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CAPITOLO DIECI

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«ALTRI indizi da parte dell’universo?» chiede Jared appena lo raggiungo.

«Perché non...» la pianti di fare tanto lo stronzo? Ti becchi un furgone in piena faccia? penso mordendomi la lingua «... fai quel che di solito fai e vediamo se avverto qualcos’altro?»

Guida un po’ senza meta, multando qui e lì per eccesso di velocità e divieto di circolazione, mentre io, seduta al suo fianco, mi sforzo di non respirare troppo. Non funzionerà. Non posso offrire alcun contributo e lui lo sa.

Oddio, i miei genitori avevano ragione. Sono inutile.

Ho deciso, rinuncio all’intera faccenda e gli chiedo di riportarmi a casa. Già sedere in un’auto della polizia non mi rende particolarmente felice, se poi ci aggiungi il fastidioso silenzio di Jared...

«Come facevi a saperlo?» chiede all’improvviso.

«Cosa?»

«Della signora Hale.»

«Ti ho detto ciò che ho visto.» Una scintilla di vendetta mi strappa un sorriso. Forse mi crede davvero.

«Lo so, ma...»

Una scarica di interferenze radio interrompe la conversazione.

Jared e il mittente si scambiano codici e numeri a vicenda. Mi sembra di capire che alcuni ragazzi abbiano violato un’area privata nel bosco.

«Dovrai venire con me» dice mentre ci allontaniamo a tutta velocità dal centro abitato e il panorama prende a trasformarsi in alberi e montagne.

«Non puoi lasciarmi a casa?»

Lui scuote la testa. «Vivi dalla parte opposta e io sono l’agente più vicino alla radura.»

«La radura?»

«È il posto in cui i ragazzi preferiscono far baldoria e cacciarsi nei guai. Tra le altre cose» borbotta.

Annuisco, ma dubito di sapere con esattezza di cosa parla.

Non ci mettiamo molto ad arrivare. Una decina di minuti e lasciando la strada principale imbocchiamo un sentiero di sassi e polvere che attraversa il folto degli alberi finché, poco dopo, questi non svaniscono.

I fari dell’auto rivelano uno spazio aperto nel mezzo del bosco. Si tratta per lo più di pietrisco ma con sporadiche macchie erbose e le stelle illuminano il cielo su di noi. È carino, persino di notte. Per forza le coppiette vengono ad appartarsi qui. Tutte distanti l’una dall’altra, negli angoli sono parcheggiate una manciata di macchine.

Sentendoci arrivare, alcuni mettono subito in moto e si allontanano, ma altri restano dove sono, al buio.

«E adesso?» chiedo io, dopo alcuni minuti di immobilità.

«E adesso è ora di vedere cosa stanno combinando.» Si sgancia la cintura.

«Posso venire con te?»

«No.»

«E se qualcuno di loro fosse il ladro?»

«Qui non c’è nessuno che stia rubando.»

«Anche i criminali sentono il bisogno di un po’ di amore e tenerezza nelle loro vite sprecate.»

«Me ne infischio. Resta qui.» Scende dalla macchina.

Lo seguo.

«Ti ho detto di restare nascosta.»

«Potresti aver bisogno di me», insisto. Devo fare qualcosa. Dopo due ore seduta in macchina ho il sedere dolorante. E poi ho fatto pena tutta la serata, restarmene nascosta non migliorerà un bel niente.

Borbotta qualcosa e si dirige a grandi passi verso la macchina più vicina. Lo seguo a ruota, con la luce della torcia che oscilla sul terreno davanti a noi. Il veicolo più prossimo è una piccola utilitaria nera con i finestrini appannati. Dall’interno giungono dei gemiti.

Jared bussa.

I gemiti e i sussulti continuano senza sosta.

Non riesco a trattenere una risata, pur provando a coprirla con una mano.

Jared si schiarisce la gola e io accarezzo l’idea che stia soffocando la propria ilarità, ma niente riesce a smuoverlo.

Bussa ancora, un po’ più forte, servendosi del manico della torcia per farsi sentire.

Questa volta, i gemiti si interrompono all’istante, sostituiti da imprecazioni smorzate.

Passano alcuni secondi, quindi il finestrino si abbassa.

«Il signor Newsome?» dico io incredula.

Già, proprio lui. Lo stesso tipo che si batteva l’altra sera nel bar per l’ex moglie. E accanto a lui chi c’è? Ma l’ex signora Newsome, naturalmente.

L’uomo è senza camicia, con il torace coperto di peli grigi bene in vista, e ha i pantaloni sbottonati.

