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CAPITOLO TREDICI

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Trascorro i giorni successivi a guardare riprese di Castle Cove invece che a fare il mio dovere, cioè approntare il negozio per l’inaugurazione nel fine settimana.

Devo ancora riparare lo scaffale espositivo che Graffio ha distrutto, ma non ho la minima idea di come fare. È troppo grande, con tutta probabilità sarò costretta a comprarlo nuovo di zecca, se non fosse che... al momento non ho nemmeno un letto asciutto in cui dormire.

Sui video non c’è nulla di utile, neanche una sacca di tela. Tabby che se la spassa con Ben, immagini che mi precipito a fermare e cancellare, rosa dal senso di colpa per il semplice fatto di averle sbirciate. E Jared che paga i pasticcini della signora Hale, il che raddoppia il senso di colpa. Accidenti a lui.

L’informazione riguardo la signora Olsen e l’acquisto delle sacche di tela è un po’ un binario morto ma gliela passo comunque. Se non altro ho qualcosa da offrirgli grazie alla mia “abilità”.

Ma dobbiamo scoprire qualcosa di meglio, e presto.

Quando Paige rientra ceniamo, poi lei fa i compiti e passa a scorrere i video delle telecamere nascoste mentre io mi occupo di disimballare le consegne ricevute in giornata.

«Houston, abbiamo un problema» dice Paige raggiungendomi nell’area destinata al negozio.

«Che succede?»

«Una delle telecamere è scivolata. Distributore di benzina.»

Poso la scatola con le statuine di unicorni che stavo scartando e mi giro a guardarla. «È ancora aperto. Tu li distrai e io sistemo tutto.»

Annuisce.

Il cavo è difettoso. Per fortuna, ho pensato bene di portarmi dietro un paio di cosucce in caso di problemi. Servendomi di un laccetto con l’anima in metallo mi affretto a fissare la piccola lente mentre Paige compera un pacco di gomme da masticare, un attimo e andiamo via.

Arrivate nella nostra strada, notiamo un camion in folle accostato al marciapiede.

Tabby è accanto allo sportellone. «Ehi» dice ad alta voce quando ci avviciniamo. «Vi ho portato una cosa.»

Giriamo intorno al camion per vedere cosa sta facendo. C’è anche Ben; il camion dev’essere suo. Stanno trascinando fuori un grosso oggetto di legno.

«Ma quello...» Paige non fa in tempo a finire.

«Vi ho costruito uno scaffale nuovo!» la interrompe Tabby, battendo le mani.

«L’hai fatto tu?» Sono scioccata. Sembra migliore di quello che ha rotto Graffio. Il legno è scuro e dello stesso colore degli altri scaffali, ma il vetro è nuovo e chiaro, e gli angoli lavorati con raffinati intagli.

Lei fa spallucce. «Niente di che. Aiutaci a portarlo in casa.»

Paige corre ad aprire la porta mentre Ben, Tabby e io lo trasportiamo su per i gradini del portico e all’interno.

«Non potrò mai ripagarti» dico, ancora allibita, dopo averlo piazzato al posto del vecchio.

«Non ce n’è bisogno.»

«Perché faresti una cosa simile per me?»

Tabby è confusa. «Perché non dovrei?»

Perché sono un’imbrogliona. «Mi conosci appena.»

«Sì, ma sei una brava ragazza» ribatte lei con una pacca sul braccio.

Se solo sapessi.

«Puoi ricambiare il favore lavorando alla nostra bancarella al festival di moto, pesci e biscotti.»

«Il che?» chiediamo Paige e io all’unisono.

«Inizia domani» interviene Ben. «Di solito è più in là nel mese, ma presto demoliranno il vecchio edificio di calze sulla passeggiata e non volevano che i calcinacci bloccassero il passaggio.»

«Un festival di moto, pesci e biscotti?» Le mie sopracciglia si inarcano. «Suona... strano.»

«Già» concorda Tabby. «Abbiamo un festival diverso ogni mese. Prima ce n’erano anche più di uno al mese, un po’ un’esagerazione, così fu deciso di combinarli cercando di accostare gli articoli in base al genere, tipo il festival di aragoste e anguille, ciò nonostante rimasero un botto di cose a caso da celebrare e furono messe tutte insieme.»

«Ah ecco» dico io... e cos’altro potrei rispondere?

«Dal momento che inauguri il negozio sabato, ho pensato che potresti aiutarmi con la bancarella il venerdì in modo da distribuire anche i tuoi volantini e portarti avanti con l’attività» conclude raggiante.

Non merito la sua amicizia. E non riesco ancora a capire perché è tanto carina con me. Avrebbe senso solo se quanto ha detto Troy fosse vero, cioè che Tabby si sente un po’ sola e io sono l’unica altra donna nei paraggi al di sotto dei quaranta... a parte Eleanor. Eppure. Non deve per forza comportarsi così.

