io ci stiamo divertendo un po’. Hai già incontrato Ruby, sì?»

Sa bene che è così.

Lui mi lancia uno sguardo. «Ci siamo già incontrati.»

Non sembra particolarmente entusiasta, ma mi sforzo di non prenderla su un piano personale.

«È fighissima, vero?»

Io sorrido all’entusiasmo di Tabby. Lui neanche risponde.

«Sei riuscito a calmare i Newsome? Cos’era stavolta?»

«Sembra che Sheila sia arrivata con Doug e poi tra lui e Paul c’è stato un disaccordo.»

Tabby sbuffa sardonica. «E ti pareva» dice, aggiungendo poi a mio beneficio: «Sheila e Paul, alias signora e signor Newsome, sono stati sposati per vent’anni. Ma sono...» con le dita apre e chiude virgolette nell’aria «separati da due. Doug era il loro vicino e Sheila se l’è portato dietro solo per ingelosire Paul. Giuro, quei due sono peggio di una telenovela e altrettanto prevedibili.»

«A proposito di previsioni» interviene Jared, guardandomi «ne hai fatte delle altre ultimamente?»

Alzo le spalle, a disagio per il modo in cui mi osserva e il suo tono di voce. Lo chiede come se conoscesse già la risposta.

«L’attività non è ancora partita, Jared. Piantala» dice Tabby.

«Che strano» ritorce lui, lanciandole un’occhiata. «L’altro giorno non si è fatta problemi quando Cassie Graham le ha offerto duecento dollari.»

Deglutisco.

Non ha torto.

Tabby fischia sottovoce. «Davvero chiedi tanto per un consulto? Devi essere brava! Ho diritto a uno sconto amici e parenti?»

Non le rispondo subito, continuando invece lo scontro di volontà con Jared mentre ci fissiamo a vicenda.

La maniera migliore di raccontare una bugia credibile è credere in ciò che dici. Occorrono sicurezza di sé e fermezza. Non a caso i truffatori ne sono campioni.

Senza distogliere gli occhi dai suoi, rispondo alla domanda di Tabby. «No. E neanche l’altra sera volevo fare previsioni per Cassie. Ha insistito moltissimo. Così le ho chiesto una cifra più alta per il disturbo. C’è qualcosa di illegale in questo, agente?»

Sollevo le sopracciglia, in segno di sfida, e in cuor mio esulto per essere finalmente riuscita ad articolare una frase intera e coerente.

Lui scuote la testa. «No. Non esattamente etico, ma neanche illegale.»

Tabby cambia argomento, forse avvertendo la tensione tra di noi, e dice qualcosa a proposito di una cena settimanale dalla nonna e un drink che vuole preparare per me.

Non si può dire la stia ascoltando. Bevo un sorso dal bicchierino che mi aveva messo davanti e traggo piacere dalla scia calda che lascia andando giù, il calore è quasi intenso quanto il rossore del mio viso in questo istante.

E lo so bene, il perché delle guance accese. È vergogna. L’agente Jared Reeves è più vicino alla verità di quanto mi aggradi. Un attimo dopo si allontana per parlare con Troy, ma prima fa un cenno di saluto a entrambe, perché naturalmente è garbato nonostante mi consideri l’elemento peggiore del pianeta dopo Stalin e Goebbels messi insieme.

Aspetto che se ne vada, quindi mi giro verso Tabby, sollevando il bicchiere ormai vuoto. «Credo mi servirà un altro di questi.»