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CAPITOLO DICIOTTO

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L’inaugurazione è un gran successo. Oltre a guadagnare soldi con i consulti, vendiamo tantissimi articoli e io prendo nota di quelli che vanno per la maggiore in modo da ordinarne altri e tenere tutto sotto controllo per il ritorno di Ruby. Non saremo più qui, ma almeno le avremo assicurato un piccolo vantaggio, visto che stiamo già approfittando abbastanza di lei.

C’è talmente tanta gente che riesco a vedere Tabby, Troy e Jared solo quando stanno per andare via. Ma allora sono così stanca che posso solo ringraziarli e salutarli. Tabby mi abbraccia, Troy mi dà una pacca sulla spalla e Jared mi fa un cenno da lontano mentre aiuta la signora Hale a montare sulla sua Jeep per accompagnarla a casa.

Paige e io, però, siamo esauste e trascorriamo gran parte della domenica tra momenti di ozio e le pulizie del dopo festa.

È il lunedì che, tornando a casa dopo aver lasciato mia sorella a scuola, vedo un paio di gambe spuntare da sotto la carrozzeria della nostra macchina.

Mi avvicino ai due arti e aspetto.

Infine, Jared si spinge fuori da sotto il veicolo.

«Ehi» saluta, riparandosi gli occhi dalla luce del sole. «Come va?»

«Che stai facendo?»

«Aggiusto l’auto.»

«Ti ho detto che non mi serve il tuo aiuto.»

Siede sul carrello e mi guarda accigliato. «Hai lasciato che Tabby ti aiutasse con il tetto e altra roba. Perché io no?»

Già, perché?

«Perché...» Eh! Non ho una scusa valida. «Insomma, perché vuoi aiutarmi?»

Si strofina le mani con uno straccio sporco e, di fronte alle braccia che si flettono, mi sforzo di ignorare quanto eccitanti siano le spalle sotto la canottiera grigia che indossa.

«Perché no?» Senza aspettare la mia risposta, aggiunge: «Ehi, mi passeresti quella chiave a tubo?» poi torna a distendersi sul carrello e si spinge nuovamente sotto l’auto.

Sbuffando, trovo la chiave e gliela passo.

Non posso conversare con i suoi piedi, perciò mi arrendo e vado in casa.

Quando finisco di ciondolare annoiata e giungo alla mortificante conclusione che mi sto comportando da gran stupida, Jared sembra aver terminato il suo lavoro sotto la macchina. Esco con un bicchiere di acqua ghiacciata come offerta di pace e lui lo ingolla in un paio di sorsi veloci.

«Ho cambiato l’olio e sostituito la batteria.»

Mando giù l’orgoglio. «Grazie.»

Lui sorride, arricciando gli angoli degli occhi. «Di niente.» Mi dà le chiavi. «Vediamo se parte.»

~*~

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L’auto si mette in moto. Provo a dirgli che ho intenzione di ripagarlo ma si affretta a cambiare argomento e si congeda. Poco dopo arriva una consegna. Una gran quantità di cristalli e statuine di unicorni. Tutti articoli incartati singolarmente e da maneggiare con cura. Sto portando dentro l’ultima scatola quando Gary e Greg mi passano davanti, diretti verso la casa del signor Bingel.

«Ehi.» Poso la scatola per terra. I bambini sono coperti di fango fino alle ginocchia. «Che cosa vi è successo?»

Gary solleva lo sguardo su Greg che risponde per entrambi. «Stavamo tornando da scuola e siamo scivolati nel fango.»

«Lo vedo bene. Volete entrare a darvi una pulita?» Il signor Bingel andrà fuori di testa se li vede così conciati.

I due esitano, lanciandosi occhiate a vicenda.

Mi serve un’esca. «Potrete salutare Graffio. E vi preparerò della limonata.»

Ecco, abboccato.

Corrono in casa, con gli zaini saltellanti sulle spalle. «Avete dei vestiti di ricambio?» Chiedo una volta entrati.

Greg scuote la testa. I capelli lunghi e arruffati ricadono scomposti. Questi ragazzini hanno bisogno di un buon taglio più di me.

«Solo delle scarpe» dice.

«Beh, dovrete ripulirvi più che potete.»

Gli mostro il bagno e la lavanderia.