«Fantastico!» esclama Paige.

«Già.» La mia voce non manifesta particolare entusiasmo. A dire il vero, mi sento colta alla sprovvista.

Ben e Tabby si congedano. Paige chiacchiera a manetta di scuola, Naomi e un certo progetto sull’osmosi a cui stanno lavorando. Io rispondo in modo meccanico, annuendo e sorridendo a seconda delle circostanze, ma dentro il senso di colpa mi uccide.

Stanno aiutando Ruby, non me. Se solo sapessero... Paige ride di qualcosa e io mi sforzo di tornare alla realtà, anche solo per il suo bene.

«Non vedo l’ora che arrivi venerdì» dice con un largo sorriso.

«Anch’io.»

Non è proprio una bugia.

~*~

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Non riesco a dormire, così do uno sguardo ai video. L’unico negozio aperto a quest’ora è la stazione di servizio, e la maledetta videocamera scivola di nuovo.

«Uffa!»

È ad angolo e punta il pavimento, consentendomi di vedere solo le scarpe dei passanti e parte dell’asfalto accanto a uno dei refrigeratori sul retro. Tutt’altro che utile.

Mi trastullo un po’ con internet, tenendo d’occhio le videocamere al limite del mio campo periferico.

Nei giorni feriali la stazione di servizio chiude alle dieci. Il video, e il resto delle telecamere, è uno scorrere di scuro e grigio. Irrecuperabile. Ma per qualche ragione, resto nell’ufficio a googlare cose tipo perché i miei capelli fanno tanto schifo? e come dimenticare di essere stati allevati da canaglie, il tutto senza staccare completamente gli occhi dagli schermi scuri. Mi sto chiedendo dov’è che ho sbagliato nella mia vita quando mi accorgo che c’è del movimento.

«Qualcuno alla stazione di servizio» dico alla stanza vuota.

Non riesco ancora a vedere altro a parte l’asfalto, ma di sicuro sta accadendo qualcosa. Le immagini non mi convincono. Vedo oggetti rompersi al suolo. Altri volare dappertutto e qualcuno che spruzza del liquido. Una goccia colpisce persino la lente della telecamera, compromettendone la messa a fuoco.

Con il cuore a mille, prendo il telefono.

L’attività fa scivolare ulteriormente la telecamera e tutto ciò che riesco a vedere è l’angolo dello scaffale, ma continuo a guardare.

Chiunque sia lì dentro sta probabilmente dandosela a gambe, perché la stringa della scarpa resta impigliata nell’angolo dello scaffale... l’unico che riesco a vedere. Dev’essere una scarpa da poco, infatti la stringa si sfilaccia lasciando dietro parte di sé.

Qualche minuto dopo, un colpo alla porta.

Do un’occhiata a Paige, che dorme profondamente, quindi corro ad aprire.

È Jared. «C’è stata un’effrazione» dice con aria cupa.

«Lo so. L’ho denunciata io.»

«Me l’hanno detto.» Fa una lieve smorfia e si gira per tornare all’auto di servizio accostata in folle al marciapiede. «E allora, vieni?» dice a mezza strada mentre io sono ancora sulla soglia di casa.

Le sue parole mi spingono all’azione. Chiudo a chiave la porta e lo seguo.

«Troy sta sigillando l’area» mi informa mentre percorriamo la strada. «Qualcuno ha causato un po’ di danni.»

Annuisco. Ancora un minuto e siamo arrivati, forse anche meno.

«Come facevi a saperlo?»

Mi stringo nelle spalle. «Come al solito. Ho avvertito la sensazione che proprio lì stesse accadendo qualcosa.»

Sento il peso dei suoi occhi addosso ma continuo a guardare davanti a me.

Sulla scena ci sono solo Troy e un altro agente... Anderson, stando a quanto dice Jared, che prende subito ad abbaiare ordini.

Non è una di quelle scene da TV. Non ci sono unità investigative, né gente in camice; solo Jared, Troy, Anderson e un assonnato proprietario che qualcuno ha contattato.

«Capo.» Troy è all’ingresso della stazione e regge una sacca mezza piena di cibo.

È dello stesso tipo di quella usata nell’aggressione di Cassie.

Li ascolto parlare e mi sposto verso la telecamera nascosta. Devo rimuoverla prima che la trovino e risalgano a noi.

Nella cassa manca del contante e sembra che il ladro abbia portato via anche del cibo, saccheggiando alcuni degli scaffali e lasciando patatine e caramelle sparse sul pavimento.

Il danno maggiore, in parte ripreso dalla telecamera, è sul retro.

Il colpevole ha aperto il frigo con dentro la birra e ha buttato un’infinità di bottiglie per terra. L’odore del liquido stagnante è insopportabile.