«Non dirgli che sono io!» Sussurra, ma non troppo, la signora Newsome dal sedile posteriore.

La torcia si sposta brevemente nella sua direzione e colgo di sfuggita la donna completamente nuda, ma subito Jared riporta il fascio di luce verso destra, al di sopra della testa del signor Newsome.

Penso che entrambi daremmo chissà cosa per poterci ripulire le retine.

«Paul» lo saluta.

«Jared.»

«Sai che non dovresti essere qui.»

«Sì. Ma non stiamo dando fastidio a nessuno.»

«Sarà anche vero, ma siete su una proprietà privata. Avete bevuto?»

«No, teniamo viva la scintilla.»

Jared sospira. «D’accordo. Che ne dite se Sheila si riveste e andate ad appartarvi in qualche altro posto che non sia privato? Meglio ancora se vostro?»

Ci allontaniamo e i due, nuovamente soli, esplodono in una risata. Neanch’io riesco a trattenermi. E benché Jared mi cammini davanti e non possa vederne il viso, giurerei che a scuotergli le spalle sia la stessa ragione.

Procediamo verso gli altri due veicoli, parcheggiati l’uno di fianco all’altro sul lato opposto della radura.

Jared dirige il fascio di luce all’interno di entrambi, ma sono vuoti.

«E adesso?» chiedo.

«Le conosco, queste macchine. Sono di alcuni adolescenti. Gli piace venire qui a fare falò e bere un po’ più addentrati.»

«Mi sembra abbastanza normale per dei teenager.»

«E pericoloso. Nonché illegale» ribatte con un sospiro carico di irritazione. «Ho idea di dove potrebbero essersi accampati. Ti chiederei di tornare alla macchina, ma dubito mi ascolteresti.»

«Supposizione corretta.»

«Dovrò prima chiamare rinforzi» prosegue lui, avviandosi verso l’auto di servizio. «Con tutta probabilità dovremo portare via degli adolescenti ubriachi e se sono arrivati in due macchine non riusciremo a farli entrare tutti nella radiomobile.»

Finita la chiamata, ci addentriamo nel bosco.

«Da questa parte.»

Lo seguo lungo la fila di alberi fino a uno stretto sentiero che si inoltra nel folto. Sulle nostre teste i rami bloccano quasi del tutto il bagliore di luna e stelle. È sempre più buio.

«Hai una torcia di riserva?» Con qualcosa tra le mani forse avrei meno paura. Al momento, riesco a malapena a vedere la sagoma delle sue spalle che mi camminano davanti e ostruiscono il già fioco fascio di luce della sua torcia.

«No, ma potresti tornartene in macchina.»

«Da sola, nel buio pesto? Sei fuori di testa.»

Arranco dietro di lui per qualche minuto. Altri sentieri tagliano il nostro e Jared li segue con sicurezza.

«Come fai a sapere in che direzione sono andati?»

«Perché, alla loro età, anch’io venivo qui a divertirmi» ammette. «Alcune cose non cambiano mai.»

Al rumore di un ramo spezzato in lontananza si ferma di scatto, e io gli finisco contro, afferrandolo per la vita.

«Cos’è stato?» chiedo.

«Ssh.»

Tesi, trascorriamo qualche minuto in ascolto. Quando gli unici suoni rimasti sono il lontanissimo grido di una civetta e il vago fruscio delle foglie nel vento, dice: «Probabilmente non è stato niente.»

«Probabilmente niente» ripeto io. «Tranne un eventuale pluriomicida.»

«Non credo proprio. I rami si spezzano in continuazione. Oppure qualche animale.»

Il silenzio regna sovrano per un attimo, mentre rifletto sull’esatto tipo di animali in giro per la foresta e le dimensioni dei loro denti.

«Hai intenzione di restare aggrappata a me tutta la notte?»

Mollo subito la presa, non mi ero accorta di essere ancora stretta alla sua vita.

«Scusa» borbotto.

Riprendiamo il nostro cammino lungo il sentiero scuro.

Qualche minuto più tardi, giungono risate e voci.

«Hai sentito?» sussurro.

«Sì» risponde Jared, in tono un po’ brusco. Continuiamo a muoverci nella direzione delle voci.

«Dev’essere il loro falò.» Sto ancora sussurrando.

«Lo so.»

La fonte luminosa è alla nostra destra, un po’ al di là dal sentiero battuto, nel mezzo di quella che sembra una macchia di alberi.

Ci fermiamo e Jared punta la torcia verso l’alto, più o meno in direzione del falò. Questo ci permette di muoverci attraverso la macchia e avvicinarci a loro, ma di mezzo c’è una gran quantità di rami e foglie morte e il terreno è accidentato.