«In voi darei una sciacquata alle scarpe e poi le metterei nell’asciugatrice» suggerisco. «Farete prima.»

Ho alcuni biscotti avanzati dal festival, li prendo insieme alla limonata.

Greg e Gary ne fanno subito piazza pulita. E al contrario di Tabby, mangiano persino quelli di avena senza troppe storie.

«Avete detto a vostro padre di come aiuterete il signor Bingel?»

Greg annuisce.

«Penso che mi piacerebbe incontrarlo. Dove vivete?»

«Lavora molto. Ma glielo dirò. I nostri vestiti saranno asciutti. Vieni, Gary.»

Il fratellino è sul pavimento e accarezza Graffio, quando Greg parla, però, si alza e lo segue lungo il corridoio fino alla lavanderia.

Ricevuto. Greg non vuole parlare di suo padre. E lo capisco perfettamente, ma vorrei tanto che si aprissero con me.

Forse loro padre è un tipo violento, ma non ho notato lividi né smorfie. Forse è uno di quei genitori assenti; troppo ubriaco o troppo drogato per prendersi cura di loro e perciò restano soli la maggior parte del tempo. Mi sembra l’ipotesi più sensata. Devo dirlo a Jared? No, non posso. Ho l’impressione che il bene della gente gli stia davvero a cuore, ma è pur sempre un poliziotto. Li segnalerebbe ai servizi di tutela dei minori e finirebbero in affidamento, il che sarebbe peggio del trascorrere tempo da soli. Probabilmente verrebbero anche separati. Per lo meno adesso hanno l’un l’altro. E poi sembrano cavarsela. Sono felici, in buona salute e vanno ancora a scuola. Solo perennemente affamati e sporchi. A parte vendere gatti a tre zampe. E rifiutarsi di rispondere a semplici domande circa le condizioni in cui vivono. Ma sono cose da ragazzi, no?

Uhm, forse no. Sono molto combattuta. Farò semplicemente tutto quel che posso per aiutarli.

Mi ringraziano entrambi per i biscotti e la limonata e li osservo allontanarsi verso la casa del signor Bingel.

Intanto torna da scuola anche Paige e mi dà una mano a scartare le statuine e sistemarle nella vetrinetta. Finiamo al tramonto, con il sole che colora il cielo di rosa e arancio, poi Paige sale di sopra a fare i compiti.

Dall’esterno mi giungono le risate dei bambini e sbircio dalla finestra, in tempo per vedere Greg e Gary che lasciano il signor Bingel, con gli zaini in spalla e le braccia colme di pacchetti.

Esco a chiedere com’è andata.

«Siete stati di grande aiuto? Come vi siete trovati?» chiedo, incontrandoli alla fine del marciapiede.

«Sì. Ci ha dato tanta roba.» Gary solleva i pacchetti e mi accorgo che sono contenitori di plastica riutilizzabili e colmi di cibo.

«Gentile da parte sua.»

«E venti dollari a testa» aggiunge Greg con un largo sorriso.

«Splendido!»

Lo sapevo, io. Lo sapevo che sotto quella scorza dura il signor Bingel aveva un cuore.

«Dobbiamo rientrare prima che faccia buio» dice Greg.

Aspetto di vederli svanire dietro l’angolo, quindi mi giro verso la casa del signor Bingel. Nella stanza che dà sulla strada si accende una luce.

Probabilmente è una pessima idea. Ma siccome ultimamente sono piena di pessime idee e le metto in pratica comunque, perché fermarsi adesso?

Prima che mi persuada del contrario, vado spedita verso la casa del signor Bingel e busso.

Dall’interno mi giunge il suono di un passo strascicato, quindi la porta si apre.

«Salve, signor Bingel» dico agitando la mano e chiedendomi immediatamente perché abbia fatto un gesto tanto goffo quando l’uomo mi sta proprio di fronte.

La sua bocca si apre appena e lo sento schiarirsi la gola, gli occhi si posano dappertutto fuorché su di me. «Cosa... io... uhm, entra.»

Ma benone.

Fa un passo indietro, aprendo ulteriormente la porta, e varco piano la soglia come se si trattasse di un portale verso un’altra dimensione in cui non voglio essere risucchiata troppo in fretta.

In piedi nel soggiorno, fissiamo qualunque cosa tranne l’un l’altra.