Osservo i danni e intanto sposto il piccolo aggeggio dietro di me, in modo da infilarlo di nascosto nella tasca della maglia quando nessuno guarda.

Mi piego, dando l’impressione di scrutare il pavimento, e ne approfitto per raccogliere il pezzetto di stringa, nascondendolo insieme alla videocamera. Potrebbe tornarmi utile se avessi bisogno di condividere informazioni.

«Che spreco di birra» dice Troy, scuotendo la testa. «Un gran peccato.»

«Erano arrabbiati» intervengo io.

Gli occhi si girano tutti verso di me.

«E da cosa lo deduce?» chiede l’agente di nome Anderson. È più grande di Troy e Jared. Sui quarantacinque, grigio alle tempie, magro e con il ventre leggermente sporgente.

Guardo i pezzi di vetro sparsi dappertutto sul pavimento. «Ci vuole un bel po’ di rabbia per sbattere a terra tante bottiglie con una forza tale da spaccarne la maggior parte.»

Solo poche rotolate via sono rimaste intatte.

Lo sguardo di Jared si fissa sul proprietario, un uomo grasso e stempiato. «Qualcuno incavolato con te, Bill?»

«Non che io sappia.»

«Nessun tipo strano a zonzo da queste parti di recente?»

«No.»

Jared fa un sospiro e si passa una mano tra i capelli. «Splendido. La metà dei residenti viene a fare compere qui, pertanto le impronte non serviranno a granché. Di nuovo. Troy, metti in una bustina quello che hai trovato. Chissà che non si riesca a recuperare più impronte di lì che dalla sacca.» I suoi occhi puntano come un laser verso di me. «Altre sensazioni di cui vuoi metterci a parte? Magari complete di descrizione del nostro sospetto?»

Scuoto la testa in segno negativo.

Non ci tratteniamo molto. Aspetto mentre Troy e Anderson sigillano reperti da inviare in laboratorio per le impronte.

Jared scambia due chiacchiere con il proprietario per cercare di capire com’è andata fino alla chiusura. Niente di insolito; ha terminato alle dieci ed è andato a casa, mezz’ora dopo ha ricevuto la chiamata.

Quando tutti hanno finito, Jared mi riaccompagna.

In silenzio.

Dovrei essere più contenta. Ho finalmente contribuito in maniera tangibile alle indagini. Più o meno. Non hanno ancora indizi, ma se non altro ho qualcosa di più concreto per convincere Jared che non sono un’imbrogliona.

E allora perché mi sento così male?

«Scusa se non sono stata di maggiore aiuto» dico quando il silenzio inizia a farsi pesante.

«No, non devi scusarti. Anzi, grazie per la chiamata. Non è colpa tua, e io...» Si schiarisce la gola e accosta davanti a casa, quindi parcheggia e si gira a guardarmi. «Dovrei essere io a scusarmi.»

Beh, ci è riuscito. Mi ha lasciata senza parole.

«Non sono stato giusto con te» continua. «Non ho scuse se non il fatto di essere insopportabilmente protettivo nei confronti della gente di Castle Cove, ma tu non hai fatto nulla per meritare il trattamento che ti ho riservato finora.»

Se solo sapesse.

Mi chiedo se dalla frequentazione sia nato dell’affetto. Un comune stratagemma a cui di tanto in tanto facevano ricorso i miei genitori, soprattutto con le truffe che si protraevano per un certo periodo. Ma che può rivelarsi efficace anche con quelle di minore durata. Se un bersaglio incontra ogni giorno la stessa persona in un caffè, anche solo per qualche giorno di fila, tra i due finisce con l’instaurarsi una certa confidenza. A quel punto, il secondo dei due potrà avvicinarsi al primo senza scontrarsi con eccessiva diffidenza.

L’uso inconsapevole di uno dei trucchi adoperati dai miei genitori mi provoca una sensazione di malessere.

«Tranquillo, ti perdono.» Mi sforzo di sorridere, ma ne vien fuori una smorfia impacciata, ho il viso inspiegabilmente rosso e adesso la sua presenza mi imbarazza più di quando era scorbutico.

Apro la portiera per uscire.

«Aspetta.» Tende il braccio e mi copre una mano con la sua.

La fisso e deglutisco, poi incrocio il suo sguardo.

Sono abituata alle profondità scure e severe, all’espressione glaciale, non a quegli occhi carichi di scuse e calore e al lieve sorriso.

«Ti do il mio numero» dice, senza lasciarmi la mano. «Così, se hai qualcosa da dirmi, puoi farlo direttamente, senza passare per il centralino.»

Annuisco.

Estrae un blocchetto per appunti, scrive il numero e mi dà il foglietto.

Lo prendo e scappo dentro casa senza neanche salutare.

Fisso il numero. Non lo chiamerò mai e poi mai.