«Immagino che non riusciremo ad attraversare la macchia senza fare un bel po’ di rumore, avvertendoli così della nostra presenza» dico io.

«Lo so!»

Non riesco a cogliere molto della conversazione ma, qualsiasi cosa stiano facendo, sembrano divertirsi un sacco. Saranno più o meno una decina, di età compresa tra i sedici e i diciotto anni. Qualcuno urla qualcosa e la musica parte con una canzone punk a gran volume.

«Questo dovrebbe coprire i nostri passi» aggiungo.

«Resta qui.» Jared lascia il sentiero, supera un ceppo e si dirige verso il festino.

«Cosa?! Nemmeno per sogno.» Lo seguo.

«Ti farai male.»

«Certo che no.»

Si gira a guardarmi, puntando il fascio di luce tra di noi. «Questo terreno è irregolare e tu non hai la torcia.»

«Allora dammi la tua.»

«Non ci penso neanche.»

«E io non ho intenzione di restare qui ad aspettare che qualche creatura mi divori.»

«Non ci sono creature qui.»

«L’hai detto tu che ci sono animali selvatici.»

Sebbene non riesca a vedere la sua espressione con chiarezza, so che ha alzato gli occhi al cielo.

Senza preoccuparsi di rispondere, si gira e riprende a camminare.

«Non avrò nessun problema, se non vai troppo veloce» dico, affrettandomi per accorciare la distanza. Se riesco a stargli attaccata, posso seguire i suoi passi.

Solo che... nel corrergli dietro inciampo in una pietra o qualcos’altro e vengo scaraventata contro la sua schiena. Lui si gira proprio in quell’istante e cerca di afferrarmi prima che cada. Finiamo entrambi sulla terra dura, Jared di schiena e io su di lui.

Per un istante non riesco a respirare, la caduta mi ha mozzato il fiato. Resto così, aggrappata al suo corpo, con il distintivo piantato nel palmo destro. La torcia, a qualche metro di distanza, punta il suo debole fascio verso di noi, gettando vari gradi di luce e ombra sul viso di Jared.

«Scusa» dico non appena ritrovo il fiato. La sua colonia mi accarezza leggera i sensi e inspiro più a fondo.

Sono pronta all’esplosione d’ira, di sicuro mi farà notare che mi aveva detto di restare in macchina prima e sul sentiero dopo e che rifiutandomi di ascoltarlo ho cacciato me stessa e lui nei guai. E avrebbe pienamente ragione.

Invece, mi afferra per le braccia e mi guarda fisso. «Stai bene?»

Resto senza parole.

Dovrei rispondere di sì? E se dopo la risposta affermativa e l’essersi accertato che sto bene passasse all’attacco?

«Credo di sì» dico, scegliendo con cura le parole. «Tu?» È caduto di schiena e sul terreno della foresta c’è tanto pietrisco, si sarà fatto male. A me è andata meglio, anche se il solido petto sotto le mie mani e tutt’altro che soffice.

«Sì» risponde lui in un sussurro.

Non mi muovo. Non ci riesco. D’un tratto mi accorgo che gli sto sopra a cavalcioni. Deve averlo notato contemporaneamente anche lui, perché i suoi occhi si spalancano e il respiro viene meno.

Un’immagine guizza nella mia mente. Io, su di lui, senza veli. Inspiro, e il calore mi pervade il corpo. Provo l’impulso improvviso di sfregarmigli contro per vedere se quella parte tra le gambe è dura quanto il resto del corpo. Ma non lo faccio.

Lui strizza gli occhi per un secondo, le mani mi stringono forte le braccia, poi si muove, incoraggiandomi ad alzarmi e farmi da parte in modo da lasciargli riprendere la torcia e rimettersi in piedi. Vedendomi vacillare su un ramo spezzato si affretta di nuovo a sorreggermi, ma sembra accorgersi di ciò che sta facendo. Le braccia ricadono lungo i fianchi e mi chiede ancora una volta: «Tutto bene?»

«Benissimo.» Il mio cuore però è impazzito e mi sudano le mani, direi che sto tutt’altro che bene.

Jared mi fissa, nel suo sguardo il fuoco di mille soli. O qualcosa di un po’ meno drammatico.

Faccio un respiro. «Andiamo ad acciuffare quei ragazzi.  E mentre fai il tuo lavoro io me ne starò da parte» prometto in tono asciutto e professionale.

«Già.» Si gira e lo seguo verso il rumore.