Si direbbe non sappia comunicare a parte lanciare insulti a distanza, e io non ho nemmeno idea del perché sono venuta da lui. In realtà, non mi aspettavo che aprisse la porta.

Ah, i bambini, giusto.

«Grazie per l’aiuto a Greg e Gary» mi decido a dire.

Lui annuisce. «Nessun problema. Sono bravi. È bello avere di nuovo dei bambini per casa. Gradisci del tè?»

Sembra sorpreso dalla sua stessa offerta almeno quanto me. Come se le parole gli fossero sfuggite di bocca senza il suo consenso.

«Sì, grazie» rispondo, prima che possa cambiare idea.

Mi fa cenno di sedermi.

Il soggiorno è piccolo, con pavimento di legno, un tappeto spesso sotto un tavolinetto da caffè e qualche sedia. Ma è pulito e in buono stato. Su un altro tavolino sono ammucchiate un bel po’ di fotografie che da qui, però, non riesco a vedere chiaramente.

Siedo su una delle sedie e lui si accomoda di fronte. Sul tavolo ha posato un piccolo vassoio con una teiera e delle tazze, ne riempie una. Ci sono anche un bricco di latte e un contenitore di vetro con dei cubetti di zucchero.

Mi sembra di essere nell’Inghilterra della Reggenza o qualcosa di simile.

Beviamo il tè in maniera quasi meccanica, io senza aggiunta di latte o zucchero, lui con entrambi.

«Ha detto che è bello avere di nuovo dei bambini per casa» dico, aggiungendo enfasi sul di nuovo.

Il signor Bingel annuisce. «Mio figlio.» Piega la testa verso il mucchio di fotografie sul tavolino accanto alla sua sedia.

Socchiudo gli occhi per mettere a fuoco quella a cui si riferisce, ma ce ne sono troppe e riesco a vedere solo le foto più vicine a me.

Allunga un braccio, prende una cornice dal gruppo e me la porge.

La guardo con attenzione. L’uomo ritratto ha qualche anno più di me e indossa una divisa marrone chiaro con spille colorate a decorargli il lato sinistro del petto. La bandiera degli Stati Uniti svolazza sullo sfondo.

«Come si chiama?»

«Si chiamava Jason. Era un marine. Sesta divisione, ventunesimo fanteria, Kandahar. Morì durante un’ordinaria missione di rifornimento. Calpestarono un ordigno improvvisato e...» Si stringe nelle spalle.

«Mi dispiace.»

Beve un sorso di tè e arriccia le labbra. «Non fosse stato per mia moglie, sarei impazzito. Ci sostenevamo a vicenda, anche se Jason ci mancava moltissimo, ma sembrava che ci avessero svuotato il petto. Avevamo persino parlato di adozione o affido, superato le selezioni e tutto, ma... lei si ammalò. Morì qualche anno dopo Jason.»

Sono senza parole. Ho già detto mi dispiace, e mi sembra un’espressione talmente vuota.

«Figlio unico?» chiedo, invece.

«Sì. Amava Castle Cove. Era il capitano della squadra di calcio, il re del ballo studentesco di fine anno. Quando era piccolo c’erano sempre bambini qui, a giocare e correre per casa. Non mi ero reso conto di quanto mi mancasse finché non è accaduto di nuovo, oggi.»

Beviamo un sorso di tè in silenzio, quindi aggiunge: «Ti ringrazio.» Le parole sono così fioche che quasi penso di averle immaginate.

«Per cosa?»

«Sei stata tu a suggerire che venissero qui. Da solo non lo avrei mai fatto.»

Torniamo a sorseggiare il tè in silenzio. Passa un minuto. «Vuole che gliene versi dell’altro?» chiedo.

Fa cenno di sì. «Va bene.»

Lascio il signor Bingel dopo un’ora seduta in sua compagnia ad ascoltare racconti di quanto sua moglie amasse cucire e cantare pezzi bluegrass, mentre suo figlio adorava i New England Patriots e falciare il prato.

Sono a pochi metri dalla porta di casa, quando sento il telefono squillare.

Sorpresa, mi precipito in cucina dove è installata la linea fissa, con il ricevitore su una forcella appesa al muro.

«Pronto?» rispondo, senza fiato.

«Charlotte?» La voce è familiare e al tempo stesso temuta.

«Ruby?»